Dieci poeti in lotta con la vita - 2

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2. Clemente Rebora

Nell’ambito delle tante (più o meno interessanti), attività umane, ce ne è una che mi ha sempre appassionato e incuriosito, inquietato e saziato l’anima per quel senso di vuoto che l’avvolge, per quello spazio sospeso dalle infinite potenzialità intellettive che sono al riparo dalla morsa dell’effettualità ad ogni costo. È l’attesa. Un tempo neutro che si può subire come una condanna o sublimare in una gioiosa speranza, una giostra dell’anima nella quale si può spadroneggiare con la fantasia, liberi da condizionamenti.

L’attesa e i sentimenti da essa suscitati - oltre ad essere il titolo di un quadro straordinario, dipinto da Felice Casorati nel 1918 - sono al centro di una delle poesie, a mio avviso, più belle della nostra letteratura contemporanea, “Dall’immagine tesa” di Clemente Rebora. Un poeta, Rebora, quasi completamente dimenticato dai lettori ed anch’egli obliato da buona parte della critica, a causa delle scelte operate nella sua vita che lo portarono, a metà degli anni Trenta, al sacerdozio.

Già dall’ esordio del 1913 con i “Frammenti Lirici”, un esempio altissimo di “vocianesimo” temperato da grande competenza ed interessi filosofici, capaci di alzare il grado di temperatura espressionistica fino alla combustione dei suoi versi, Rebora  - come poeta - si misura con una materia insieme morale, intellettuale e esistenziale che in Italia ha come precedente solo Leopardi.

La moralità di Rebora - è subito ben chiaro - non ha alcun fine se non quello di riferirsi all’esistenza stessa;  la sua filosofia antistoricista, antiprogressista (tanto da bollare la passione per la guerra dei Futuristi come “nauseante”), ha come scopo l’ipotesi metafisica di un avvento che  potrà richiedere l’estremo sacrificio di una rinuncia mondana.

Così, nella sua seguente raccolta, “I Canti anonimi”, del 1922 (di cui “Dall’immagine tesa” è il congedo, ovvero l’ultimo componimento), tale avvenimento si annuncia con limpida chiarezza, anzi, come segreta certezza. Ma vale la pena leggere la poesia prima che vada avanti:

 

Dall'immagine tesa
vigilo l'istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell'ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire;
verrà, se resisto,
a sbocciare non visto,
verrà d'improvviso,
quando meno l'avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.

 

Ebbene, una poesia a dir poco splendida, densa per significati, struttura metrica e uso delle immagini, in cui il senso di vuoto dell’attesa (“e non aspetto nessuno”) dei primi versi si rovescia con la forza di uno tzunami spirituale, nella certezza di un futuro incombente (“deve venire”, “verrà”, “già viene”), non come condanna, ma salvezza (“verrà come ristoro”) dal nulla, in cui la vacua attesa potrebbe far precipitare.

Inno alla speranza, esperienza mistica (o amorosa) che trasforma il giogo della realtà statica dello stare, in dinamica crescita dello spirito; questa poesia è, inoltre, un capolavoro di arditezza semantica. “Nell’ombra accesa”, “spio il campanello”, “un polline di suono”, “fra quatto mura / stupefatte di spazio”,  sono versi con un fervore analogico e una potenza espressiva quasi mai vista nella letteratura italiana di quegli anni e non solo.

Rebora, prima di ritirarsi in convento e dedicarsi alla preghiera e alla poesia religiosa, come si dice: “se ne va col botto”! Esce di scena fedele al motto nietzschiano “diventa ciò che sei”. Lui, figlio di un garibaldino eroe di Mentana, educato agli ideali mazziniani e progressisti, tanto in voga nella borghesia di quegli anni. Del resto, già nel 1909 scrisse al padre: “io sto con Budda, Cristo, Dante, Bruno, Vico, Alfieri, Leopardi; modestamente secondo la mia statura. Non posso far professione di fede che sarebbe inutile; io rispetto i tuoi ideali che hai potuto reggere sì meravigliosamente e come figlio non posso far altro… da che ho ragione mi sono imposto un’anatomia severa e perenne di tutto me stesso per rendermi l’anima tersa e ampia, tra tanto gavazzare che vedevo tra i miei compagni (…).“ Un uomo così, non va dimenticato, un poeta di tale statura, va tenuto nel cuore.

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Commenti

Ci sono 4 commenti

Nada mas, que ya es bastante.

e bellissima la guida alla lettura. Grazie!

letto e riletto anche la tua presentazione Francesco, che immerge nel mondo della poesia con la stessa forza della poesia stessa

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