Il caso Apple: la mela ed il paradiso (fiscale) perduto

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Del perché Apple ha (probabilmente) torto e la Commissione ragione, ma non è detto che vincerà in tribunale. Alcune precisazioni tecniche su una questione che ha già scatenato numerose polemiche e che è di rilevanza capitale nel lungo periodo.

I termini della questione

In estrema sintesi, la Commissione UE ha deliberato sulla presunta illegittimità, rispetto alla normativa comunitaria sugli “aiuti di Stato” che violano il principio di “libera concorrenza”, di ruling fiscali (tecnicamente parlando, ATA – advanced tax agreements) concessi dalle autorità irlandesi a due società del gruppo Apple ivi residenti. L’importo da restituire, secondo la Commissione, ammonta a ben 13 miliardi di euro circa, oltre agli interessi, e si riferisce alla sommatoria delle agevolazioni irregolari ottenute nel periodo dal 2003 (la normativa degli “aiuti di Stato” retroagisce fino a dieci anni dall’inizio della procedura) al 2014 (a partire dal primo gennaio 2015 il gruppo Apple ha modificato la sua struttura fiscale irlandese, ndr). L’Irlanda (pare) ed Apple (certamente) faranno ricorso alla Corte di Giustizia europea (come previsto dalla procedura); soprattutto l’azienda di Cupertino ha negato gli addebiti sia con una “lettera aperta” alla clientela europea che tramite interviste sui maggiori media internazionali da parte di suoi manager. I principi in gioco, dipinti da molti come “(necessaria) tutela della libera concorrenza vs (auspicabile) difesa dell’autonomia nazionale in tema di fiscalità”, ma anche come “ingerenza della UE (e delle pretese fiscali in senso lato) vs tutela della libertà economica (e del legittimo risparmio fiscale)”, nonché la dimensione eclatante della cifra in sé (l’Economist si era lanciato in una previsione di “solo” un miliardo di euro circa) hanno dato il fuoco alle polveri dei commenti immediati di molti (spesso senza nemmeno aver visto bene i documenti disponibili, che pur ci sono), tanto che la confusione che si è ingenerata raggiunge livelli di guardia.

La delibera della Commissione

Con il comunicato del 30 agosto 2016, la Commissione UE ha reso noto le conclusioni a cui è pervenuta. Anche l’attuale Commissario Margrethe Vestager, sempre il 30 agosto 2016, è direttamente intervenuta con alcune precisazioni.

Nello specifico, la Commissione ritiene violata la normativa in tema di “aiuti di Stato” in seguito della concessione – da parte dell’Irlanda – di vantaggi fiscali indebiti a favore di due società del gruppo Apple, così da aver determinato una distorsione della concorrenza. Non è quindi in discussione “il regime tributario irlandese in generale né l’aliquota sulle società applicata nel paese”, attualmente pari al 12,5%, bensì due ruling fiscali (uno del 1991 e l’altro del 2007) che concedevano “modalità di determinazione degli utili imponibili […] non corrispondenti alla realtà economica” poiché “la quasi totalità degli utili veniva imputata internamente ad una sede centrale […] esistente solo sulla carta”.

Ciò si realizzava attraverso due meccanismi sovrapposti: (i) uno legato alla concessione del “diritto d’uso” della proprietà intellettuale per i territori diversi dal nord e sud America, con conseguente “accordo di ripartizione dei costi” con il quale le società irlandesi sostenevano la metà della totalità dei costi di ricerca e sviluppo di Apple su base mondiale (facendo emergere così un costo deducibile); (ii) l’altro legato all’attribuzione di una forfetizzazione del reddito imponibile tassabile in Irlanda, parametrato ad un ricarico standard della quota parte dei costi sostenuti di pertinenza della sola branch irlandese (facendo così emergere fiscalmente solo parte dei profitti effettivamente conseguiti). In buona sostanza, in forza dei ruling ottenuti, secondo la ricostruzione della Commissione, da un lato, venivano caricati all’Irlanda costi (deducibili) relativi ad attività di ricerca e sviluppo su base mondiale e, dall’altro, attratti a tassazione solo parte della base imponibile legata (forfetariamente) alle sole attività irlandesi. Volendo rappresentare sinteticamente la struttura fiscale utilizzata da Apple, occorre ricordare come tutte le vendite realizzate nei paesi europei, dai distributori e dai negozi locali (che agivano da meri depositi), venivano imputate direttamente ad una delle due società irlandesi (Apple Sales Int’l; l’altra è società di logistica/assemblaggio), tanto da generare in alcuni casi contestazioni “locali” (vedi il patteggiamento con il fisco italiano) e, nondimeno, la possibilità che anche altri paesi UE possano “rivendicare” parte del “beneficio fiscale” irregolarmente ottenuto.

La commissione, quindi, pur specificando di non avere competenza in materia fiscale, rileva dunque che, “ai fini della tutela dei principi di libera concorrenza”, i ruling concessi dall’Irlanda costituiscono, nel caso in esame, violazione della norma sugli aiuti di Stato (cfr. paragrafi successivi). Margrethe Vestager dice esplicitamente “this selective tax treatment of Apple in Ireland is illegal under EU State aid rules.” e “it gave Apple a significant benefit compared to other businesses […] tax rulings cannot endorse a method to calculate taxable profits of a business that fails to reflect economic reality”.

“This decision sends a clear message: member states cannot give unfair tax benefits to selected companies. No matter if they are European or foreign, large or small, part of a group or not”.

La risposta di Apple

L’attuale CEO di Apple, Tim Cook, ha prontamente replicato, in pari data, con una lettera aperta negando gli addebiti, soprattutto in ordine ai ruling contestati, rilevando l’incertezza giuridica conseguente (che rischia di comportare una riduzione degli investimenti in UE, oltre che di Apple anche di altre multinazionali) e sollevando obiezioni sugli effetti retroattivi della decisione della Commissione.

Anche il CFO di Apple, Luca Maestri, in un’intervista sul Corriere della Sera, è intervenuto sostenendo alcuni elementi a supporto (tra cui l’essere il maggior contribuente sia negli USA che in Irlanda) e rilevando anch’egli la questione della retroattività, pur dichiarandosi a favore di una “soluzione legislativa” che dia certezze, invece che rincorrere contenziosi ex post.

Invero, però, nessuno dei due interventi porta elementi oggettivi di dettaglio a supporto della loro linea difensiva (che, come detto, verrà sostenuta nei ricorsi alla Corte di Giustizia), lasciando anzi “aperte” alcune contraddizioni (cfr. paragrafi successivi).

La lettera della Commissione all’Irlanda

In realtà, ben più interessante ai fini dell’analisi della questione appare la lettera inviata dalla Commissione UE alle Autorità irlandesi già il’11 giugno 2014. È da questo documento che emergono infatti gli elementi maggiormente utili per comprendere i fatti e, di conseguenza, per provare a trarre un giudizio oggettivo.

Intanto, i tempi.

Nel giugno 2013, la Commissione inizia l’esame delle pratiche di ruling fiscale in alcuni stati membri, ai fini della valutazione della potenziale distorsione della concorrenza. Nel dicembre 2014 la Commissione estende a tutti gli stati membri le richieste di informazioni. Nell’ottobre 2015, vengono sanzionate (rispettivamente, per accordi in Lussemburgo e in Olanda) Fiat e Starbucks. Nel gennaio 2016, (per accordi in Belgio) è il turno di altre 35 multinazionali. Sono tuttora in corso procedure (in Lussemburgo) su Amazon e Mc Donald’s. A ottobre 2015, infine, è stato siglato l’accordo politico per uno scambio automatico di informazioni sui ruling fiscali.

Le date sono importanti. La procedura nei confronti di Apple si apre nel 2013. A giugno 2014, la Commissione scrive la lettera (prima citata) alle autorità Irlandesi. Nel 2015, Apple modifica l’organizzazione della sua struttura fiscale in Irlanda (cioè in concomitanza con la sottoscrizione dell’accordo di scambio di informazioni citato). A fine agosto 2016, la Commissione comunica la sua decisione.

Poi, la questione dei fiscal ruling.

Se Tim Cook nella sua lettera smentisce la loro esistenza con un perentorio “we never asked for, nor did we receive, any special deals”, il CFO Maestri già corregge il tiro con un meno secco “Nel 1991 e nel 2007 abbiamo chiesto alle autorità fiscali irlandesi di spiegare esattamente come operare nel paese e come pagare correttamente le tasse. È un procedimento normale che si segue specialmente quando la legislazione cambia. Ma qualunque condizione fiscale a noi applicata, era disponibile anche per le altre aziende”. Nella lettera della Commissione emerge invece – con la citazione di atti, mail e verbali – una realtà del tutto differente (cfr. capitolo 2.3.2; paragrafi 35,36,37,38 e 39). Emergono, almeno da quel documento, elementi oggettivamente sufficienti per poter considerare esistenti i ruling contestati.

Inoltre, in merito alla sede centrale – alla quale venivano imputati gli utili sottratti a tassazione – i rilievi della Commissione vertono sul fatto che “[…] non aveva né dipendenti né uffici propri. Le uniche attività che possono essere collegate alla "sede centrale" sono poche decisioni dei membri del consiglio di amministrazione (molti dei quali lavoravano contemporaneamente a tempo pieno come dirigenti di Apple Inc.) riguardanti la distribuzione dei dividendi, questioni amministrative e la gestione di tesoreria. Queste attività generavano utili in termini di interessi che, secondo l'analisi della Commissione, costituiscono gli unici utili attribuibili […]" a detta "sede centrale". Per dirlo con le parole della Vestager:

“Our decision concludes that splitting the profits did not have any factual or economic justification. As mentioned, the head office had no employees, no premises and no real activities. Only the Irish branch of Apple Sales International had any resources and facilities to sell Apple products. But under the tax rulings it was the head office that was attributed almost all of the company's profits – in fact, due to Apple's set-up, it was attributed almost all of the profits Apple made from selling products throughout Europe, the Middle East, Africa and India”.

Ancora, la questione dei numeri.

L’effetto dell’applicazione dei ruling che consentivano la ripartizione della base imponibile tassabile tra la branch irlandese e la sede centrale, calcolando la base imponibile come percentuale forfetaria di ricarico sui soli costi imputati in Irlanda, ha comportato ad esempio una crescita del carico fiscale meno (molto meno) che proporzionale rispetto al + 415% delle vendite nel periodo 2009-2012.

Nel testo della lettera si legge “In fact, […] the sales income of ASI increased by 415% over the three years 2009-2012 to USD 63.9 billion. For the same period, the operating costs as reflected by the taxable income (which represents around [8-18]% of operating costs of the branch according to the ruling of 2007) increased by [10-20]%. […] As a large part of the operating capacity of ASI as a whole seems to be located in Ireland, the discrepancy between the sales growth and the growth of the Irish operating capacity, cannot be explained” e, ancora “If the 415% increase in sales is only due to an increase in price and not an increase in volumes, it would not be inconsistent that the operating expense of the ASI branch only increase by [10-20]% over the same period. However if the sales volumes increased [as it did, NdR], the operating costs of either the Irish branch of ASI or the operating costs that ASI incurs outside of Ireland should have increased significantly as well. At this stage, the increase in sales cannot be related to a comparable increase in operating costs, which could point to an inconsistency in the profit allocation to the Irish activities.”

Emerge ancora (stavolta dal comunicato stampa del 30 agosto) che “nel 2011 (secondo le cifre comunicate durante audizioni pubbliche del Senato USA) Apple Sales International ha registrato utili per […] circa 16 miliardi di EUR […] ma a norma del ruling fiscale solo 50 milioni di EUR circa erano considerati imponibili in Irlanda: rimanevano quindi 15,95 miliardi di EUR di utili non tassati. Di conseguenza, nel 2011 Apple Sales International ha versato in Irlanda un'imposta societaria che non raggiunge i 10 milioni di EUR, corrispondenti a un'aliquota effettiva dello 0,05% dei suoi utili annuali complessivi. Negli anni successivi gli utili registrati da Apple Sales International hanno continuato a crescere, ma non quelli considerati imponibili in Irlanda secondo il ruling fiscale. Pertanto l'aliquota effettiva è diminuita ulteriormente, fino a scendere ad appena lo 0,005% nel 2014.”

Le contraddizioni di Apple

Oltre che in questo instant fact checking, vi sono anche altri elementi contraddittori nelle tesi finora sostenute da Apple. Sulla (presunta) inesistenza dei ruling si è già detto (cfr, paragrafo precedente), ma la questione ulteriore (prescindendo dalla velata minaccia sulla riduzione degli investimenti) verte, sotto il profilo tecnico, sulla regola fiscale americana di differimento delle imposte sulla parte di utili realizzati all’estero e tassabili solo al momento del loro “rimpatrio” effettivo. Nel conteggio del corporate tax rate il CFO Maestri cita infatti “Nel 2014 abbiamo riportato il 26,1% di tasse sui nostri ricavi e nel 2015 il 26,5%. Nel mondo delle imprese, queste aliquote sono piuttosto fra le più alte”.

Ora, al di là della discutibile veridicità del giudizio comparato che espone Maestri, resta il fatto che Apple ha “accantonato diversi miliardi per versamenti supplementari che faremo quando riporteremo i fondi in America". Si tratta però di imposte che al momento sono “non pagate” (rectius, “differite”) e che generano, quindi, una distorsione nel carico fiscale effettivo e del processo di armonizzazione della fiscalità internazionale. Nel merito il New York Times (articolo citato) rileva che il beneficio derivante ad Apple dalla “sospensione” della tassazione è abbastanza considerevole: “Apple has also kept more than $200 billion in accumulated profits offshore. That money could someday be brought home and taxed, but Apple is in control of whether or not that actually happens”.

La violazione della Concorrenza e la normativa sugli aiuti di Stato

La questione trova la sua ratio negli articoli 107 e 108 TFUE (cfr, per approfondimenti https://www.to.camcom.it/sites/default/files/opportunita-europa/26392_CCIAATO_1512015.pdf e, anche, http://www.osservatorioaiutidistato.eu/faq.html ).

In sintesi, una misura o un’operazione rientra nel campo di applicazione del principio di incompatibilità degli aiuti di stato, quando: (i) ha origine statale ovvero mediante risorse statali...”; (ii) concede un vantaggio “selettivo” a talune imprese o talune produzioni; (iii) falsa o minaccia di falsare la concorrenza (in ambito comunitario); (iv) incide sugli scambi tra gli stati membri. Posto l’inciso «sotto qualsiasi forma» (contenuto nella norma) è giuridicamente considerato pacifico, in via generale, che anche misure fiscali possano costituire violazioni al principio del divieto degli aiuti di Stato, (cfr. giurisprudenza della Corte di Giustizia e Comunicazione 98/C 384/03).

Sono sempre compatibili con il mercato interno, invece, gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori, a condizione che siano accordati senza discriminazioni determinate dall'origine dei prodotti, e gli aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali. Possono inoltre considerarsi compatibili con il mercato interno gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni con tenore di vita anormalmente basso o con grave sottoccupazione, ovvero gli aiuti destinati a promuovere la realizzazione di progetti di interesse europeo o a porre rimedio a crisi dell'economia di uno Stato membro; ancora, gli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse e gli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio nonché altre ipotesi di aiuti deliberati in sede UE di volta in volta.

Sotto questo profilo, nessuna di queste fattispecie pare essere utilizzabile nel caso in esame. Ciò determina, da un lato, la legittimità dell’intervento della Commissione, visti anche i precedenti giurisprudenziali (i cui estremi sono riportati nei documenti citati) e, dall’altro, sposta il fulcro della questione sulla legittimità o meno dei ruling fiscali contestati.

La competizione (fiscale) fra Stati, ruling e “transfer pricing”

Il punto centrale, quindi, diventa questo: nonostante la Commissione “in sé”, non abbia specifici poteri di intervento in materia fiscale, è la validità o meno degli accordi fiscali convenuti fra l’Irlanda e Apple a determinare gli effetti della vicenda; se sono irregolari, cioè selettivi e rilevanti sugli scambi fra gli stati membri nonché distorsivi della concorrenza in ambito comunitario, la tesi della Commissione risulterà vincente, altrimenti no.

La questione è molto controversa (tanto politicamente che in dottrina) e soggetta a numerose stratificazioni normative (locali e internazionali) cumulatesi nel tempo, tanto da essere difficilmente illustrabile esaustivamente in poche righe. Ad ogni buon conto (per maggiori approfondimenti; una interessante sintesi della questione tecnica può essere rinvenuta anche qui), di seguito si riassumono i lineamenti principali utili al fine di comprendere i punti principali.

Occorre dire che, in linea di principio, il ricorso ai ruling (rectius, come detto in premessa, ATA) non costituisce “di per sé” una violazione automatica del principio di libera concorrenza essendo, soprattutto in alcuni stati, di diffuso utilizzo (non così in Italia, dove è stato solo recentemente introdotto in casi particolari e dove è invece più diffuso lo strumento del c.d. ’interpello”, che si differenzia dal ruling poiché attiene a questioni “interpretative” di norme già esistenti e non ha contenuti “derogativi” alle stesse). Invero, il ricorso a tale strumento da parte di uno stato membro dovrebbe comunque allinearsi ai principi (sottoscritti) del TFUE, limitazioni date dagli effetti della distorsione della concorrenza e dal divieto di aiuti di stato compresi.

Semmai, occorre altresì distinguere il tema della concorrenza fiscale tra stati da quello della concorrenza tra operatori economici in ambito comunitario, poiché (come già chiarito in precedenza) non è in discussione la prima, cioè la sovranità fiscale di ciascun stato (nel caso dell’Irlanda l'aliquota di corporate tax rate del 12,5% attuale), ma la potenziale distorsione della seconda. Le stesse indicazioni dell’OCSE, infatti, affermano come - nel rispetto dell’arm’s length principle in virtù del quale il trattamento eventualmente riconosciuto ad una impresa (o ad un settore) non deve essere “selettivo” e le transazioni tra eventuali parti correlate (compresi i “riparti di costi e ricavi", come nel caso di specie) devono rispondere a condizioni e termini che sarebbero applicati dalle stesse anche in assenza di qualsiasi collegamento funzionale - il ricorso ai ruling possa essere considerato accettato.

La (il)legittimità dei ruling nel caso di specie

La Commissione, fin dalla lettera del giugno 2014, sostiene che “[…] is of the opinion that the contested rulings do not comply with the arm’s length principle. Accordingly, the Commission is of the opinion that through those rulings the Irish authorities confer an advantage on Apple. That advantage is obtained every year and on-going, when the annual tax liability is agreed upon by the tax authorities in view of that ruling.” E, ancora “That advantage is also granted in a selective manner. While rulings that merely contain an interpretation of the relevant tax provisions without deviating from administrative practice do not give rise to a presumption of a selective advantage, rulings that deviate from that practice have the effect of lowering the tax burden of the undertakings concerned as compared to undertakings in a similar legal and factual situation. To the extent the Irish authorities have deviated from the arm’s length principle as regards Apple, the contested rulings should also be considered selective. […] Given that the rulings were concluded after the entry into force of the Treaty in your country, the measure constitutes new aid within the meaning of Article 1(c) of Council Regulation (EC) No 659/1999. However, any potential recovery would be prescribed for aid granted before 12 June 2003, in accordance with Article 15 of that regulation”,

Va detto, sul punto, che – in assenza di elementi diversi a difesa delle ragioni di Apple, non ancora resi noti – da quanto emerge dai documenti analizzati (e qui via via linkati) risulta difficile non concordare con le conclusioni della Commissione sull’irregolarità dei ruling, tanto sotto il profilo della selettività (il metodo di ripartizione dei ricavi e dei costi all'interno della struttura utilizzata “non” si presta a “replicabilità” automatica) quanto sotto il profilo della “congruità” delle imputazioni contabili (fra branch irlandese e sede centrale, aggravata dalla “fittizietà” di quest’ultima).

Chi deve pagare (e perché) e a chi

Dando per acquisiti gli elementi e i ragionamenti fin qui espressi e ricordando come, in presenza di ricorsi da parte di Apple e dell’Irlanda, l’ultima parola spetterà alla Corte di Giustizia, restano sul tappeto ancora alcune questioni che hanno generato discussioni fra i non addetti ai lavori (ma che, invero, sono semplici da dirimere conoscendone gli aspetti tecnici). Queste questioni consistono nel periodo temporale di riferimento, nel soggetto tenuto a pagare e nel soggetto che ha il diritto ad incassare.

Il riferimento temporale è sancito dal TFUE stesso, e trova un limite nei dieci anni antecedenti alla prima richiesta di informazioni. Essendo questa del 2013, il riferimento temporale sarà 2003-2014 (poiché dal 2015 Apple, come già rilevato, ha modificato la sua struttura fiscale).

Il soggetto tenuto a pagare è, ai fini della normativa in esame e in linea con tutti i precedenti (per esempio), l’impresa che ha beneficiato degli aiuti irregolari (in questo caso costituiti da minori imposte per vari anni, che hanno aumentato la disponibilità finanziaria destinabile ad investimenti da parte di Apple), quindi nel caso di specie, Apple. Ciò è anche di logica linearità stante che, non trattandosi di una “multa”, ma di una “restituzione” di un indebito vantaggio, questo si è generato gravando sui contribuenti dello stato che non ha incassato le imposte altrimenti dovute e, qualora si imputasse a quest’ultimo il pagamento, i suoi cittadini (taxpayers) si vedrebbero gravare di un doppio danno (il vantaggio concesso all’impresa e la restituzione con le proprie tasche).

Infine, chi incasserà le somme contestate. Non l’UE, che non è parte in causa sotto il profilo sostanziale, ma lo stato che ha concesso il ruling irregolare, nel caso di specie l’Irlanda. Ciò deriva come ovvia conseguenza dal perché a pagare è tenuta l’impresa beneficiaria e in capo allo stato concedente vige l’obbligo di adempiere all’escussione delle somme. Questo anche perché il beneficiario ultimo di quelle somme non necessariamente sarà solo quest’ultimo. Infatti, per effetto di ciò che emergerà dalla decisione della Commissione, dagli atti che verranno presentati in processo e dalla sentenza della Corte di Giustizia, ben potrebbero scaturire (soprattutto nel caso in esame, stante la logica distributiva dei prodotti utilizzata e prima descritta) pretese fiscali da parte di altri stati membri per la loro quota parte eventualmente spettante ove si rilevassero violazioni alle singole normative interne (c.d. “effetto domino” derivante dall’irregolarità a monte). In tale evenienza (tutta da verificare nella sua concretizzabilità) l’ammontare stabilito del risarcimento spettante all’Irlanda verrà ridotto in tutto o in parte da quanto eventualmente rivendicato da altri paesi membri.

Quindi, come finirà (per quel che si può prevedere ora)?

Difficile, nonostante tutto, dirlo. Intanto perché non sono disponibili (per ora) “tutti” i documenti necessari e (soprattutto) la cristallizzazione delle linee difensive dei soggetti ricorrenti. Poi perché la Commissione, nel suo operato, non ha illustrato (ad ora) il criterio oggettivo della determinazione della cifra dei 13 miliardi di Euro, così che risulta oggi impossibile pronunciarsi su questo punto. Presumibilmente, sarà proprio questo uno dei temi su cui verteranno le tesi difensive, cercando di ridurre la base imponibile per ottenere la riduzione delle imposte da restituire. Infine, perché le pressioni politiche (ed economiche) a vario livello (anche internazionale, da parte degli USA in particolare), stante la rilevanza eclatante della cifra e del soggetto debitore, si faranno sicuramente sentire ed è difficile prevederne gli esiti.

Resta fermo un fatto. La Commissione pare essersi mossa nel rispetto sia dei suoi poteri che nella ricostruzione della “selettività” dei ruling contestati. Ciò rilevato, chiunque abbia a cuore la “certezza del diritto” (proprio quella che invoca nella sua lettera Tim Cook) non può che augurarsi che si tenga fede al principio della tutela della concorrenza e dell’indisponibilità a concordare imposte “ad personam” lesive di quest’ultima. Le imposte "ad personam", oltre a violare i presupposti del principio liberale di pari trattamento e di neutralità fiscale sui mercati, rischiano di essere foriere di nuove corruttele e di un ritorno ad impropri ed opachi vassallaggi.

Le imposte è senz'altro opportuno che siano il più possibile contenute (per più ragioni di efficienza economica), la sovranità fiscale dei singoli Stati non è qui assolutamente in discussione e la competizione fiscale (fra stati membri) nemmeno. Ma questi tre principi o scopi o metodi di governo vanno gestiti/perseguiti/implementati “a pari condizioni”, non “ad personam”, ed all’interno di un quadro di regole sovranazionali ben definito - com'è il TFUE o come sono i principi OCSE. La fiscalità può creare distorsioni della concorrenza sia quando è artificiosamente e selettivamente bassa, sia, invero, quando è palesemente elevata se, di nuovo, questo avviene solo per alcuni a favore di altri. In entrambi i casi occorre rimuovere la distorsione in capo al singolo (o ai singoli, nel caso di privilegio/danno d'un gruppo specifico) poiché danneggia la libera concorrenza. Meriterebbe rinnovata analisi anche il secondo caso, quello di elevata tassazione concentrata solo su certi soggetti economici costretti a concorrere con altri che a tale eccessiva tassazione non sono esposti. Un tema trascurato dai più e senz'altro, che io sappia, dalla Commissione. 

Voglio infine sottolineare, in chiusura, che difendere e sostenere pratiche distorsive, siano esse il ricorso ai ruling irregolari o il ricorso a pratiche evasive (si, anche l’evasione genera, economicamente parlando, effetti sulla concorrenza), non risponde affatto a principi liberali.

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Commenti

Ci sono 21 commenti

 

In sintesi, una misura o un’operazione rientra nel campo di applicazione del principio di incompatibilità degli aiuti di stato, quando: (i) ha origine statale ovvero mediante risorse statali...”; (ii) concede un vantaggio “selettivo” a talune imprese o talune produzioni; (iii) falsa o minaccia di falsare la concorrenza (in ambito comunitario); (iv) incide sugli scambi tra gli stati membri.

 

Vorrei sapere se le condizioni su riportate sono tutte in AND oppure in OR.
Nel primo caso la difesa di Apple potrebbe tentare di inficiare anche una sola delle condizioni.
Per esempio come si valuta se un tax ruling incide sugli scambi tra stati membri?


quelle condizioni sono in AND; poi ci sono condizioni de iure di esclusione e altre "facoltative" tramite richiesta di delibera ex ante

Esattamente su che basi la Commissione alla concorrenza sostiene che ad Apple e' stato dato un trattamento di favore negato ad altre aziende? In uno stato di diritto e' l'accusa che deve dimostrare la colpevolezza, non la difesa l'innocenza. Invece di fare cio', che e' l'unica cosa che conta in questo caso, mi pare che la Commissione si dilunghi su altre questioni irrilevanti come il fatto che ci sia una sede centrale "fittizia".  In realta', sotto legislazione irlandese una societa' anche incorporata in Irlanda e' considerata non residente se e' gestita da fuori dall'Irlanda, e in tal caso non e' soggetta a tasse su redditi che non derivino da attivita' commerciali svolte da una sua sede o agenzia su territorio irlandese. Il fatto che questo sia precisato da uno specifico articolo di legge (Section 25 TCA 1997) dovrebbe bastare a chiarire che non c'e' niente di fittizio. E, se anche la Commissione fosse di diverso avviso, cio' non sarebbe di competenza sua o dell'UE in quanto materia fiscale.

La questione va analizzata in un'ottica di attribuzione dei profitti. Da una lettura non approfondita della documentazione mi pare di aver capito che i redditi dell'entità irlandese siano stati erosi da royalties pagate alla società offshore. Il fatto che l'irlanda non abbia una norma antielusiva che "attrae" i redditi di entità fittizie non è in discussione e non è competenza della Commissione. E' il fatto che l'irlanda abbia permesso una erosione della sua base imponibile verso una entità completamente priva di funzioni/asset/rischi assunti, il fulcro della critica. Perché la quantità di profitti allocati dipende perlopiù da queste tre caratteristiche.

che vi siano due fattori rilevanti.

1) Si tratta di un fiscal ruling diretto ad un'azienda e ad una sola. Niente di generale applicabile automaticamente erga omnes, quindi, ma una decisione specifica per un'azienda specifica con caratteristiche specifiche alla quale è stato attribuito uno sconto non sulla base di regole generali ma su valutazioni ad hoc, valide solo per Apple. Certo, sarebbe rilevante sapere (ho chiesto in vari luoghi e mai ho ricevuto una risposta in un senso o in un altro) se esistono esempi in cui un'altra azienda abbia ricevuto lo stesso fiscal ruling o, viceversa, gli sia stato negato. L'esistenza di un tal caso, in positivo o negativo, eliminerebbe ovviamente l'incertezza portando evidenza, rispettivamente, nell'una o l'altra direzione.

2) La Commissione contesta la legittimità del transfer pricing adottato, che è necessariamente ad hoc e valido solo per Apple. In questo afferma due cose: (i) il trasnfer pricing qui adottato vale solo per Apple, (ii) è economicamente ingiustificato ed insostenibile per le ragioni spiegate da Francesco Renne nell'articolo.  

come rilevato nell'articolo, la Commissione "non ha" competenza in materia fiscale e "non" entra nella materia come entrerebbe un "verificatore fiscale" (cioè non viene contestata la legittimità di singole disposizioni normative e nemmeno la possibilità di ricorrere a ruling IF questi rispettino la normativa degli aiuti di stato) ma - come si evince dalla lettura - ha poteri di intervento (con numerosi precedenti, fra l'altro, anche svallati dalla giurisprudenza della corte di giustizia) ove vi sia (i)distorsione della concorrenza (ii) per effetto di violazione della normativa sugi aiuti di stato, (iii) che si ha, nel caso di specie, ove si sia in presenza di "accordi" irregolari (casi di "non replicabilità", "selettività", "abuso del diritto", etc);

nel caso Apple, i ruling sono - per quanto emerge dalla documentazione analizzata e nelle more di valutare le eventuali tesi difensive ulteriori - considerati "selettivi" (effetto "ad personam") in quanto "non replicabili" (la norma cui fai riferimento non è in discussione; la "procedura" di quantificazione dell'imponibile, lo è: se leggi la lettera della Comisiione del 2014 emerge un quadro di "contrattazione" alquanto "desolante" rispetto alle prassi corrette Ocse) e "privi di effettività economica" (cioè rientranti nella fattispecie di "abuso del diritto", diremmo in Italia, "anche" per via della fittizietà della "sede centrale": se questa "non esiste", viene meno la sua attività e quindi, conseguentemente, l'aplicabilità della norma che citi).

infine, quanto all'onere della prova, questo spetta si alla Commissione (la "procedura" consta infatti di accessi e richieste documentali e testimoniali proprio per "valutare" l'esistenza io meno di profili di "accusa") e le parti hanno facoltà di ricorere alla corte di giustizia, che sarà deputata a decidere sul caso; sarà solo li che accusa e difese eveleranno "tutte" le loro armi. resta fermo il fatto che, leggendo analiticamente tutte le carte ad ora disponibili, il quadro è quello che ho cercato di descrivere nell'articolo.

Complimenti, veramente. Lei ha esposto tutti gli aspetti e le implicazioni della questione in modo assolutamente impeccabile, mettendo ordine nel caos di cattiva informazione che è sorto intorno alla faccenda. Ragionando ad alta voce, credo che, tra i futuri effetti del caso Apple, ci potrebbe essere anche il seguente: una conferma giurisprudenziale dell'intervento della Commissione potrebbe legittimare una sua forte inziativa in direzione dell'armonizzazione fiscale dell'EU e rafforzare l'ipotesi di una esplicita attribuzione ad essa di nuovi poteri in materia fiscale proprio al fine di un più efficace enforcement delle sue funzioni in materia di tutela delle concorrenza e del mercato interno. Con tutto quel che ne conseguirebbe in termini di evoluzione dell'assetto istituzionale dell'EU e del processo di integrazione.

come chiarito dall'Autore in modo davvero semplice, preciso e circostanziato:

 

Non è quindi in discussione “il regime tributario irlandese in generale né l’aliquota sulle società applicata nel paese”, attualmente pari al 12,5%, bensì due ruling fiscali (uno del 1991 e l’altro del 2007)”.

 

La Commissione non sta entrando nel merito di una aliquota fiscale troppo bassa, ma che solo Apple (e le altre che sicuramente sono in sua compagnia) ne ha beneficiato.

L'effetto indotto da questa decisione, se confermata dalla Corte, è quindi la fine dei ruling (ATA) tra imprese e singoli Stati! Ossia la fine di una pratica sistematica che ha comportato l'accumulazione di ingenti risorse finanziarie off shore per imposte non versate nei paesi di origine.

Questo, per inciso, dalla prospettiva di un analista del valore dell'azienda Apple (insomma: il prezzo delle sue azioni) è un rompicapo da anni, perchè 

 

la regola fiscale americana di differimento delle imposte sulla parte di utili realizzati all’estero e tassabili solo al momento del loro “rimpatrio” effettivo.

 

ha determinato che

 

“Apple has also kept more than $200 billion in accumulated profits offshore. That money could someday be brought home and taxed, but Apple is in control of whether or not that actually happens”.

 

In breve: se il business di Apple vale, diciamo, 1000 e la cassa accumulata vale 200, una azione vale la frazione di 1200.... o no? Ecco il rompicapo nella valutazione: quante imposte dovrà pagare Apple per utilizzare liberamente i 200 accumulati off shore?

Nessuno lo sa

grazie; si, concordo con l'ipotesi che tratteggia (anche se il percorso non sarà breve)

 

Meriterebbe rinnovata analisi anche il secondo caso, quello di elevata tassazione concentrata solo su certi soggetti economici costretti a concorrere con altri che a tale eccessiva tassazione non sono esposti. Un tema trascurato dai più e senz'altro, che io sappia, dalla Commissione.

 

Esiste questa casistica? Sappiamo che sono emersi casi di tax ruling per tassazioni selettivamente di favore (vedere i LuxLeaks) ma non ho presente il caso inverso. In Italia la tassazione è elevata un po' per tutti (evasori a parte) e non ho mai saputo di particolari aziende oggetto (selettivo) di una tassazione ancora piu' elevata, a parte quando sono oggetto di sanzioni, multe etc.
Certo che se fosse il caso, allora bisognerebbe ipotizzare un intervento per "danno di stato". Casistica che in effetti mi sembra trascurata, se non del tutto inconcepita.

il tema meriterebbe - come accenato nell'articolo - una trattazione autonoma ed approfondita