Democrazia, disuguaglianza e conflitto: indicazioni dalla third wave

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Qualche daterello per spiegare come e perché Winston Churcill si sbagliasse. Non sempre, infatti, la democrazia rappresenta la "peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora". Almeno per quanto concerne lo sviluppo economico.

Gli ultimi trent'anni sono stati caratterizzati da una diffusione senza precedenti delle istituzioni democratiche. Nel corso della cosiddetta third democratization wave in oltre 60 paesi, distribuiti abbastanza uniformemente sui 6 continenti, regimi autocratici di varia natura sono stati sostituiti da democrazie. Secondo i recenti dati della World Values Survey, ormai anche in contesti tradizionalmente autocratici, come in alcuni degli Stati in cui larghe maggioranze professano l'islamismo o il confucianesimo, la democrazia è diventata la forma di governo preferita, il modello cui aspirare.

Questa visione è stata rafforzata dalla martellante azione di propaganda di molti governi ed istituzioni sovranazionali. Dopo l'11 Settembre la diffusione della democrazia nel mondo è diventata la pietra angolare della politica estera statunitense (qui) mentre le Nazioni Unite hanno di recente dato vita ad un fondo speciale inteso a supportare i processi di democratizzazione in corso. Le istituzioni democratiche ci sono state presentate via via come una panacea per risolvere le principali piaghe del XXI secolo: la povertà, la corruzione e la cattiva governance, e negli ultimi anni anche il terrorismo (qui).

Ma è davvero così?

In realtà i dati a nostra disposizione suggeriscono (if anything) semplicemente l'esistenza di una debole correlazione fra qualità delle istituzioni democratiche e implementazione di politiche economiche growth-oriented ed efficaci nella lotta alla povertà. Come mostrato dalla Figura 1, paesi molto simili per quanto riguarda il rispetto dei diritti civili e politici (misurati per mezzo del POLITY IV index) risultano invece estremamente eterogenei per quanto concerne la qualità della governance pubblica e, più in generale, l'estensione della rule of law (qui si fa uso della misura comunemente impiegata dalla World Bank, si veda Kauffman (2004) per ulteriori dettagli).

Figura 1. Qualità delle istituzioni democratiche e Rule of Law. Fonti: CIDCM (2005) e World Bank (2005).

Democratizzazioni Consensuali e Conflittuali

La qualità delle cosiddette istituzioni economiche non è comunque l'unico aspetto in cui le democrazie differiscono. Anche il processo attraverso il quale i diversi paesi adottano istituzioni democratiche, infatti, non è affatto omogeneo.

Per quanto concerne le esperienze della third wave, in alcuni casi la transizione è avvenuta in maniera conflittuale dopo sollevazioni popolari più o meno violente che hanno costretto le elite ad abbandonare il potere ed a concedere estensioni progressive del diritto di voto. Molti paesi latino-americani hanno vissuto esperienze di questo tipo negli anni 80, come il Guatemala dove libere elezioni sono state introdotte solo nel 1986 dopo una lunga e sanguinosa guerra civile fra la dittatura militare ed un gruppo rivoluzionario di stampo leninista (l'Unidad Nacional Revolucionaria Guatemalteca, che deporrà definitivamente le armi solo nel 1996). In altri casi invece il processo è stato di natura più consensuale: le elite stesse si sono fatte promotrici di un cambiamento potenzialmente vantaggioso per l'intera società. Si pensi ad esempio alle riforme democratiche introdotte dal Kuomintang (KMT) a Taiwan a partire dal 1986 e dopo 38 anni di legge marziale.

Per capire come mai in alcuni casi le elite si sono opposte al cambiamento mentre, in altri, hanno rappresentato una delle forze promotrici è necessario comprendere a fondo le caratteristiche principali di un sistema democratico. In democrazia la maggioranza uscita dalle urne ha libertà di ridisegnare la politica economica ed, in particolare, la politica redistributiva. Ne consegue che un sistema democratico è riconosciuto ed accettato solo laddove i costi di una eventuale sconfitta sono relativamente contenuti per tutte le parti sociali. In contesti caratterizzati da una distribuzione delle risorse molto diseguale e laddove queste risorse risultano facilmente espropriabili (come nel caso di giacimenti minerali e petrolio), istituzioni democratiche facilitano l'implementazione di politiche marcatamente redistributive. Di conseguenza, in contesti di questo tipo, le elite economiche rinunciano al controllo del potere politico soltanto come extrema ratio e di fronte a sollevamenti popolari non più controllabili. Viceversa, in presenza di una distribuzione della ricchezza pia eguale (o in contesti in cui la ricchezza è molto mobile e dunque difficilmente tassabile) la pressione redistributiva è generalmente più contenuta e le elite possono dunque trovare profittevole l'introduzione di un sistema democratico che, per sua natura, conferisce una maggiore legittimità alle istituzioni facilitando così lo sviluppo economico.

La Freedom House (2005) classifica le democratizzazioni della third wave secondo l'intensità' della violenza (i.e. il livello di conflittualità) che ne ha caratterizzato la fase di transizione. In particolare, la suddivisione è su 4 livelli: "High Violence", "Significant Violence", "Mostly Nonviolent" e "Nonviolent".

Nella Figura 2 le nuove democrazie sono divise in due gruppi in base al valore assunto dall'indice di Gini l'anno precedente al cambio di regime (i valori del Gini sono tratti dal World Income Inequality Database). I paesi con un indice al di sotto della media campionaria sono inseriti nella categoria "equal", mentre gli altri compongono la categoria "unequal". La figura mostra in maniera evidente come, in linea con l'ipotesi discussa, la gran maggioranza dei paesi che al momento della democratizzazione godeva di una distribuzione del reddito relativamente equa hanno vissuto una transizione sostanzialmente pacifica (i.e. consensuale); al contrario i livelli di conflitto sono stati elevati per oltre i due terzi dei paesi che hanno cambiato regime in condizioni di elevata disuguaglianza.

Figura 2. Disuguaglianza e democratizzazione. Fonti: Freedom House (2005) e WIID (2005).

Cambio di regime, Conflitto e Governance Pubblica

I dati raccolti dalla Freedom House sono anche utili per studiare eventuali differenze nella qualità della governance pubblica di paesi caratterizzati da differenti livelli di conflitto durante la fase di transizione. La Figura 3 mostra come quei paesi che sono stati in grado di dotarsi istituzioni democratiche in maniera pacifica risultino in media i più virtuosi per quanto concerne la governance pubblica ed il rispetto dei diritti di proprietà.

Figura 3. Democratizzazione e qualità della governance. Fonti: Freedom House (2005) e World Bank (2005).

In particolare, circa il 70% dei paesi che hanno cambiato regime in uno scenario conflittuale (i.e. "Significant" o "High Violence") fanno segnare valori dell'indice di rule of law al di sotto della media campionaria al contrario di quelli in cui la democratizzazione è stata sostanzialmente consensuale.

Come si spiega questa marcata correlazione negativa tra conflittualità nella fase di transizione e qualità della governance pubblica?

Torniamo ancora una volta all'analisi delle istituzioni democratiche. A differenza di altre forme di governo, la democrazia rappresenta una forma di contratto sociale stipulato fra i cittadini. Il suo funzionamento pertanto dipende dall'adempimento degli obblighi contrattuali. Se una parte cospicua della popolazione disconosce l'autorità' del governo centrale (i.e. i termini del contratto), i costi della sua azione crescono esponenzialmente mentre la sua efficacia viene pesantemente intaccata (per dirla con Rousseau, "toute loi que le peuple en personne n'a pas ratifié est nulle - ce n'est point une loi"). Le singole parti sociali a loro volta si conformano alle scelte del governo soltanto qualora possano trarne benefici tangibili. L'esistenza di questa relazione di causalità bidirezionale tra scelte pubbliche e comportamento privato delle singole parti sociali, rende possibile l'emergere di differenti equilibri in un sistema democratico. In contesti in cui le politiche implementate svantaggiano parti cospicue della popolazione l'azione del governo (privo della necessaria legittimità) viene pesantemente intaccata, viceversa laddove le politiche implementate risultano favorevoli ad un'ampia maggioranza le istituzioni risultano più stabili ed efficienti.

Una transizione consensuale rappresenta per sua natura un miglioramento paretiano e, di conseguenza, conduce ad un equilibrio del secondo tipo. Le politiche reditributive implementate dal neonato governo democratico beneficiano, infatti, le fasce più povere della popolazione. L'elite invece, i cui costi in termini di redistribuzione sono contenuti alla luce della limitata disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, accettano l'imposizione fiscale al fine di conferire legittimità all'azione di governo e migliorare la qualità della governance pubblica. È proprio questo aspetto infatti, la possibilità di instaurare un governo riconosciuto dalle diverse parti sociali ed in grado di operare agevolmente, che spinge ab origine l'elite ad estendere il franchise quando la distribuzione della ricchezza è relativamente equa. Viceversa, dopo una transizione conflittuale l'elite spodestata risulta pesantemente danneggiata dalle politiche redistributive del nuovo governo e di conseguenza finisce con l'addottare posizioni di resistenza (ad esempio per mezzo di una massiccia evasione fiscale, oppure investendo parte del proprio capitale in nero, nell'economia informale), rendendo così molto difficile il corretto funzionamento delle neonate istituzioni.

I dati a nostra disposizione ci suggeriscono dunque che solo in alcuni ben delineati contesti socio-economici l'implementazione di istituzioni democratiche è strumentale per l'ottenimento di una migliore governance pubblica e quindi per dar linfa al processo di sviluppo economico. In altri invece la neonata democrazia è destinata a rivelarsi fragile ed incapace di garantire le condizioni necessarie per favorire lo sviluppo.

Interventi esterni: il ruolo della comunità internazionale

Per il momento ci siamo limitati ad esaminare le differenze fra episodi di democratizzazione endogena, situazioni cioè in cui il cambio di regime è il risultato di dinamiche interne. A volte però l'estensione dei diritti civili e politici si deve all'azione di forze esterne più che a dinamiche interne, come nel caso di interventi militari e di peacekeeping operati dalla comunità internazionale o da singoli stati. Interventi militari hanno ad esempio spinto alla democratizzazione di Panama e della Cambogia, mentre forti pressioni di natura economica e politica hanno agevolato il collasso dei regimi autoritari in Malawi e Nepal.

L'intervento della coalizione dei volenterosi in Irak ed il cambiamento istituzionale che ne è conseguito, così come (in misura minore) l'esperienza Afgana, ci insegnano che la rimozione di un regime autoritario, e l'introduzione di libere elezioni, non sono comunque sufficienti a garantire la nascita di una democrazia stabile e funzionante. Ciò non significa necessariamente che l'Islam o la cultura Araba siano di per sé inadatte all'introduzione di istituzioni democratiche. Al contrario, l'ipotesi sviluppata in questo articolo suggerisce che le decisioni relative ad un intervento della comunità internazionale (di natura economica, politica o militare che sia) debbano essere subordinate ad una valutazione delle caratteristiche socio-economiche del paese in questione. Politiche tese a forzare un cambiamento di regime dovrebbero essere intraprese solo in contesti di relativa equa distribuzione delle risorse e laddove l'economia non si basi esclusivamente su risorse naturali e petrolio.

Queste conclusioni di policy sono corroborate, ancora una volta, dai dati a nostra disposizione relativi third wave. La Figura 4, infatti, mostra l'esistenza di una marcata correlazione negativa fra il livello di disuguaglianza nella distribuzione delle risorse l'anno precedente alla transizione e la qualità della governace della neonata democrazia per quanto concerne i 16 paesi che, secondo l'indagine della Freedom House, hanno cambiato regime a seguito di interventi esterni.

Figura 4. Democratizzazione, Disuguaglianza e qualità della governance nei paesi dove vi è stato un intervento esterno. Fonti: Freedom House (2005), WIID (2005) e World Bank (2005).

Risultati analoghi si ottengono guardando alla correlazione fra distribuzione del reddito e qualità dei diritti politici e civili garantiti nelle nuove democrazie.

Il caso dell'Irak si inserisce perfettamente in questo quadro: l'enorme disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza ed il fatto che questa disuguaglianza sia fondata sul controllo di risorse naturali facilmente espropriabili, rende istituzioni democratiche funzionanti potenzialmente costosissime per quell'elite che ha beneficiato in maniera esclusiva delle risorse durante la dittatura (i Sunniti).

In conclusione, se da un lato le recenti esperienze della third wave sembrano sconfessare l'ideologia neocon che ha segnato la politica estera dell'amministrazione americana negli ultimi anni, dall'altro ci mettono anche in guardia da quelle posizioni altrettanto ideologiche che suggeriscono la generale impossibilità di agevolare (tramite un intervento esterno) la nascita di istituzioni democratiche stabili ed efficienti. Rinunciare alla presunzione di poter "esportare" la democrazia indipendentemente dalle caratteristiche del paese in questione, infatti, non significa che, in particolari contesti, interventi esterni (anche di natura militare) non possano risultare efficaci.

 

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Commenti

Ci sono 10 commenti

 

Al contrario, l'ipotesi sviluppata in questo articolo suggerisce che le

decisioni relative ad un intervento della comunità internazionale (di

natura economica, politica o militare che sia) debbano essere

subordinate ad una valutazione delle caratteristiche socio-economiche

del paese in questione. Politiche tese a forzare un cambiamento di

regime dovrebbero essere intraprese solo in contesti di relativa equa

distribuzione delle risorse e laddove l'economia non si basi

esclusivamente su risorse naturali e petrolio.

 

Ma in tali contesti non c'e' comunque bisogno di interventi esterni finalizzati al cambio di regime: l'evoluzione politica, come nota anche questo articolo, segue spontaneamente quella economica. Parliamoci chiaro: nessun intervento militare, o anche solo pressione politica ed economica da parte di altri stati, e' mai stato motivato dall'altruismo.

Inoltre, vorrei notare che "democrazia" e "liberalismo politico" sono due cose ben distinte, e anche se in Occidente si sono spesso evolute in modo congiunto, lo stesso non e' necessariamente vero in altre parti del mondo. Vedi p.es. il famoso articolo di Fareed Zakaria (poi espanso in un libro) "The Rise of Illiberal Democracy".

 

 

 

Inoltre, vorrei notare che "democrazia" e "liberalismo politico" sono

due cose ben distinte, e anche se in Occidente si sono spesso evolute

in modo congiunto, lo stesso non e' necessariamente vero in altre parti

del mondo. Vedi p.es. il famoso articolo di Fareed Zakaria (poi espanso

in un libro) "The Rise of Illiberal Democracy".

 

 

C'e' stata anche una tradizione liberale e antidemocratica, purtroppo estintasi quasi del tutto nella seconda meta' del ventesimo secolo (a parte per poche figure isolate e di scarso rilievo). A questo proposito consiglierei di leggere Liberty or Equality di Kuehnelt-Leddihn. La sintesi del suo pensiero e' che liberta' ed eguaglianza sono obiettivi che portano in direzioni opposte.

 

 

 

Vedi p.es. il famoso articolo di Fareed Zakaria (poi espanso in un libro) "The Rise of Illiberal Democracy".

 

Sullo stesso tema (ma senza illusioni sulla "democrazia liberale") consiglierei di leggere "Democratizing the Middle East: A Conservative Perspective?" di Alexander Growth.

 

enzo:

non credo che la democrazia segua spontaneamente lo sviluppo economico. i paesi che sono cresciuti maggiormente negli ultimi 150 anni non hanno infatti mostrato nessuna particolare tendenza a diventare democratici (qui). inoltre le istituzioni democratiche si sono rivelate fragilissime anche in paesi relativamente ricchi come la Germania prima della WWII e l'Argentina degli anni 50, mentre la success story della Botswana ci insegna come queste istituzioni possano fiorire anche in contesti di estrema poverta'.

la democrazia tende ad emergere spontaneamente solo quando vengono meno i conflitti fra le distinte parti sociali. solo laddove lo sviluppo economico e' accompagnato da una riduzione della diseguaglianza e da un piu' generale riallineamento degli interessi, dunque, sara' verosimilmente seguito da un cambio di regime. in questo senso (e solo in questo senso) lo sviluppo puo' essere inteso come strumentale all'implementazione di istituzioni democratiche.

per quanto concerne gli interventi esterni (e non solo quelli di natura militare), il mio argomento c'entra poco con l'altruismo. indipendentemente infatti da quelle che siano state le ragioni per le quali la comunita' internazionale o singoli stati siano intervenuti, in alcuni casi le neonate democrazie si sono rivelate stabili ed efficenti nell'implementazione di politiche growth-oriented. quando? quando nonostante un generale consenso per la democrazia fra le distinte parti sociali, una ristrettissima elite riesce a mantenere il potere grazie all'appoggio delle forze armate (come nel caso del Generale Manuel Noriega a Panama, ad esempio). 

 

 

In conclusione, se da un lato le recenti esperienze della third wave sembrano sconfessare l'ideologia neocon che ha segnato la politica estera dell'amministrazione americana negli ultimi anni, dall'altro ci mettono anche in guardia da quelle posizioni altrettanto ideologiche che suggeriscono la generale impossibilità di agevolare (tramite un intervento esterno) la nascita di istituzioni democratiche stabili ed efficienti. Rinunciare alla presunzione di poter "esportare" la democrazia indipendentemente dalle caratteristiche del paese in questione, infatti, non significa che, in particolari contesti, interventi esterni (anche di natura militare) non possano risultare efficaci.

 

Relativamente a questo aspetto, mi sento di richiamare l'insegnamento di un liberale, uno di quelli veri, John Stuart Mill. Nei suoi scritti in politica estera Mill fu illimunante. Spiegò infatti che se un popolo non ha i mezzi (per essere più chiari: la forza) di liberarsi da solo da un regime assoluto e ottenere la libertà, esso non avrà neanche la forza di difendere autonomamente la neo-acquisita libertà. Con tutte le implicazioni del caso. Ciò, ovviamente, non vuole dire fregarsene dei popoli sottomessi, ma guardare ai fatti reali e abbandonare vulgate a volte un po' troppo fantasiose del tipo "tutti i popoli vogliono la democrazia".