Sulla difesa dei dialetti: statalismo vs. identità

/ Articolo / Sulla difesa dei dialetti: statalismo vs. identità
  • Condividi

Il giorno 13 dicembre 2016 il Consiglio regionale del Veneto ha approvato il progetto di legge regionale 116 intitolato Applicazione della convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali. L'evento, scarsamente notato, merita invece alcune riflessioni.

Il principale autore del p.d.l. è un certo Loris Palmerini, perito informatico e laureando in pedagogia dal 1995, in sostanza un populista, di quelli che vanno per la maggiore al giorno d’oggi. La legge approvata dal Consiglio è abbastanza retorica e priva di concretezza, soprattutto se paragonata a quanto inizialmente proponevano gli autori. In particolare, non è passato il “patentino di bilinguismo” che avrebbe dovuto essere rilasciato dal sedicente “Istituto Lingua Veneta”. Molto probabilmente la legge sarà presto impugnata presso un tribunale amministrativo, ad esempio perché in contraddizione con la legge dello stato 482/99, sulle minoranze linguistiche che, all’art. 2, stabilisce ex ante l’elenco ufficiale delle minoranze linguistiche, non passibile di aggiornamento. 

Potremmo anche smettere di preoccuparci di questa ennesima manifestazione del moderno “neo-barbarismo” politico che, in Italia, è degnamente rappresentato dalla Lega Nord. Tuttavia, non bisogna sottovalutare la voglia di auto-identificazione tipica degli esseri umani: se uno ha deciso che è veneto, prima che italiano (oppure catalano prima che spagnolo ... o viceversa), è molto difficile sradicare questo pensiero dalla sua testa (e probabilmente non si deve neanche). Inoltre, ricordiamoci che la lingua è un motivatore irrazionale ma molto potente, al pari del sesso e dei soldi. Non a caso Trump è stato votato da coloro che odiano, nell’ordine: 1) il politicamente corretto linguistico; 2) i gay e l’aborto; 3) le tasse e Wall Street.

Quali conseguenze può avere l’applicazione della legge regionale veneta o la sua disapplicazione? Il consigliere di minoranza Graziano Azzalin (PD), durante la discussione della legge, esclamava: «Sui cartelli scriveremo a ‘inanz, drit o par de là?». Ma, retorica a parte, quali sono i benefici e i danni dei cartelli stradali in lingua locale? Qual è l’esperienza internazionale in tal senso? Vale la pena, quindi, discutere alcune questioni riguardanti il rapporto tra l’identità linguistica e il potere politico.

 

Folklore scientifico

 

Le motivazioni vere che i proponenti della legge si può supporre avessero in mente sono le solite cose, neanche tanto celate: accaparramento dei soldi pubblici e lotta per il potere. Quando lo stato parla di “valorizzazione” significa, il più delle volte, un nuovo modo per sperperare il danaro del contribuente. In particolare, nelle regioni italiane dove vige il “bilinguismo” vigono anche dei superstipendi per gli impiegati pubblici “bilingui” (superstipendi, tra l’altro, promessi anche da Palmerini anche alla costituenda “nazione” veneta). Quanto alla lotta per il potere, si ricordi che il patentino di bilinguismo doveva essere rilasciato, nelle intenzioni dei proponenti, da un ente di cui lo stesso Loris Palmerini è presidente.

Le altre motivazioni, quelle pubblicamente esposte, contengono tutti gli ingredienti tipici del populismo moderno: il vittimismo identitario e l’odio per il diverso. Basti pensare che uno degli argomenti per la “valorizzazione” del veneto è il fatto che la UE abbia legiferato per la protezione delle minoranze rom e sinti, ossia l’emblema stesso del “diverso”. E che siamo noi, peggio degli zingari?

Il tutto è, poi, abbondantemente condito da una buona dose di pseudo-scienza. Palmerini si diletta con la cosiddetta “folk-linguistics”, di fatto una pseudo-linguistica, praticata dai non specialisti affascinanti da iscrizioni antiche in alfabeti misteriosi, ma con pochissimo senso critico in testa. Questo spiega sue affermazioni come la seguente:

 

Stando un po’ più elastici, dato che i linguisti dicono che tutti i dialetti del nord Italia hanno discendenza dalla antica lingua venetica, si potrebbe definire perfino il popolo padano-veneto, ma non sarebbe il popolo veneto comunemente inteso

 

Ovviamente nessun dialetto del Nord Italia discende dall’antico venetico — una lingua indoeuropea del gruppo italico, lo stesso del latino, testimoniata da una serie di scarne epigrafi dedicatorie. Molto meno romanticamente, e per niente misteriosamente, le varietà romanze, tanto nel Settentrione quanto nel resto dell’Italia, derivano dal latino volgare. Le fantasie adolescenziali che mescolano etnonimi, lingue scomparse e vecchie glorie imperiali si sperava fossero state abbandonate per sempre dopo la II Guerra Mondiale, e invece eccole di nuovo all’ordine del giorno (spesso mascherate con l’eufemismo geopolitica). Il “millenarismo veneto” di Palmerini sarebbe comico — la parola millenario/a compare più di 530 volte nel suo blog — se non si traducesse in leggi regionali approvate. Le sue elucubrazioni pseudo-linguistiche sono sicuramente fuffa, e infatti fare affermazioni contraddittorie non presenta, per lui, alcun problema metodologico. Così, sull’altro sito riconducibile a Palmerini, l’ipotesi delle origini preromane del veneto moderno è correttamente smentita da J. Trumper, presentato — si noti la stilistica — come “esperto e rispettato linguista di origine gallese, che insegnava (al momento dell’intervista) alla Università di Cosenza (Italy), ma ha anche insegnato per diversi anni a Padova”.

La cosa un po’ comica è che anche sul versante politico opposto, nel momento in cui si pretende di dileggiare l’attivismo linguistico leghista, si ricorre ad argomentazioni di pura folk-linguistics. Un certo Paolo Colonnello, su La Stampa del 10/04/2017, ironizzando sulla volontà della giunta Maroni di finanziare un'associazione per la difesa del lombardo, fa una serie di affermazioni antiscientifiche sulle varietà linguistiche lombarde che non differiscono tanto da quelle di Palmerini sul veneto: il bergamasco avrebbe “radici gallo-celtiche”! (ringrazio Daniele Baglioni per la segnalazione). Paradossalmente, uno stesso artificio retorico — il dialetto che viene fatto discendere da qualche varietà antica preromana — è usato da L. Palmerini come argomento a favore della lingua locale, e in senso esattamente opposto da P. Colonnello.

 

Quale politica linguistica?

 

Tutto questo folklore locale può anche essere ignorato, ma cosa c’è dietro il concetto di politica linguistica? E quale politica linguistica è quella giusta? Infine, cosa insegna l’esperienza internazionale?

È noto che varie forme di bi- e multi-linguismo sono presenti praticamente dappertutto sulla Terra: conoscere, a vari livelli, due o più lingue è una cosa molto più normale che parlarne una solamente. I conflitti tra lingue diverse — o meglio: tra parlanti che si autoidentificano ricorrendo alla propria padronanza di lingue diverse — sono quindi potenzialmente sempre possibili. Cosa risponde la politica? Come va gestita questa situazione nel mondo contemporaneo?

Va subito detto: per moltissimo tempo lo stato ha risposto con la repressione. Per tutto il XX secolo parlare una certa lingua anziché un'altra poteva essere sanzionato con pene detentive o capitali (si pensi alla storia della repressione linguistica nell'Unione Sovietica). Ancora oggi non è raro vedere qualcuno discriminato perché ha parlato in una certa lingua anziché in un’altra. È successo pochi giorni fa a Barcellona che un catalano fosse multato con ammenda di 600 euro per aver salutato in catalano un poliziotto — evidentemente parlante castigliano — impiegato all’aeroporto di Barcellona. La faccenda è talmente ridicola da sembrare impossibile (ringrazio Roberto Cordano per la segnalazione). Tuttavia fatti come questo accadono molto di frequente in moltissimi paesi del globo, inclusi paesi che sembravano civili, e spesso con esiti anche tragici. In fondo, anche l’invasione russa del Donbass e l’occupazione della Crimea sono state giustificate con la volontà di difendere i parlanti di lingua russa.

In Italia il centralismo linguistico e la politica antidialettale hanno avuto una storia altalenante, secondo il contesto culturale del momento. Il fascismo fu attivamente purista, promuovendo politiche linguistiche anche aggressive: si italianizzavano singole parole e intere regioni (si veda, tra l'altro, questo volume). Di quell’epoca sopravvivono alcuni termini di uso comune (tramezzino per sandwich; calcio per football e poco altro), nonché la toponomastica altoatesina e friulana. Nel Dopoguerra la sinistra, anche in funzione antifascista, riscopriva le culture popolari e locali, ivi inclusi i dialetti (il “povero è bello” implica immancabilmente “dialettofono è bello”). Nel frattempo, lo Stato centrale si sobbarca il compito della difesa di alcune lingue minoritarie, ovviamente con scopi politico-elettorali. In tempi più recenti avviene l'ennesimo rovesciamento dei gusti: la sinistra torna linguisticamente purista, si cruccia per la scarsa scolarizzazione delle nuove generazioni invocando interventi del governo. Invece, la staffetta della “dialettofilia” è stata raccolta dalla nuova destra populista.

La protezione “all’italiana” delle lingue minoritarie spesso nasconde la volontà di creare facili vantaggi per i locali, in confronto ai nuovi arrivati. Tuttavia, come capita spesso alle politiche di stampo statalista, questi provvedimenti banalmente falliscono i propri scopi, spesso con effetti paradossali. In Valle d’Aosta, ad esempio, l’introduzione dell’esame obbligatorio di patois ai concorsi pubblici sembra aver favorito maggiormente i figli dei migranti meridionali, anziché i giovani originari delle valli. Questo perché il patois vero, parlato nelle valli, è una lingua informale e familiare, difficilmente codificabile, mentre il “patois amministrativo” equivale, di fatto, al francese. I figli dei pastori sanno parlare il vero patois, ma il francese lo sanno meglio i meridionali di seconda generazione, i quali, per emergere socialmente, lo studiano a scuola con molta più dedizione.

Si noti anche che la pianificazione linguistica andava di moda negli anni ’60–’70, stessa epoca in cui andava di moda, guarda caso, anche la pianificazione nell’economia. Tuttavia, costringere dall’alto le persone a parlare, o a non parlare, una certa lingua è un’utopia irrealizzabile senza il ricorso alla violenza. Esattamente come imbrigliare l’economia è impossibile senza praticare violenza.

Una componente violenta e lesiva delle minoranze è stata inserita anche nella nuova legge veneta, nel momento in cui sono stati annoverati come “veneti” i cimbri e i ladini. I cimbri sono un gruppo di coloni tedeschi arrivati nelle valli venete qualche secolo fa. Costringere dei tedeschi a parlare veneto è il risvolto più assurdo che questa legge potesse avere (per fortuna non succederà nulla di tragico, visto che i cimbri si sono praticamente estinti).

 

Cosa dice la linguistica

 

Curiosamente, la linguistica, come scienza, è di solito assolutamente irrilevante nelle questioni inerenti alle politiche linguistiche. La linguistica, infatti, non possiede strumento alcuno per dimostrare la correttezza di una certa policy. Chiunque faccia uso di argomentazioni simil-linguistiche (e spesso pseudo-linguistiche) nel dibattito sulle politiche linguistiche è in errore. Qualsiasi affermazione del tipo "questa lingua va protetta perché ha una storia millenaria" è priva di senso. Le lingue che vengono studiate dai linguisti sono entità di natura totalmente diversa rispetto a ciò che la politica considera lingua. Inoltre, vanno ribaditi alcuni punti importanti.

  • Non esiste alcuna distinzione di principio tra ciò che è lingua e ciò che è dialetto. Le possibili differenze sono solo politiche, storiche o culturali.
  • Il veneto moderno non deriva dal venetico preromano.
  • Non è vero che la globalizzazione è dannosa per le lingue minoritarie. Semmai il contrario: oggi Internet e i social networks sono degli strumenti formidabili anche per la popolarizzazione e la protezione delle lingue in via di estinzione.
  • Lingua e cultura non sono la stessa cosa. Una cultura locale può sopravvivere anche se il medium linguistico cambia.
  • La lingua non equivale al suo dizionario: le vere differenze tra lingue sono nella grammatica e non nelle parole “esotiche” la cui esoticità è una questione molto soggettiva e di scarsa rilevanza dal punto di vista scientifico.
  • Purtroppo va anche detto: non è vero che se sparisce una lingua minoritaria sparisce tutta questa grande ricchezza. L’affetto verso una lingua in via di estinzione è una cosa soggettiva e non formalizzabile. La morte delle lingue è un processo naturale tanto quanto l’evoluzione biologica. Perché tutto cambia. L’italiano dell’800 non è quello di oggi; molte cose si sono perse ed altre sono state acquisite e questo nonostante, o forse a causa di, uno sforzo enorme per la scolarizzazione generale.
  • Per il sentimento identitario spesso è più importante distinguersi dialettalmente dagli abitanti del villaggio vicino, che non dalla lingua statale. Qualsiasi imposizione di un “veneto ufficiale” si trasformerà in violenza linguistica a sua volta.

 

Successi e fallimenti

 

Le politiche linguistiche, in generale, sono destinate al fallimento. È stato osservato che:

 

the various classical language planning activities of the 1960s faded, and the language policy that developed in the nations of the world continued to evolve with little reference to plans (B. Spolsky, The Cambridge Handbook of Language Policy, 2012: p. 4).

 

Quando, come nel caso di alcune lingue celtiche, le politiche hanno apparentemente successo, questo è dovuto più ad altri fattori, spesso imponderabili, che non alle politiche in sé. Della stessa opinione è addirittura anche Meirion Prys Jones, che presiede il Welsh Language Board:

 

You can have as much legislation as you want, you can have as much policy as you want but unless you get in amongst the people and persuade them that the language is useful to them, there’s no hope

 

Infatti, la rinascita recente del gallese è partita dal basso, anziché essere calata dall’alto; un processo simile è in atto anche in Scozia. È successo che la Welsh Language Society, nata come gruppo di protesta negli anni ’60, si è oggi evoluta in un rispettabile gruppo di pressione della società civile che promuove, con successo, iniziative dal basso:

 

While historically considered by some as the lunatic fringe of language campaigners, Cymdeithas’ pressure has helped produce serious gains for the language. Welsh now enjoys official status; public services are obliged to have language schemes and bilingual provision; Welsh education is available from nursery to university; laws protect your right to speak Welsh in the workplace. However, there are still battles.

 

Oggi, quasi incredibilmente, il numero dei parlanti del gallese nell'intervallo di età dai 3 ai 24 anni è maggiore che nelle fasce d’età superiori (si veda qui, p. 12, figura 2). È notevole che il Galles sia riuscito a fare in due decenni ciò che la Repubblica d’Irlanda non riesce a fare da quando ottenne l’indipendenza: far crescere l’atteggiamento positivo nei confronti della lingua celtica indigena. Eppure in Irlanda il gaelico, da generazioni, è materia d’obbligo quasi in tutte le scuole elementari e medie.

Le differenze tra la situazione gallese e quella veneta sono palesi. Nel Galles, 1) è la società civile stessa che promuove il ripristino di una lingua minoritaria; 2) esiste una storia secolare di abbandono forzato della lingua minoritaria; 3) tale lingua minoritaria è davvero a rischio di estinzione. Nel Veneto, il dialetto è alquanto vivo, forse più vivo che nelle altre regioni italiane; nessuno ti arresta o ti licenzia se parli in veneto. Quanto alla società civile, non sembra esserci stata una particolare domanda dal basso di protezione statale della lingua locale, proprio perché non percepita come a rischio di estinzione. Viceversa, l'iniziativa dall'alto rischia solo di trasformarsi in un nuovo “centralismo localista”.

In Scozia è scoppiata, recentemente, una gustosa polemica sui famosi cartelli stradali bilingui: si sosteneva che tale segnaletica creasse confusione e quindi fosse potenzialmente pericolosa per la sicurezza stradale. Alcuni studi sembrano dire il contrario: i cartelli bilingui costringono il guidatore a rallentare (per capire la scritta), e di conseguenza diminuisce il pericolo di incidenti dovuti all’eccesso di velocità. Esistono, tuttavia, anche ricerche che danno risultati meno rassicuranti.

 

In conclusione: un po' di utopia libertaria

 

Infine, un accenno a una possibile soluzione universale di tutti i problemi linguistici: la libertà. Pochi sanno che negli USA non esiste alcuna lingua ufficiale. Per sicurezza citiamo il CIA Factbook:

 

the US has no official national language, but English has acquired official status in 31 of the 50 states; Hawaiian is an official language in the state of Hawaii

 

Questo significa che qualsiasi possibile conflitto tra parlanti di lingue diverse è disinnescato preventivamente. Nessun datore di lavoro potrà appellarsi a una legge federale se non vuole, per esempio, assumere un lavoratore che non parla l’inglese. O, ancora, nessuno potrà mai dire: questo ente deve essere chiuso perché i dipendenti parlano spagnolo tra di loro. È solo il mercato a decidere quale lingua conviene di più. E infatti esistono, ad esempio, interi quartieri in cui l’inglese è minoritario e le persone vivono tutta la vita con il solo spagnolo/cinese/russo. Ho osservato con i miei occhi una scuola media di New York in cui l’insegnamento è svolto interamente in spagnolo (non escludo ci siano scuole analoghe anche per le altre minoranze linguistiche). E le lingue indigene dei nativi americani hanno avuto una loro storia di fioritura culturale, vedi la creazione di un sistema di scrittura per il cherokee, che rimane in uso ancora oggi. Tutto questo senza il bisogno di alcuna “valorizzazione” da parte dello stato.

Quanto detto finora può essere riassunto nei punti seguenti:

  • A nessuno va impedito di parlare la lingua che preferisce, e di svolgere in essa qualsiasi altra attività, incluse quelle con finalità educative.
  • È scientificamente infondato opporre lingue a dialetti, visto che la differenza è solo politica.
  • L'iniziativa di tutela linguistica deve provenire dai parlanti, non dallo stato, che deve legiferare il meno possibile su questi temi.
Indietro

Commenti

Ci sono 49 commenti

Intanto grazie dell'ottimo articolo. Da "nativo", appunto, e parlante una delle innumerevoli varianti del dialetto veneto, quella padovana (più o meno), posso confermare che quelli di noi che non hanno ancora portato il cervello in pensione completamente - bastano davvero pochi neuroni attivi per capire la questione - quando hanno sentito sta storia della lingua veneta hanno avuto un sussulto di stupore. Di quale lingua stiamo parlando? Se io mi metto a dialogare con un bellunese ed entrambi teniamo la nostra parlata stretta, onestamente capiremo non più della metà delle nostre frasi. Eppure, ora a molti sembra fondamentale che il veneto (?) sia riconosciuto come lingua, naturalmente spesso come mezzo di rivalsa contro "gli altri". Boh. Sono sinceramente allibito. E sono assolutamente d'accordo che queste sono materie dalle quali lo Stato (inteso come Potere) dovrebbe stare alla larga. E' incredibile come dei movimenti che straparlano di libertà e autonomia, in realtà sono pervasi dalla voglia incontenibile di porre limiti, mettere regole e, soprattutto, alzare barriere.

il veneto e' una lingua , il bellunese e il padovano sono dialetti della lingua veneta

D'accordo, molti dei "dialetti" italiani (ad esempio il veneto e il siciliano) sono lingue diverse, nell'accezione scientifica prevalente di "lingua". Però come chiamare le varianti di una lingua comune o di un continuum dialettale? Ad esempio, il veronese ("l'è un bel putèl") e il padovano ("el xe un bel putèo")? (Se sbaglio l'enunciato padovano chiedo venia, sono veronese.) Credo sia corretto chiamarli dialetto veronese e dialetto padovano, in quanto varianti della lingua o continuum dialettale veneti. Ogni particolare dialetto veneto ha poi, a sua volta, innumerevoli varianti, anche a distanza di pochi chilometri o da un quartiere all'altro della stessa città; e immagino lo stesso per i dialetti delle altre lingue, o continua dialettali, presenti in italia.

Quella veneta è una sola lingua, o un solo continuum dialettale,  dato che al suo interno ci si capisce bene, tranne che agli estremi del continuum. Quando si comincia a stentare molto a capirsi, ecco che allora cominciano a essere lingue piuttosto che dialetti diversi. Il confine è sfumato, come in tanti altri fenomeni culturali e sociali.

Naturalmente poi ci sono gli aspetti politici, sia nella definizione di quale sia la lingua "ufficiale", sia nell'evoluzione da dialetto a lingua, o forse persino da lingua a dialetto. Aspetti politici, sociali, etnici, ecc. ecc.

Dove passa, secondo te, la differenza tra "variante di qualcos'altro" e "lingua a sé"? Perché il siciliano sì e il veronese no? Il "continuum dialettale" è, al contempo, un "continuum linguistico". Chiamarlo "dialettale" è una scelta, dovuta a eredità ideologiche ottocentesche. Da un punto di vista teorico non c'è alcun bisogno di distinguere un dialetto da una lingua: tale distinzione non aggiunge alcun valore all'analisi linguistica.

trovo tutto il suo articolo molto interessante e stimolante. Posso chiederle di fare un esempio concreto di questo bulletpoint?

  • Lingua e cultura non sono la stessa cosa. Una cultura locale può sopravvivere anche se il medium linguistico cambia.

Guarda, gli esempi sono numerosi:

  • – gli ebrei parlano le lingue del luogo dove vengono accolti (greco, arabo, spagnolo, tedesco), ma non per questo smettono di essere ebrei;
  • – i bulgari erano arrivati dalle steppe del Volga fino ai Balcani, cambiarono totalmente il ceppo linguistico (dall'ugro-finnico allo slavo), ma sono rimasti bulgari;
  • – in lingua inglese esiste una vasta letteratura cosiddetta "post-coloniale"; così, abbiamo scrittori indiani di lingua inglese, che però non per questo smettono di essere indiani, oppure scrittori irlandesi, percepiti come irlandesi (J. Swift), ma scriventi in inglese;
  • – un esempio più esotico sono i pigmei: parlano lingue delle tribù con cui sono più a contatto, ma, apparentemente, hanno una cultura e un'origine proprie.

Io ho imparato il Siciliano a scuola. Per parlare con i miei compagni. 

Non al Liceo, ma sia alle elementari che alle medie la schiacciante maggioranza dei miei compagni di scuola erano madrelingua e monolingua siciliani. 

Andavo in una sezione distaccata, in seconda o terza elementare un paio di maestre mi presero e mi portarono alla centrale, in giro per le classi per qualche ora, solo per farmi sentire parlare, presentandomi come "quello che parla come la televisione", con il sottinteso che quello era l'obiettivo per gli studenti della scuola.

Già allora trovai l'esperienza, e le finalità, assurde.

Nelle scuole siciliane a quanto pare da sempre viene proibito di parlare ed educare in Siciliano. Oggi magari i bilingue saranno di più, ci saranno molti più parlanti in Italiano, ma il danno storico causato da questa assurda imposizione deve essere stato immenso. Alle medie c'erano un paio di docenti illuminati che usavano il Siciliano oltre all'Italiano, e non mi stupirei se tanti miei compagni abbiamo imparato di più gli argomenti di queste materie. Ovviamente, questi pochi erano visti come pariah dagli altri docenti seguaci dell'ortodossia purista.

Va benissimo affiancare lingue straniere come l'Italiano o anche l'Inglese, ma personalmente trovo impossibile credere che proibire l'insegnamento in madrelingua non abbia effetti deleteri nei risultati degli studenti. Anche in quelli favoriti dal sistema, io era enormemente avvantaggiato rispetto ai miei compagni, sostanzialmente invece di partire da 2 partivo da 7, e non è esattamente la maniera migliore per invogliare a studiare o a migliorarsi. Intere annate sia alle elementari che alle medie per me sono andate perse, perché i docenti li hanno impiegati a spiegare ai miei compagni cose che io già sapevo (coniugazioni, pensare in Italiano, parlare in Italiano, ...).

In che anni, questo?

"Va benissimo affiancare lingue straniere come l'Italiano o anche l'Inglese, ma personalmente trovo impossibile credere che proibire l'insegnamento in madrelingua non abbia effetti deleteri nei risultati degli studenti."



Ing. Riolo, la scelta delle parole che usi per testimoniare la tua personale esperienza è singolare.


la Sicilia è una delle venti regioni componenti la nazione Italia.


entrambi, tu ed io, siamo cresciuti e stati scolarizzati ben dopo l'unità d'Italia e dopo l'avvento della TV e del famosissimo programma "non è mai troppo tardi" del maestro ( vedi YouTube)


anxhe io come te appartengo ad una regione dove la parlata autoctona risulta incomprensibile ai più ( il furlano non è meno ostico del siculo)


ma il punto più strano del tuo intervento è che d per assodato e scontato che la tua esperienza sia non solo personale ma maggioritaria. I miei amici siculi non confermano. Perciò cade il primo assunto.


ho isolato un pensiero dal tuo  discorso che solleva un punto pedagogico sul quale ho esperienza professionale.

negli anni ottanta in usa si adotto' proprio questo sistema durante la scuola dell'obbligo cioe' per la primaria . Si parti' prima dalla California e poi il ministero dell'istruzione ordinò che tutte le scuole elementari fornissero un sistema di classi per bambini che in famiglia principalmente parlavano spagnolo. Ebbene a lungo andare questo invece che aiutare gli studenti  li ghettizzo.


come tutte le innovazioni statali, per poter modificare il programma non fu facile: famiglie che non volevano essere inserite in tale curriculum venivano obbligate ( oramai i docenti solo madrelingua spagnola erano s di ruolo come si poteva fare?)


morale ora invece che monolingue i bambini ispanici hanno la possibilità, come tutti quelli che non parlano fluentemente inglese di usufruire del progetto ESL cioè stai in classe di supporto fintanto che le tue conoscenze e padronanza dell'inglese  sono certificate mainstream. Questo ovvia al problema che hai evidenziato nelle tue elementari ( di tenere al palo i bambini che l'italiano gia lo masticavano perfettamente)


l'autore di questo articolo riferisce che in USA sono più elastici mancando di lingua ufficiale decretata per legge.


confermo: quando un insegnante va a fare il NTE National Teacher Examination ( praticamente l'esame che ti permette poi di lavorare alle elementari o superiori in ruolo) puoi richiedere di essere testato in una lingua diversa dall'inglese perché così forse puoi dimostrare meglio le tue competenze nella tua materia.


a mio tempo non mi avvalsi di questa regola perché trovavo assurdo che se dovevo lavorare insegnando storia e geografia in una scuola media USA a curriculum inglese dovessi essere in grado di misurarmi alla pari coi miei colleghi yankee.


ma questo è OT 

non credo che la parlata di quegli scolari delle elementari del paesino nei pressi di Trapani sia definibile lingua nel senso di qualcosa che possa essere utilizzata a scuola come mezzo linguistico per l'insegnamento o per qualunque altra funzione se non nell'ambito informale della famiglia e degli amici.

Ho avuto esperienze simili con compagni di scuola che non parlavano l'italiano della televisione e che poi abbandonavano gli studi. Le ragioni dell'abbandono non erano linguistiche ma sociali, e forse anche contestuali. A 10 o 12 anni facevano i meccanici o le sarte e a 14 erano già di fatto adulti. Siamo negli anni 70 e 80. 

L'idioma parlato era un dialetto, nel senso che era destinato a un uso limitato a certe funzioni e a situazioni informali, distintivo di certe classi sociali, e di diffusione al più municipale. Certo non avevano una lingua alternativa.

Tornando all'esperienza trapanese, se la lingua di insegnamento fosse stata quella "siciliana" (quale e di quale epoca poi?), lo scarto tra quel siciliano e la loro parlata sarebbe stato comunque enorme.  

Io, come credo la stragrande maggioranza dei milanesi nati e cresciuti a Milano, ho sempre e solo considerato l'italiano come mia lingua madre e il milanese (oddio quale: quello di Porta Cicca, quello arius o chissa qual altro?) come un'interessante curiosità come mille altre e come uno strumento che non mi è quasi mai stato necessario utilizzare per comunicare con chi mi circonda. Ciò detto mi considero completamente milanese, lombardo, italiano, europeo e cittadino del mondo a seconda dei casi e senza vedere alcuna contraddizione tra i diversi livelli della mia (o di chiunque altro) unica individualità

Complimenti per l'interessante articolo. A proposito del milanese, mio padre parlava rigorosamente in dialetto (variante porta venezia) con mia nonna, che aveva delle serie difficoltà a parlare in italiano, e i suoi fratelli e sorelle. Con noi figli invece ha sempre parlato in italiano perché diceva esplicitamente che il dialetto era per il popolino e che se volevamo farci strada nella vita avremmo dovuto parlare un perfetto italiano. Pur capendo le sue ragioni, mi rimane il rammarico di aver perso quel pezzo di identità.

A parte capirsi, una lingua "ufficiale" serve per scrivere leggi che tutti devono capire. Perché lo stato di diritto così lavora.  Si manifesta con leggi scritte il lingue codificate. 

Interessante quello che viene detto a proposito degli stati uniti, tuttavia i codici civili e penali con relative procedure nonché tutto il corpus legislativo immagino siano scritti in Inglese, non in tedesco. O forse esistono anche versioni ufficiali in spagnolo delle leggi americane?

Nella svizzera multilinguistica è così. Ogni legge federale è espressa nelle tre lingue (tedesco, francese, italiano) ed ognuno, in caso di giudizio ed eventuale conflitto tra versioni, puo' appellarsi al suo testo. Ora il bello è che ufficilmente le lingue sarebbero 4, ma il romancio ancora non è definito come lingua, dato che chi abita in quei luoghi ancora non ha deciso quale delle 5 varianti debba essere quella ufficiale. Uno standard unificato lo si sta costruendo a fatica. Esiste un codice civile in Romancio ma è solo a titolo informativo e non ha validità legale. Anzi, a dirla meglio: 

Rumantsch è ina lingua naziunala, ma ina lingua parzialmain uffiziala da la Confederaziun, numnadamain en la correspundenza cun persunas da lingua rumantscha. La translaziun d'in decret federal serva a l'infurmaziun, n'ha dentant nagina validitad legala.

A questo punto  una domanda è d'obbligo: avremo i codici civili e penali in veneto, e così tutte le altre leggi? E in caso contrario, a cosa serve tutto ciò? 

Conosco abbastanza bene la Svizzera ed il Canton Grigioni, e posso testimoniare che lo standard grafico unificato è stato definito già da molto tempo: si chiama Rumantsch Grischun e dal 2001 è la terza lingua ufficiale dei Grigioni e la quarta della Svizzera.

Non corrisponde a nessuna delle cinque varianti parlate, ma è un sistema di compromesso; quindi è utilizzato solo nei quotidiani, nella televisione romancia RTR e nei documenti ufficiali dello stato, mentre a casa propria ognuno continua ad utilizzare il proprio dialetto. È ben visibile nelle stazioni, dove c'è l'avviso, insieme alle altre lingue ufficiali, «Scumandà da traversar ils binaris!».

Osservazione pertinente. Infatti la codificazione delle lingue nazionali, apparentemente, fu fatta per motivi anche legali. Però, ad esempio, in UK — da cui deriva anche il sistema statunitense — valgono tutte le leggi dalla Magna Charta in poi. Leggi scritte in latino, francese o inglese medioevale. L'importante è il senso, non i vocaboli usati, e tanto meno la grammatica. 

L'articolo tecnicamente è ineccepibile. Credo che si potrebbero prendere in considerazione, approfondendo la questione con studi in merito, gli aspetti legati all'immagine e al turismo nelle regioni italiane. Ovvero, la tutela della lingua regionale (laddove c'è corrispondenza tra confini linguistici e regionali) in quanto bene culturale immateriale della regione e l'attrattività turistica derivante dalle sue peculiarità culturali, e quindi anche linguistiche, non identificabili genericamente ed esclusivamente nella cultura italiana.

Per fare un esempio, la Catalogna si caratterizza per una cultura peculiare all'interno del contesto della Spagna, con il contributo anche della lingua catalana, e di questa cosa penso giovino sia il turismo della Catalogna stessa che della Spagna in generale. Quanto incide il fattore lingua nella peculiarità catalana? Quanto è giustificato l'investimento pubblico nella tutela della lingua locale nell'ottica dell'immagine catalana e del ritorno turistico?

Ad esempio in questo video alcuni imprenditori parlano dell'importanza della lingua bretone nella promozione commerciale, più che propriamente turistica, dei prodotti bretoni.

A proposito dell'argomento, un paio di settimane fa ho redatto un articolo di cronaca per alcune testate lombarde, dedicato alla legge regionale per la tutela dei dialetti che è stata recentemente approvato dalla Regione ed alla discussione che si è accesa con l'Accademia della Crusca, e che secondo me tocca molti aspetti che sono sottolineati nel vostro articolo.

Grazie per la segnalazione del tuo articolo, che in effetti è molto pertinente. La Crusca, tanto per cambiare, non ci fa una bella figura. 

Per quanto riguarda lo sfruttamento commerciale della lingua locale, non ne ho parlato perché 1) non ne so molto; 2) non volevo dilungarmi (anche se il problema me lo ero posto). Sinceramente, però, non vedo bene come questo possa essere realizzato dal punto di vista pratico. Di solito il turista, quando visita un posto, vorrebbe capire ed essere capito, anziché godere della bellezza di una lingua locale che però non capisce.

Nel mio mondo ideale immagino una situazione di questo tipo. Il paesino A scrive tutti i cartelli in dialetto; il paesino B li scrive rigorosamente in italiano; il paesino C direttamente in inglese. Poi si osservino i flussi turistici per vedere se si crei qualche correlazione tra la segnaletica e l'aumento del fatturato nel reparto turistico. E poi ognuno fa le debite considerazioni (magari tutti passeranno all'inglese).

Mi piacerebbe che qualcuno traducesse in lingua Veneta il pezzo qui sotto

" In ogni lingua  locale la parola amare non esiste, mentre invece viene declinato volere bene in varie forme. Questo è un modo surrettizio di semplificare situazioni complesse, dato che tre quarti della letteratura sentimentale e introspettiva sono fondati sulla differenza tra amare e voler bene. Il che non è affatto un punto di vista capzioso, ma semplicemente la declinazione corretta di aspetti diversi dell'animo umano."

Se Le va bene ugualmente, posso proporLe una traduzione in lombardo, ortografia ticinese.

«En töcc i lénch lucàal la paröla "amà" la gh'è méa, ma la sa decléna "vuré bén" en difaréen manéer. Chèsta ché l'è una manéra de fà föö fàsel situaziùn cumplicáa, parché tri-quàart de la literadüra amurùsa e sentimentàla i énn fundáa en sö la difarénza tra amà e vuré bén. Chèsta ché l'é méa una visjùn fürba, ma sulaméen l'interpedraziùn giósta de táan aspècc de l'ànema d'i òman».

Il mio veneto (variante veronese della bassa, area Isola della Scala) è rudimentale, abito altrove da 45 anni, ma ci provo lo stesso, qualche altro saprà fare molto meglio:

In tuti i dialeti no se dixe amar, invese se dixe voler ben e lo se dixe in tante maniere difarenti. L'è un modo de semplificar dele robe complicade de scondòn, esendo che tri quarti dei libri che i parla de sentimenti e de introspesiòn i se basa sula difarensa fra amar e voler ben. Che no l'é mia solo n'idea furbeta, ansi l'è propri la giusta spiegasiòn de i garbui che gh'è ne la testa dei omeni.

Lei parteciperà al convegno sul populismo a Conegliano?

Quale a suo avviso il nesso tra populismo e uso della lingua dialettale?

Temo di no, per motivi logistici.