Dialogo sull'immigrazione. Parte 2.

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Seconda puntata del dialogo sull'immigrazione. La prima puntata era apparsa il 6 febbraio 2018.

Aldo. Abbiamo chiarito che ci possono essere diversità fra immigrati e nativi. Vediamo ora quali sono, e che effetto hanno. Per chiarire la discussione una dichiarazione sul metodo è essenziale. Gli economisti ragionano da economisti, con gli strumenti che hanno imparato, ed è naturale. Per molte questioni, questi strumenti vanno benissimo: per esempio, per finanza siamo a posto. Per altre, l’economia è una scienza che ha bisogno (secondo me) di un aggiornamento profondo, e si comincia a vedere. Ho cercato di spiegarlo altrove, lo faccio anche qui guardando a cosa significa per la questione dell’immigrazione. Una descrizione accattivante dell’immigrazione è che gli immigranti vengo in Italia a fare i lavori che gli italiani non vogliono fare. Ci si scorda di dire due cose. La prima, che gli italiani “non vogliono fare quei lavori ai salari di equilibrio raggiunti con l’emigrazione”. C'è una letteratura sconfinata sull’argomento, ma non ci vuole un Ph.D. in economia: qui (a Minneapolis, e il ragionamento vale per l’Italia) io ho avuto dieci anni fa preventivi per un certo lavoro, tutti intorno ai 10 mila dollari. Due mesi fa, per un lavoro analogo, ancora preventivi di 10 mila dollari, con una eccezione di 4 mila, da una compagnia che usa immigrati messicani. Naturalmente il mio carpentiere precedente non vuole fare il carpentiere a quelle condizioni. E ci si scorda anche di dire che se attiriamo persone adatte a quei lavori, questa sarà la popolazione che avremo nel futuro. Idealmente (se potessimo), vorremmo attirare persone che sanno fare lavori che noi non sappiamo fare. A volte può andar bene: per esempio nei primi del novecento il Brasile ha avuto una alta immigrazione di giapponesi che andavano a raccogliere tè e caffè.  Ma venivano da un paese che qualche anno prima aveva annientato la flotta russa, anche grazie all’uso della comunicazione radio, per la prima volta nella guerra marina.

Giulio. Beh, per il fenomeno che hai appena discusso (la concorrenza degli immigrati sul mercato del lavoro) gli strumenti degli economisti vanno benissimo, non vedo cosa ci sia da aggiornare. I carpentieri a qualifica medio-bassa, americani o italiani che siano, non sono contenti, nel breve periodo, che arrivino immigrati. L’effetto degli immigrati sul mercato del lavoro è il tema più studiato e, probabilmente, anche il meno interessante ai fini di questo dialogo. Io e Alberto Bisin l’abbiamo riassunto in 17 righe e mezzo (contate) nella sezione 2.1 di questo articolo. La descrizione “accattivante” che hai riassunto non è affatto ovvia, sono d’accordo, ma non è ovvio nemmeno il contrario. Quale sia il grado di sostituibilità o di complementarità tra lavoratori immigrati e nativi (e quindi quale sia l’impatto dell’immigrazione sulla produttività e i salari di diversi settori delle economie riceventi) è qualcosa su cui ancora non c’è consenso nella letteratura scientifica. Il tuo precedente carpentiere possiede delle abilità (parla perfettamente l’inglese rispetto a quello zoppicante del suo concorrente messicano e quindi capisce meglio tutti i dettagli di quello che gli viene ordinato di fare, per esempio) che non lo rendono un perfetto sostituto del concorrente immigrato. Inoltre, in Italia e in gran parte degli altri paesi europei esistono contratti collettivi che rendono improbabile una pressione al ribasso sui salari dei lavoratori dipendenti. In Italia è quindi più probabile che davvero gli immigrati facciano lavori che gli italiani non vogliono fare a salari contrattuali precedenti l’immigrazione.

Quanto ad attirare emigranti che sanno fare lavori che noi non sappiamo fare (o che sappiamo fare peggio) questo è quello che in un mercato concorrenziale fanno i salari. Siccome il nostro mercato del lavoro è poco concorrenziale, niente impedisce al governo di concedere permessi di lavoro per svolgere specifici lavori. In ogni caso, questa degli effetti negativi sul mercato del lavoro è davvero una red herring. Quando Salvini e Berlusconi promettono di chiudere le porte all’immigrazione non stanno cercando il voto dell’operaio a bassa qualifica (e anzi stanno perdendo il voto della donna dirigente che ha bisogno della badante ucraina e della nanny filippina per poter sostenere la propria carriera), ma stanno facendo leva su timori di tipo culturale, che sono palpabili e che vanno presi seriamente. Spiegami quindi meglio cosa intendi quando dici che l’economia ha bisogno di un aggiornamento profondo per analizzare i fenomeni migratori.

Aldo. Intendo questo. L’economia è stata fondata come scienza moderna da uno scozzese (Adam Smith) che aveva come riferimento una società dove la disomogeneità era quella fra scozzesi, gallesi, inglesi e irlandesi, cioè minima; per di più, aveva in mente uomini (maschi, intendo). Dunque, una società omogenea di individui con caratteristiche precise. Per quella società l’economia ha fatto, con lui, delle assunzioni che spesso non sono nemmeno espressamente dichiarate, sul comportamento e sulla natura umana. Quando si parla di immigrazione, nella scala in cui se ne parla oggi, abbiamo di fronte una società ben più variegata, e queste assunzioni sono dubbie. Gli economisti invece continuiamo a parlare come se quelle assunzioni fossero vere. Io propongo un punto di vista più ricco, articolato come segue.

Le differenze sostanziali e sistematiche fra popolazioni riguardano una varietà di caratteristiche, numerose, e tutte importanti: quelle che interessano gli psicologi (tratti di personalità, intelligenza), gli economisti (tasso di sconto, avversione al rischio), gli sportivi (rapidità nella corsa, resistenza), i medici (suscettibilità a una certa malattia), e così via. Per alcune di queste caratteristiche un ordine naturale è plausibile (cioè “è meglio avere un punteggio più alto” è una affermazione sensata); per molte, questo ordine non c’è. Per esempio, è opinione comune fra psicologi che non è “meglio” avere un punteggio per estroversione il più alto possibile. Semmai, l’ottimo sta da qualche parte nel mezzo, e decidere dove sta l’ottimo è praticamente impossibile. Lo stesso vale per le caratteristiche che interessano gli economisti: è forse meglio avere un tasso soggettivo di sconto il più alto (o più basso?) possibile? O anche in questo caso la virtù sta nel mezzo? Per l’avversione al rischio, non è ideale aver paura della propria ombra quando si prendono decisioni di investimento, ma anche non tuffarsi in ogni avventura. Quindi dire che una persona è meglio di un’altra perché ha un punteggio più alto su un qualche test è in genere insensato.  

Il razzismo è l’idea pericolosa (e ridicola) che identifica una popolazione con una razza e dice che una razza è superiore in tutte (o quasi tutte) le dimensioni importanti. Un corollario spregevole di questa idea è che questa razza superiore ha il compito, assegnato da Dio o assunto da se stessi, di prendersi cura degli altri, idea che ha prodotto il (o meglio, ha fornito l’alibi al) colonialismo. Questa discussione si è chiusa l’8 maggio 1945. C'è ancora una battaglia di retroguardia da fare, così come ce n'è una sulla questione dell’evoluzione o una sulla questione della creazione. Ma è una battaglia di retroguardia, che non ci deve distrarre da quelle più pressanti.

In alcuni campi, di queste differenze si parla e ne citerò due. Il primo è quello della pratica clinica, perché in questo caso tenerne conto è una questione di vita o di morte. Per esempio l'incidenza del cancro alla prostata è più alta fra i neri. Attenzione, l'incidenza: la mortalità è anche più alta. Questa seconda differenza aggiuntiva è ovviamente dovuta a fattori come la condizione economica (o anche ad altri fattori, come la cura che una persona dà alla propria salute). Ma l’incidenza no. Una politica che sembra naturale in questo caso è di avere controlli più frequenti della proteina PSA (che segnala la presenza di cellule cancerogene) fra i neri. C’è qualcuno che vuole opporsi a questa pratica perché è basata su discriminazione genetica? O che vuole fare questi esami meno severi per non creare ansia in quella comunità?         

Un altro esempio è il Tay-Sachs, che è una malattia con incidenza particolarmente alta tra gli ebrei  Ashkenazi. Per chi sospetta sempre che ci sia una causa sociale dietro ogni cosa, la malattia è anche presente in altri gruppi (canadesi francesi del Quebec, e Cajuns nella Louisiana del sud: se trovate una causa sociale comune per questi tre gruppi fatemi sapere).  Queste sono cose accettate come ovvie nella pratica medica. Ma provatevi a dire che la incidenza del Tay-Sachs è parte di una costellazione di altre malattie e caratteristiche, (malattia di Gaucher, sindrome di Bloom, anemia di Fanconi, e un quoziente di intelligenza più alto del resto della popolazione), magari tutte prodotte dallo stesso processo di trasformazione culturale e economica  e associata selezione, e qualcuno subito ricomincia con Hitler.

L’altro campo è quello sportivo. In questo caso, non si tratta di vita e di morte, ma il succo dello sport sta nel vedere chi è il migliore, e se c'è il trucco lo spettacolo non è più divertente.  Su questo punto non mi dilungo, ma guardate alla composizione etnica di chi ha tenuto il record mondiale nei cento metri negli ultimi anni (a partire dal 1977, diciamo), e ditemi quanti atleti trovate che non hanno origine nell’ Africa occidentale, anche se poi cresciuti in tutte le parti del mondo, e quindi con diverse influenze dell’ambiente.

L’idea che ci siano queste differenze sostanziali e sistematiche però è difficilissima da digerire. In economia, non c’è mai stata (all’origine perché queste differenze erano poco visibili quando non c’era nemmeno il treno per andare a Londra da Edinburgo). Oggi, se c'è un cambiamento è nella direzione opposta, per due ragioni. La prima perché parlarne viola l’undicesimo comandamento dell’intellettuale moderno, “Mai mostrare cattivo gusto”.  La seconda è che sembra più affascinante lavorare per  “rendere il mondo un luogo migliore”, in particolare “rimediare alla terribile piaga della disuguaglianza”, come se la missione dell’economista fosse scritta nella undicesima tesi a Feuerbach (“Gli economisti finora hanno solo interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo”). Cerchiamo prima di capirlo, il mondo.  Di sicuro, chi scrisse quella tesi, di economia ci aveva capito pochino.

Giulio. Va bene, point taken e siamo d'accordo: delle differenze tra nativi e immigrati si può parlare senza per questo doversi sentire accusati di razzismo. Esattamente perché sono queste differenze che determinano una politica ottimale dell’immigrazione. Tuttavia, abbiamo solo accennato al perché queste differenze debbano rilevare. In medicina e nello sport rilevano per le ragioni che hai ben descritto. Ma nel funzionamento dell’economia e della società in generale? Inoltre, ancora non vedo cosa ci sia da rifondare nella scienza economica per far posto a queste differenze. A me pare che in tutti i nostri modelli ci sia spazio per qualunque tipo di eterogeneità. Non vogliamo qui ammorbare il lettore con una discussione accademica, per cui affrettiamoci a preparare l’atterraggio e a discutere sul “che fare” concretamente in termini di politica dell’immigrazione, ma ormai mi hai incuriosito per cui per favore arriva in fondo...

Aldo. Si, certo, in economia si parte sempre da modelli generali dove un certo parametro ha una certa distribuzione, “per includere il caso della eterogeneità degli agenti”. Ma dura poco. E’ divertente rileggere gli articoli sulla teoria Roy-Borjas della selezione degli immigranti, di cui parlavi nella prima puntata di questo dialogo, per vedere come si parta sempre, a pagina 1, dal caso generale della diversità tra popolazioni dei paesi di origine e di arrivo. A pagina 3 però si trova sempre una assunzione (fatta “per la semplicità della trattazione matematica”) dove le differenze sono rimosse, con la nota (a piè di pagina) che rassicura il lettore che “il caso generale segue con argomenti simili”. Peccato che le conclusioni, quando si guarda il caso generale, siano diverse da quelle raggiunte nel caso particolare (e irreale).

Le differenze rilevanti di cui stiamo parlando sono più complesse, e hanno in parte un’origine culturale, e in parte una base genetica (stiamo parlando delle differenze fra gruppi: in quelle fra individui, il caso ha una grossa parte). Decidere quanto peso, esattamente, abbiano queste due componenti è controverso, ma la discussione corrente è se sia 60 per cento cultura e 40 genetica, o 60/40. Non se sia 0 e 100.

Ma in ogni caso, entrambi i fattori hanno un’evoluzione lenta. Le leggi di trasmissione genetiche sono ben comprese, e naturalmente indicano che queste differenze sono di lungo periodo. La trasmissione culturale ha caratteristiche molto diverse da quella genetica. Prima e più importante differenza fra le due è, come ci ha insegnato Gramsci, che essa è compito di una categoria specializzata di elaboratori e mediatori di ideologie (gli intellettuali, categoria vasta che include attori di Hollywood e imam). Come conseguenza,  le trasformazioni culturali possono essere molto rapide in certi momenti critici, e avere effetti duraturi, se le condizioni sono favorevoli. Per esempio: il moderno Iran era nel 632 parte dell’impero Sasanide,  con religione Zoroastriana. Nel 651, meno di venti anni dopo, era  parte del Califfato musulmano. Il cambiamento fu prodotto da un accidente storico (una momentanea debolezza dei Sasanidi dovuta alla guerra con Bisanzio). Da allora, per i seguenti 1367 anni fino a oggi, l’Iran è stato ed è un paese islamico, al momento una teocrazia, dove il leader supremo è eletto da un’assemblea di esperti, cioè studiosi islamici competenti nella interpretazione della Sharia. Zoroastro c’è solo nei libri di storia. In conclusione, che sia natura o cultura, queste differenze sono di lungo, anzi lunghissimo periodo.

Giulio. Beh, se è per questo anche l’Europa ha sperimentato un rapido cambiamento culturale, forse un po’ meno rapido ma altrettanto profondo. Nel 180 c’era Marco Aurelio ed era romana con Giove e tutti gli altri, e poco più di un secolo dopo c’era Costantino ed era diventata cristiana. Qualunque sia l’origine e la dinamica di queste differenze complesse, perché (chiedo retoricamente…) dovrebbero essere importanti?        

Aldo. Queste differenze diventano importanti quando si fanno convivere popolazioni con caratteristiche diverse, perché c'è un disaccordo naturale fra quello che gruppi diversi preferiscono. Se c'è una differenza sostanziale e sistematica per esempio nel tasso di sconto o nelle preferenze al rischio o nel costo dello sforzo, le politiche ottimali per gruppi diversi sono diverse. Siccome adottare politiche diverse è discriminatorio, ne segue un conflitto spesso latente, ma a volte aperto, sul cosa fare. Questo è quello che sta succedendo oggi negli Stati Uniti, un paese che si sta dividendo su queste linee. In Italia questa differenza ancora non c’è. Stiamo discutendo, qui, se sia una buona idea averla.

Giulio. Oh, finalmente. Questo è un punto importante che ci riporta a uno dei punti a cui ho accennato alla fine della prima puntata di questo dialogo, cioè l’importanza dell’omogeneità di una popolazione per il buon funzionamento della società e anche dell’economia. Nei commenti alla prima puntata diversi lettori si sono chiesti cosa questo significhi. Io li ho rimandati all’ottima survey di Alesina e La Ferrara, ma questo tuo esempio riassume bene il punto: in una società troppo eterogenea nelle preferenze (un mix di componente genetica e culturale, per usare le due fonti di differenze tra gruppi di cui parlavi sopra) o nel “capitale civico” di diversi gruppi (dove definisco capitale civico come Guiso, Sapienza e Zingales, “persistent and shared beliefs and values that help a group overcome the free rider problem in the pursuit of socially valuable activities”) la cooperazione è più difficile e c’è un conflitto latente. Certamente nativi e immigrati sono eterogenei in questo senso. Ma lo sono anche i nativi tra di loro, e le differenze tra nord e sud Italia sono lí a testimoniarlo. Ciò non toglie che nell’elaborazione di una politica ottimale dell’immigrazione si dovrebbe certamente tenere conto delle conseguenze di una popolazione frazionalizzata.

Questo però è solo uno dei criteri, l’eterogeneità ha dei costi ma anche dei benefici per qualcuno, come per esempio nel caso delle complementarità tra abilità diverse nel mercato del lavoro di cui abbiamo discusso sopra (ben venga la signora algerina poco istruita cosí diversa da me signora italiana laureata, che cosí io posso affidare a lei la cura della casa e dei bambini quando non possono andare all’asilo e vado a lavorare facendo le cose in cui sono produttiva guadagnando abbastanza per remunerare lei e me) oppure nel caso in cui gli immigrati siano simili a certi gruppi della popolazione (quelli nella parte bassa della distribuzione di reddito e ricchezza, ad esempio) e quindi aumentino il “potere” politico di questi gruppi. A parità di altre cose vuoi certamente più immigrati se questo aumenta il potere del tuo gruppo e quindi rende più probabile l’adozione delle politiche che preferisci. Ma le altre cose non sono “a parità”, naturalmente, perché magari a questi gruppi interessa anche l’identità religiosa. Quindi concordiamo che le differenze sono molteplici ed è per questo che è cosí difficile avere una teoria della selezione degli immigrati e usarla per determinare il tasso ottimale di immigrazione o di diversità di una società. Ti chiedi se vogliamo per l’Italia o l’Europa la stessa frammentazione etnica che osserviamo negli Stati Uniti. Io francamente non saprei dirlo finché non valutiamo per bene i costi (tu dici che gli Stati Uniti stanno collassando socialmente sotto il peso di questa frammentazione) e i benefici (io dico che gli Stati Uniti non se la passano per niente male economicamente anche grazie a questa frammentazione) di questa disomogeneità per l’Italia o l’Europa. E questo dipende molto da come gli immigrati si auto-selezionano o vengono selezionati dal governo.

Aldo. Bene, torniamo allora al modello di selezione degli immigranti, che ci permette di illustrare quasi tutte queste considerazioni di metodo. Dico quasi perché (non per colpa mia, ma per la semplicità brutale del modello) le differenza sono ridotte a una differenza di abilità. Io l’ho già detto, non credo che il mondo sia così semplice, ma mi adeguo per il momento a questa grossolanità. Il modello Roy-Borjas  considera immigranti di diversi tipi in un paese di origine che devono decidere se emigrare o meno. Ogni candidato immigrante ha una informazione privata su una sua caratteristica di abilità individuale, che influenza il salario nel paese di origine e in quello di arrivo. Siccome c’è un costo di emigrazione, solo i migranti con una caratteristica individuale più alta decidono di migrare (si auto-selezionano, appunto).  Il modello si applica a una situazione in cui il salario è l’unica fonte di reddito, e ci sono solo due paesi. La prima assunzione è falsa nel nostro caso, e vale la nota osservazione di Friedman: “con un welfare state,  la offerta di immigranti diventerà infinita”, cioè tutti vogliono migrare. Quindi la assunzione che facevo, che la popolazione di immigrati è una scelta casuale dalla distribuzione del paese di origine è giustificata.

Giulio. Continuo a pensare che non sia giustificata, non c’è modo in cui nel mondo reale gli immigrati possano essere un campione rappresentativo delle popolazioni nei paesi di origine. Per esempio i vecchi, quelli in cattiva salute e i poveracci non possono, di fatto, emigrare. Questo naturalmente non implica selezione positiva, cioè non implica che emigrino i giovani istruiti, produttivi, e che mai si dedicherebbero ad attivita’ criminali.

Aldo. Beh, di sicuro è falsa almeno la seconda assunzione, e questo ci ricorda un problema. L’Italia è solo una delle destinazioni possibili per gli immigranti. Gallup ha una indagine che identifica quanti, chi sono, e dove vorrebbero andare. L’Italia non è nemmeno vicina alla cima nella lista dei preferiti; quindi nella competizione per la qualità degli immigranti non prenderemo i migliori. L’indagine chiarisce anche che nella stragrande maggioranza che vuole emigrare lo fa per ragioni di opportunità economica, non per fuggire alla guerra. Ma ammettiamo pure che il modello si applichi, e vediamo cosa comporta in una situazione in cui ci sono differenze sostanziali e sistematiche fra popolazioni. Vedrai che anche se la emigrazione seleziona i migliori migranti, le differenze fra nativi e non posso essere sostanziali, e creano una società divisa.

Prendiamo per esempio di nuovo l’ altezza. Supponiamo che ci sia una emigrazione di italiani in Olanda. Gli italiani hanno (mi ripeto) una altezza media 175, gli olandesi 185. Mettiamo che per via della selezione fra immigrati arrivi in Olanda un sottogruppo di italiani con altezza media 180 (è una selezione enorme, ma prendiamola come caso estremo). Che effetto ha questo sulla distribuzione futura dell’ altezza in Olanda? Una nota equazione (breeder’s equation) ci dice che la sottopopolazione di italiani emigrati in Olanda avrà una altezza di 175 (media della popolazione) più 5 (il differenziale selettivo, 180-175) moltiplicato diciamo 0.5 (ereditabilità in senso stretto) uguale 177.5. Quindi è come se l’Olanda avesse un afflusso di una popolazione con una distribuzione a campana (normale) con media 177.5, molto vicina a quella della popolazione italiana di origine. Ne seguono due conseguenze.

La prima che entro una generazione la altezza media dell’Olanda decresce,  per sempre. Considera cosa succede se invece di altezza stiamo parlando di abilità.  La seconda che in Olanda ci saranno ora due picchi nella distribuzione di altezza (che è una combinazione delle due distribuzioni, con pesi uguali alle frazioni delle due sottopopolazioni): uno piccolo a 177.5 e uno più alto a 185. Se il reddito dipendesse dall’altezza, per la sottopopolazione italiana in Olanda ci sarebbe il problema che portarsi al di sopra del valore mediano sarebbe molto difficile, perché questo valore mediano è poco sotto 185. Il che ci porta a una interessante osservazione sulle implicazioni politiche di una popolazione eterogenea.

Werner Sombart sostenne, come si sa, che negli Stati Uniti (lui scriveva nel 1906) non c’era socialismo perché il padre non vuole una politica punitiva dei ricchi perché il figlio potrebbe diventare ricco. Anche qui, abbiamo una assunzione non esplicita: questo è vero in una società omogenea, perché la distanza da superare per arrivare nella parte alta della distribuzione è piccola. Il nostro piccolo esempio illustra una conseguenza dell’antitesi del teorema di Sombart: in una società disomogenea (cioè con sostanziale disuguaglianza nella distribuzione dei talenti) i padri poveri avranno un incentivo aggiuntivo per votare politiche punitive perché il figlio sarà nella stessa condizione. Sombart si sbagliava sulle cause (lui credeva che tutto fosse dovuto alla disponibilità di terra libera) e quindi sbagliava la predizione che il socialismo sarebbe arrivato negli Stati Uniti di  lì a qualche giorno, con la fine di questa disponibilità. Invece, il socialismo negli USA è diventato possibile solo a partire dal 1965. La politica della sinistra (la nuova sinistra, che non ha nulla a che fare con la mia idea di sinistra) negli Stati Uniti e in UK è basata su questa intuizione. L’idea è che se si crea una sottoclasse che, per le ragioni che abbiamo appena visto, non hanno mobilità verso l’alto, loro voteranno politiche redistributive per sempre. L’esempio degli Stati Uniti indica che basta una percentuale intorno al 30 per cento per trasformare le elezioni in una pura formalità. In California ci sono già arrivati.  Naturalmente c’è anche la interpretazione benevola (dal Guardian, che si colloca nello spazio ideale fra La Repubblica e dove sarebbe l'Unità) che “Ma noo, non c’è un piano diabolico, sono solo una manica di sognatori incompetenti che non hanno la minima idea di quello che stanno facendo”. Io non so quale sia peggio.

Giulio. E’ inevitabile che le migrazioni cambino per sempre le caratteristiche della popolazione. L’arrivo dei romani cambiò per sempre l’Etruria e la Magna Grecia. L’arrivo dei longobardi cambiò per sempre l’Italia del nord, l’arrivo degli arabi prima e dei normanni poi cambiò per sempre la Sicilia. Eccetera. Il tuo punto è che questo non è oggi inevitabile. La mia domanda (non retorica) è perchè vogliamo evitarlo. Concordo che è compito della politica dell’immigrazione, che in una democrazia scegliamo collettivamente, stabilire quanto le frontiere devono essere aperte e quindi quanto rapido debba essere questo cambiamento, che apporta benefici e che ha costi. Ma finche' non chiariamo questi non abbiamo l'altro. Prendiamo il tuo esempio dell'altezza in Olanda dopo l'immigrazione degli italiani. E' bene o male avere un'altezza media piu' bassa, bimodale, eccetera? Per l'altezza e', ovviamente, essenzialemente irrilevante. Per l'estroversione? Ne hai parlato tu prima, non ovvio. Per l'intelligenza? Anche qui, dipende da cosa ci serve l'intelligenza misurata dal QI. Certamente ci serve per fare i professori di economia, gli ingegneri, i funzionari pubblici e anche i meccanici. Per tante altre professioni e' meno importante. Einstein non sarebbe mai andato a fare il badante di una pur simpatica signora 93enne, ne' sarebbe andato a fare le pulizie nei condomini. Entrambe queste cose non lo avrebbero attratto e sarebbero state una pessima allocazione del suo talento. Quindi il punto e' stabilire il grado di complementarita' tra caratteristiche diverse (incluso piu' alto o piu' basso punteggio nel test di QI). Se questo fosse sufficientemente alto, il QI medio della popolazione sarebbe irrilevante, e vorremmo esattamente la distribuzione bimodale del tuo esempio con la statura di olandesi e italiani. Non sto dicendo che e' cosi', solo che e' una possibilita' che non possiamo scartare a priori. In questo caso mescolare QI alto con uno basso puo' apportare un beneficio. Se invece quello che conta fosse solo la media perche' ogni cervello e' indipendente e maggiore QI medio e' meglio, allora chiaramente avremmo un costo.

Costi e benefici, dunque. Sono questi costi e benefici che dobbiamo attentamente valutare, ed è il loro bilanciamento (che dipende dalle preferenze individuali per cose diverse come reddito e identità culturale, dalla tecnologia produttiva, dal peso che il governo da’ in questa valutazione ai diversi gruppi e ai migranti stessi, e da molte altre cose) che determina il tasso di immigrazione ottimale e la composizione ottimale dei flussi migratori che vogliamo. La soluzione a questo problema può essere “basta immigrazione” solo in circostanze estreme. Prendiamo ad esempio Douglas Murray, l’autore di “The strange death of Europe: Immigration, identity, Islam”, il libro che mi avevi consigliato di leggere. Lo sto leggendo e ormai l’ho quasi finito, è une lettura molto interessante che valeva la pena di fare, anche se come sai (ne abbiamo già parlato) in diversi punti non concordo con l’autore (ma in tanti altri punti ci sono riflessioni e racconti che valgono la lettura). La preoccupazione centrale di Murray è essenzialmente una, cito testualmente da p. 112: “it might be the case that in the future these people will come to dominate -- that, for instance, a strong religious culture when placed into a weak and relativistic culture may keep itself to itself at first but finally make itself felt in more definite ways.” In altre parole, la cultura islamica dominerà quella europea agli attuali tassi di immigrazione e fertilità degli immigrati dai paesi musulmani. Non voglio qui discutere le difficoltà nel fare predizioni di questo tipo, solo far notare che se Murray fosse il dittatore benevolente dei nostri modelli economici allora la social welfare function per stabilire il tasso ottimale di immigrazione dipenderebbe solo dalla differenza tra l’attuale identità culturale europea (misurata in qualche modo) e l’identità della popolazione che vivrà in europa tra 50 anni. Ne segue banalmente che la politica ottimale e’ chiudere immediatamente le frontiere europee all’immigrazione da paesi non occidentali e, in particolare, da quelli a cultura islamica. La social welfare function che dobbiamo immaginare non dico per risolvere il problema (quanti immigrati dobbiamo far entrare ogni anno e con quali caratteristiche?) analiticamente ma almeno per ragionare in modo razionale sulla questione è molto più complicata. Certo include l’identità culturale (perchè indubbiamente per i nativi ha un valore) ma include molte altre cose altrettanto importanti per benessere collettivo e che non possono restare fuori dal calcolo perchè “se la nostra cultura non sarà più quella dominante siamo perduti e tutto il resto non conta.”

Ma io direi di fermarci qui con queste nostre pur importanti speculazioni accademiche (ma non troppo). La discussione è ormai matura per il capitolo finale, l’epilogo: che fare?

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Commenti

Ci sono 13 commenti

il dibattito si faceva interessante.
Qui

 

Gli economisti ragionano da economisti, con gli strumenti che hanno imparato, ed è naturale. Per molte questioni, questi strumenti vanno benissimo [..] per altre, l’economia è una scienza che ha bisogno (secondo me) di un aggiornamento profondo, e si comincia a vedere.

 

Qui

 

L’economia è stata fondata come scienza moderna da uno scozzese (Adam Smith) che aveva come riferimento una società dove la disomogeneità era quella fra scozzesi, gallesi, inglesi e irlandesi, cioè minima; per di più aveva in mente uomini (maschi, intendo). Dunque, una società omogenea di individui con caratteristiche precise. Per quella società l’economia ha fatto, con lui, delle assunzioni che spesso non sono nemmeno espressamente dichiarate sul comportamento e sulla natura umana. Quando si parla di immigrazione [..] queste assunzioni sono dubbie. Gli economisti invece continuiamo a parlare come se quelle assunzioni fossero vere.

 

qui

 

Queste differenze diventano importanti quando si fanno convivere popolazioni con caratteristiche diverse, perché c'è un disaccordo naturale fra quello che gruppi diversi preferiscono. Se c'è una differenza sostanziale e sistematica [..] le politiche ottimali per gruppi diversi sono diverse. Siccome adottare politiche diverse è discriminatorio, ne segue un conflitto spesso latente, ma a volte aperto, sul cosa fare.

 

e qui

 

L’idea che ci siano queste differenze sostanziali e sistematiche però è difficilissima da digerire.

 

ci sono spunti per tante ulteriori riflessioni. Sono posizioni un po' di rottura rispetto alle litanie del politicamente corretto, stile monologo di Favino.
Ma se queste cose qua le avessi scritte io, Boldrin mi avrebbe bannato!
:-)

però mi sembra di aver già sentito buona parte di questi argomenti, centometristi compresi, ai tempi di s.gould vs "the bell curve". s.gould fuori dal suo campo era un dlettante e non gli avrei affidato un ministero, ma genio lo era eccome.

Mi sono letto (un po' velocemente, per ora) l'interessante articolo che Lei ha linkato qui (Morality, Policy and the Brain) ed ho scorso le references.
Devo dire che invidio un po' il prof. Rustichini. Tra quei riferimenti, con altri che non conoscevo, ho trovato molti autori con cui mi scozzo di notte quando i figli dormono (Anscombe, Geach, Foot, Bentham, Rawls; e poi naturalmente Voltaire, Mills, Nietzsche, Kant, e il Treatise di Hume (che è una pietra miliare), e Hare, Sidgwick, Moore, la Doctrine of doing and allowing e la Doctrine of Double Effect..
Ognuno ha i suoi hobby, il mio è questa roba qua. Vorrei avere più tempo per queste letture, e tempo di qualità, che purtroppo non ho. Credo che le posizioni cui sono giunto con la mia riflessione personale, che dura da una decina di anni, siano molto prossime a quelle che intuisco da questo elenco di referenze, dall'articolo, e da quel che si legge in questo dialogo discorsivo. A volte mi sono permesso (da outsider, e quindi magari risultando un po' irrispettoso) di consigliare un dibattito sui questi temi che mi interessavano, raccogliendo contumelie (o incomprensioni). Ora che si annuncia la chiusura del blog, questi temi li vedo comparire. 
Peccato.

La discussione è per ovvie ragioni un po' ellittica ma quantomeno ha il merito di toccare (sia pure molto di sfuggita) alcuni punti che in genere sono del tutto evitati quasi fossero mine nel dibattito pubblico.

Comunque, il problema centrale a monte di tutto è che per fare discorsi seri sarebbe necessaria una valutazione il più possibile oggettiva e completa di COSTI e BENEFICI... ma si fa di tutto per renderla impossibile, facendo MANCARE I DATI.

Ormai nel dibattito pubblico si può solo decantare come un mantra il presunto beneficio che "gli immigrati ci pagano le pensioni" (come se versando i loro contributi non maturassero un domani il diritto ad avere a loro volta una pensione) ma è reso impossibile misurare le ESTERNALITÀ NEGATIVE dell’immigrazione di massa di questi ultimi decenni. Ad esempio, che percentuale di spesa per il welfare assorbono? Della Norvegia ho letto questo www.breitbart.com/london/2017/11/19/migrants-half-norwegian-welfare-recipients ma in Italia è tabù anche solo porre la domanda. Ogni tanto si legge qualcosa tipo qui www.ilgiornale.it/news/milano/dai-soldi-case-popolari-migranti-pi-aiutati-tutti-1352342.html ma un dato ufficiale aggregato (ma che tenga conto di tutto: accoglienza, accresciute esigenze di law enforcing, compenso degli avvocati d’ufficio, dello stuolo di traduttori interpreti e mediatori culturali, dei costi del sistema penale, effetto delle rimesse sulla bilancia dei pagamenti, ecc.) non c'è, non è dato conoscerlo.

Se poi vi sono dei demagoghi che basano la propria carriera politica fomentando certe paure è anche perché dall’altra parte viene mantenuta la massima opacità, con il risultato che ci si trova in una notte in cui tutti i gatti sono bigi e quindi anche le fake news imperversano nell’impossibilità di un serio fact-checking.

Conoscere il saldo migratorio per un paese non ci dice assolutamente nulla sulla possibilità che quel saldo sia positivo, negativo o nullo per lo sviluppo di quel paese. Nulla. Quello che ci inizia a dire qualche cosa è come i flussi migratori abbiano modificato la struttura demografica di un paese, coorte per coorte per genere, e possiamo iniziare a fare valutazioni solo dopo che conosciamo ulteriori qualità di questi flussi (qualifiche in primis).

Un saldo migratorio positivo può avere un impatto positivo oppure negativo, sullo sviluppo di uno stesso paese e di uno stesso anno, a seconda della sua composizione. Esattamente come un saldo migratorio negativo può avere un impatto positivo oppure negativo.

Bisogna concentrarsi su composizione dei flussi, e sulla dinamica della struttura demografica.

Nel caso Italiano, ma anche in quello Tedesco, un saldo migratorio positivo, entro certi limiti (diciamo un milione annui) che sia composto principalmente da coorti "giovani" (under 35) e qualificate (o qualificabili) deve avere al momento generalmente un effetto positivo (per il caso della Germania, la recente ondata di profughi Siriani lo ha anche provato sul campo).

La ragione, lapalissiana, è che quel tipo di flusso migliora la struttura demografica del paese, incrementa da un lato gli investimenti in conto capitale (perché immette in circolo qualificati, che sono "nuovi" investimenti) e dall'altro rende più efficienti gli (nei casi di Italia e Germania ingenti) investimenti in conto capitale pre-esistenti.

Per chi ha bisogno di un esempio per questa ultima affermazione: la TAV è costata al contribuente italiano non si sa quanti miliardi. Questa TAV avrà una capacità massima, che si immagina siamo ben lontani da raggiungere. Se immettiamo nel sistema 1 milione di nuovi potenziali utenti della TAV all'anno fino a quando non ci avviciniamo alla capacità massima della TAV, è più probabile che il ROI della TAV aumenti o diminuisca? E se la TAV è stata pagata in debito pubblico, è più o meno probabile riuscire a ripagarlo?

aldo ci spiegherà cosa non va con l'economia, perché non si capisce né da questo post, né da quello che linka. 

alla richiesta di Andrea. Per vera curiosità intellettuale, avendo discusso questi temi nell'arco (come oggi stesso mi ha proprio ricordato Aldo) di ben 32 anni. M'è sempre sembrato, in quelle discussioni, che il problema non fosse tanto "Economics" (nel senso di Economic Theory methods and hypotheses) ma l'ideologia e le personali aspirazioni di molti (noi compresi, per carità) che praticano economic research. 

Io non sono riuscito a trovare modelli che tengano conto della contrazione demografica. Le trattazioni di Solow-Swan e derivati che ho trovato ipotizzavano tutte crescita della popolazione, al limite diminuzione di tale crescita o stazionarietà, ma non decrescita. Ho notato spesso, anche per altri modelli, che la variabile della dinamica della popolazione, o non veniva proprio considerata, o veniva considerata stazionaria, per semplificare.

Mi sono risposto che forse, dato che i fenomeni di decrescita della popolazione sono "recenti", e comunque circoscritti, probabilmente c'è bisogno di ancora qualche anno di osservazione, e di una maggiore comprensione degli impatti, perché si veda concesso un maggior peso alle variabili demografiche.

Mi aspetterei che gli economisti Italiani e Giapponesi, ma anche quelli Spagnoli ed est Europei, debbano essere comunque tra i primi ad interessarsi della questione.

L'impatto dei flussi migratori sull'economia è una questione affine.

 

anche oggi, caro Andrea, posso cercare di spiegare.

Ma siccome ci ho gia' provato due volte, come noti tu, bisogna mettersi d'accordo: ti devo spiegare cosa dico io o quello che dicono gli economisti? Quello che dico io e' semplice, l'economia usa modelli as if e in punti fondamentali sono inutili o peggio misleading. Per teporia delle decisioni, comportamento strategico, e questioni di polciy come quelle che stiamo discutendo le conclusioni (anche di policy) cambiano radicalmente. Questo ultimo punto mi pare chiaro.

Ma questo richiede che si sappia qualcosa di neuroscienza e genetica; metti per esempio i papers che vedi in cima alla mia webpage (per esempio quello in Nature Comm su adaptive coding);  senno' e' come spiegare la chimica agli alchimisti.