Il disegno di legge sull'università: le correzioni di rotta necessarie

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E’ bene fondare una valutazione del disegno di legge sull’università, presentato in Consiglio dei ministri e avviato all’iter parlamentare, sui seguenti tre quesiti:

1. Quale è l’ispirazione del progetto?

2. Quali sono gli obiettivi?

3. Quali sono le linee strategiche verso quegli obiettivi e gli eventuali vincoli percepiti?

Rispondere ai tre quesiti consente di chiarire i limiti del disegno di legge e le correzioni di rotta necessarie.

Iniziamo con la versione "executive summary", dando risposte sintetiche alle tre domande.

1. Qual è l’ispirazione del progetto, la visione dell’università che lo sottende, l’idea forte che lo ha guidato? Nessuna, apparentemente. La visione della istituzione università, esposta nel primo articolo, è alquanto modesta: “sede di libera formazione e strumento per la circolazione della conoscenza”, si legge semplicemente. Manca ogni riconoscimento della centralità della ricerca, manca il riconoscimento che ciò che qualifica il sistema universitario è la ricerca e che ciò che attribuisce qualità a un sistema universitario è la qualità della sua ricerca. L’assenza di una tale ispirazione condiziona pesantemente l’elaborazione del disegno di legge.

2. Quali sono gli obiettivi? Non v’è dubbio che il progetto intende promuovere efficienza e merito. Gli apprezzamenti ricevuti riconoscono esattamente questo. Il problema però è che, mancando il progetto di una ispirazione forte che guidi il disegno degli interventi, gli obiettivi dichiarati rischiano di non esser conseguiti e di rimanere delle pure enunciazioni.

3. Quali sono le linee strategiche verso gli obiettivi di efficienza e merito, e gli eventuali vincoli percepiti? Si punta su tre cose: la riforma della governance centrale dell’ateneo, un sistema di incentivi affidato con precisi criteri direttivi a decreti legislativi del governo, una iper-regolamentazione su tutti gli aspetti trattati dal ddl.

Veniamo ora ad un'analisi più dettagliata dei pregi e dei difetti del ddl. Cominciamo dalla questione più importante, gli incentivi.

Per quanto riguarda gli incentivi, ciò che preoccupa è la lentezza delle realizzazioni. Un modello di finanziamento degli atenei fondato su un sistema di incentivi è stato elaborato da anni e in varie versioni. Non è stato applicato, se non marginalmente, e mai sui risultati della ricerca. L’unico esercizio di valutazione della ricerca, effettuato dal CIVR per il triennio 2001-03, è stato utilizzato, in misura del tutto modesta, solo nella distribuzione del FFO 2009! Il ddl affida all’ANVUR, organismo che deve ancora essere costituito, la valutazione di tutte le attività degli atenei. L’iter dell’approvazione del disegno, l’elaborazione dei decreti delegati, il varo dell’onni-valutativo ANVUR implicano una concreta operatività di questo organismo alquanto lontana. Gli impegni del ddl su valutazione e incentivi sono naturalmente importanti, ma la novità di cui oggi si ha bisogno è la rapida prosecuzione di ciò che è davvero cruciale per valutare gli atenei: la valutazione della ricerca. Ampliare e consolidare il lavoro del CIVR sarà utile anche per calibrare meglio le diverse attività del futuro ANVUR.

Niente affatto risolutiva e fonte di nuovi pericoli appare la riforma della governance, impostata su un potere straordinario del rettore, su un Consiglio di Amministrazione non elettivo e che diviene l’unico organo deliberante dell’ateneo, su una consistente presenza nel CdA, almeno il 40%, di membri esterni all’ateneo.

Il potere dei rettori è già notevolissimo. Non ha dato grandi risultati, e non certo perché i rettori difettavano di competenze gestionali. La “comprovata competenza ed esperienza di gestione .. nel settore universitario”, richiesta per i futuri rettori dal ddl, non garantisce nulla e non è condizione necessaria di nulla, se poi significa qualcosa. Ancor più vuota è l’attribuzione di responsabilità: al di là di illeciti amministrativi, per i quali ovviamente non c’è bisogno di una previsione di responsabilità del ddl, la “attribuzione al rettore .. delle responsabilità del perseguimento delle finalità dell’università secondo criteri di qualità” non significa nulla e non individua di per sé alcuna conseguenza.

La debolezza della governance, a tutti i livelli, sta nella circostanza che essa è quasi sempre espressione diretta della struttura per corporazioni del nostro sistema universitario e degli equilibri che tra le corporazioni si costituiscono nei singoli atenei e nelle singole unità. Ai condizionamenti delle corporazioni si aggiungono sovente, nella carica rettorale, non marginali interferenze politiche. I condizionamenti corporativi continueranno ad operare, poiché il ddl attenua la numerosità delle corporazioni ma non getta basi per il loro superamento, mentre gli innesti esterni nel CdA saranno inevitabilmente l’occasione di una diffusione delle interferenze politiche. Una ulteriore perdita di indipendenza e di identità degli atenei, verso caratteristiche analoghe a quelle di ASL o aziende municipalizzate. Questa non è una facile battuta, peraltro ormai più volte ripetuta, ma una prospettiva realistica, seppure non certo per tutte le sedi.

Togliere potere ai professori”, come si è auspicato, puntando sulle mediazioni con i rettori e aprendo le porte a spartizioni politiche, terribili pratiche usuali nella conduzione dei nostri servizi pubblici, è innovare in peggio.

Il problema non è togliere potere ai professori, ma avere buoni professori e far funzionare meglio l’autogoverno. Un cambiamento di rotta è necessario nelle scelte strategiche del ddl. Fondare la riorganizzazione degli atenei non sul maggior potere del governo centrale, ma sulla maggiore forza e autonomia delle unità di base della ricerca – i dipartimenti – è una correzione di rotta che occorre richiedere nell’iter parlamentare che si sta avviando. L’innovazione più interessante del ddl è proprio il focus sui dipartimenti. Il ddl va però timidamente in questa direzione, non con la decisione necessaria. La scelta cruciale, cui dovrebbe condurre quell’ispirazione forte che non c’è nel ddl, è rendere i dipartimenti direttamente responsabili dei risultati conseguiti nella ricerca. Le unità di riferimento del sistema di incentivi devono essere soprattutto e direttamente i singoli dipartimenti. Ciò va nella direzione opposta del rafforzamento del governo centrale di ateneo, toglie ad esso inopportuni margini di manovra e crea le condizioni di contesto più sicure per la tutela e dunque per lo sviluppo della ricerca.

La terza linea strategica del ddl è la capillarità delle disposizioni. Che si fermi il declino dell’università italiana con il dettaglio delle regole è, diciamo, improbabile. Molto più probabile è che, su questa strada, si finisca per prendere decisioni ridicole. Una decisione ridicola è la fissazione di 1500 ore annue di lavoro complessivo, “compresa l’attività di ricerca e di studio” recita il ddl, dei professori a tempo pieno. Chi prenderà i tempi e quali garanzie questo monte-ore dà di buona ricerca?

Non molto più seria è la previsione di “criteri e parametri” per l’attribuzione dell’abilitazione a posti di professore “definiti con decreto del Ministro”. Con questo veniamo all’ultimo commento: la selezione della docenza. Il ddl non fa molto per avere buoni professori. Qui le mediazioni sono con l’opposizione. Lo schema delineato segue infatti una vecchia idea dell’opposizione: una abilitazione scientifica nazionale a lista aperta, con una immissione in ruolo nelle singole sedi effettuata poi o attraverso una valutazione comparativa o attraverso una chiamata diretta di persone, provviste della necessaria abilitazione, già in forza nell’ateneo. Un vincitore unico sui posti banditi dalle sedi, dichiarato da un commissione nazionale con innesti internazionali, e la libertà della sede di non chiamare nessuno se è insoddisfatta dell’esito del concorso, è uno schema più diretto e semplice. E’ uno schema che elimina la mina vagante degli idonei, che il ddl si illude di disinnescare con i criteri e parametri definiti dal Ministro, e che in ogni caso dovrebbe costituire solo una disciplina transitoria rispetto a un futuro, completo affidamento della selezione ai singoli dipartimenti.

Dubbi infine si pongono anche per i ricercatori a tempo determinato, assunti con contratto triennale, rinnovabile un sola volta. La prospettiva offerta a questi ricercatori è di ottenere una chiamata dalla università che gli ha fatto il contratto, qualora essi abbiano ottenuto prima della scadenza del contratto l’abilitazione per il ruolo di professore associato. La ratio della norma è incomprensibile. I pericoli sono invece chiari: se l’abilitazione sarà un titolo negato a pochi, l’immissione nel ruolo di professore continuerà ad essere un fatto locale, sostanzialmente privo di controllo.

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Commenti

Ci sono 32 commenti

Avete un link al DDL? L'impressione che si trae dalla lettura del vostro articolo e' che non solo le norme non siano coerenti con gli obiettivi dichiarati, ma che le "belle parole" siano usate per concentrare ulteriormente il potere decisionale e sottoporlo piu' agevolmente all'influenza (se non il controllo) della politica e delle egemonie locali. In Italia si governa con il sottopotere ed e' ragionevole che i politici cerchino di allargare il pool di "posti" disponibili per la soddisfazione dei loro clientes. Peccato che si avrebbe il bisogno dell'esatto opposto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dalla mia lettura frettolosa della bozza, mi pare che uno dei leitmotif sia il rapporto Università-industria. Sebbene sia d'accordo con il ministro che in questo l'università italiana è carente, e un po' chiusa in una torre di cristallo, mi domando quanto questo argomento sia stato usato in modo strumentale per dirottare fondi dalla università pubblica alle aziende private che investono (o millantano di investire) in ricerca. Ma non sono molto bravo a leggere le pieghe economiche delle leggi, qualcuno più scafato si è fatto questa domanda?

In generale, che il governo dell'operazione Alitalia abbia un occhio di favore per l'industria nel contesto di una riforma universitaria non mi fa dormire sonni troppo tranquilli.

Ho letto di recente un articolo del prof Zingales (vedi qua espresso.repubblica.it/dettaglio/meno-potere-ai-professori/2114106/18 ) che al contrario del presente post fa una sorta di apologia della "coraggiosa e rivoluzionaria" -così la definisce- proposta Gelmini.

Ora è vero che gli economisti sono spesso in disaccordo e le discipline economiche hanno uno statuto epistemologico debole, ma delle due una: ha ragione Zingales nel riconoscere coraggio e copernicano furore all'ottima Gelmini o hanno ragione Potestio-Rustichini nel dipingere la riforma come una nave (forse un canotto?) alla deriva a cui occorre "necessariamente correggere la rotta"

 

Ho letto di recente un articolo del prof Zingales (vedi qua espresso.repubblica.it/dettaglio/meno-potere-ai-professori/2114106/18 ) che al contrario del presente post fa una sorta di apologia della "coraggiosa e rivoluzionaria" -così la definisce- proposta Gelmini.

 

Concordo che uno dei maggiori problemi dell'Universita' di oggi e' il fatto che gli Atenei sono amministrati dai docenti stessi, in mostruoso conflitto di interesse rispetto ad un uso efficiente e ottimale delle risorse pubbliche assegnate. Non e' per nulla sorprendente pertanto che tale auto-amministrazione produca risultati mediamente alquanto scadenti, come accade in altri ambiti auto-amministrati dai percettori delle risorse, come la Giustizia.  Peraltro non ho alcuna fiducia nelle capacita' del sistema Italia (specie i politici, ma anche Confindustria e Fondazioni) di nominare membri esterni che migliorino il governo degli Atenei, e concordo sul fatto che gli Atenei rischiano di essere aministrati da incapaci e incompetenti con l'unico merito di riscuotere la fiducia delle maggioranze politiche del momento. Forse una soluzione potrebbe essere, indipendentemente da chi amministra l'universita', introdurre per legge penalizzazioni incisive non solo su fondi di ricerca e possibilita' di assumere, ma anche sui compensi stessi dei docenti universitari, a partire dagli amministratori, in base ad una valutazione dei risultati dell'Ateneo. La valutazione per essere sensata tuttavia deve essere fatta Dipartimento per Dipartimento, e in generale la gestione dovrebbe essere devoluta al massimo ai Dipartimenti. Un certo livello di devoluzione del potere ai Dipartimenti peraltro fa parte del DDLD in preparazione e secondo me e' l'elemento piu' apprezzabile della riforma in preparazione.

Condivido le perplessità su governance e selezione dei docenti. Guardando avanti, credo che nonostante gli impicci burocratici i Dipartimenti guadagneranno centralità, e che quelli buoni riusciranno a diventare migliori e più grandi, con effetti positivi sulla qualità della ricerca. Se è così, ovviamente diventeranno anche di meno, ed emergeranno università di serie A e di serie B. Che è, let's face it, naturale.

La mia riflessione rigurda solo questo: come valorizzare i talenti che a diciott'anni finiscono nelle università di periferia? Ci vorrebbe 'pane per loro denti' in tutte le triennali, il che eviterebbe anche un eccessivo decadimento delle sedi di secondo piano. Una soluzione secondo me percorribile è quella di copiare/adattare la pratica della Normale di Pisa, inserendo corsi 'di rinforzo': si selezionano i 10-20 più bravi alla fine del primo anno, e negli altri due si fa per loro un corso di approfondimento al semestre (quattro in totale). In questo modo da dovunque parti, se sei bravo puoi uscire preparato.

Secondo Roberto Perotti la soluzione sarebbe nella offerta di borse di studio che abbattano i costi della mobilità per gli studenti.

I soldi uscirebbero da tasse più alte.

Un diciottenne bravo avrebbe quindi la concreta possibilità di scegliere l'Università, anche se povero.

Io, devo dire, mi trovo d'accordo. Credo che il sistema USA funzioni in buona parte così. Credo che la visione "ecumenica" dell'università italiana finisca per offrire opportunità di bivaccare a chi non ha voglia di studiare, e per premiare ingiustamente chi potrebbe permettersi di pagare molte più tasse per una istruzione superiore.

 

come valorizzare i talenti che a diciott'anni finiscono nelle università di periferia? Ci vorrebbe 'pane per loro denti' in tutte le triennali, il che eviterebbe anche un eccessivo decadimento delle sedi di secondo piano. Una soluzione secondo me percorribile è quella di copiare/adattare la pratica della Normale di Pisa, inserendo corsi 'di rinforzo': si selezionano i 10-20 più bravi alla fine del primo anno, e negli altri due si fa per loro un corso di approfondimento al semestre (quattro in totale). In questo modo da dovunque parti, se sei bravo puoi uscire preparato.

 

Ritengo inefficace aggiungere esami aggiuntivi per migliorare la preparazione degli studenti piu' capaci delle universita' periferiche.  La Normale forma buoni studenti primariamente grazie alla selezione iniziale nella quale con concorso nazionale onesto viene preso il 3-5% migliore. Gli esami aggiuntivi e gli obblighi di fare gli esami nei termini previsti e con buone votazioni sono importanti per verificare la bonta' della selezione iniziale ma secondo me relativamente poco influenti nel valorizzare gli studenti. Per valorizzare buoni studenti in Atenei periferici suggerisco di:

  • dare incentivi sia materiali (riduzione tasse) sia formali (diploma aggiuntivo, o meglio annotazione nel diploma) agli studenti che superano gli esami nei termini e con vincoli di qualita' sulle votazioni
  • nelle materie che lo consentono, particolarmente nei primi anni, introdurre competizioni nazionali del genere delle olimpiadi della matematica e della fisica che si usano nei licei

Detto questo va da se' che se i docenti dell'universita' periferica non hanno un livello ragionevole di qualita', al minimo la capacita' di dare voti adeguati agli esami, non esiste alcuna magia capace di valorizzare gli studenti meritevoli a meno di emigrare...

 

Qual è l’ispirazione del progetto, la visione dell’università che lo sottende, l’idea forte che lo ha guidato? Nessuna, apparentemente.
[...]
Il problema però è che, mancando il progetto di una ispirazione forte che guidi il disegno degli interventi, gli obiettivi dichiarati rischiano di non esser conseguiti e di rimanere delle pure enunciazioni.

 

Questi elementi di critica non mi sembrano centrati. Se non ho capito male il ministro e' ispirato dall'avvilente confronto tra le universita' italiane e quelle degli altri Paesi avanzati e questo mi sembra un buon punto di partenza. L'orientamento annunciato di voler valorizzare il merito va anche bene. Secondo me e' piu' appropriato criticare i provvedimenti proposti singolarmente e nel loro complesso.

 

3. Quali sono le linee strategiche verso gli obiettivi di efficienza e merito, e gli eventuali vincoli percepiti? Si punta su tre cose: la riforma della governance centrale dell’ateneo, un sistema di incentivi affidato con precisi criteri direttivi a decreti legislativi del governo, una iper-regolamentazione su tutti gli aspetti trattati dal ddl.

 

Concordo che il DDL si possa riassumere cosi'. Aggiungerei un ulteriore elemento: si punta ad un sistema di reclutamento e promozione accademica basato su criteri oggettivi e uniformi di valutazione dei titoli di ricerca secondo direttive centrali statali.

 

Il ddl affida all’ANVUR, organismo che deve ancora essere costituito, la valutazione di tutte le attività degli atenei. L’iter dell’approvazione del disegno, l’elaborazione dei decreti delegati, il varo dell’onni-valutativo ANVUR implicano una concreta operatività di questo organismo alquanto lontana. Gli impegni del ddl su valutazione e incentivi sono naturalmente importanti, ma la novità di cui oggi si ha bisogno è la rapida prosecuzione di ciò che è davvero cruciale per valutare gli atenei: la valutazione della ricerca. Ampliare e consolidare il lavoro del CIVR sarà utile anche per calibrare meglio le diverse attività del futuro ANVUR.

 

L'idea di dare piu' valore e di potenziare la valutazione degli Atenei, comune sia a Mussi che alla Gelmini va apprezzata. Da quel poco che ho capito il CIVR non viene gettato alle ortiche ne' da Mussi ne' dalla Gelmini e l'ANVUR e' solamente una forma di organizzazione considerata piu' flessibile e potente per fare una valutazione piu' frequente e approfondita.  I tempi della sua realizzazione sono commisurati alla scadente qualita' e ai tempi di funzionamento della politica e dell'amministrazione centrale statale italiana  piu' che alla responsabilita' personale dei ministri del momento, secondo me.

 

Per quanto riguarda gli incentivi, ciò che preoccupa è la lentezza delle realizzazioni. Un modello di finanziamento degli atenei fondato su un sistema di incentivi è stato elaborato da anni e in varie versioni. Non è stato applicato, se non marginalmente, e mai sui risultati della ricerca. L’unico esercizio di valutazione della ricerca, effettuato dal CIVR per il triennio 2001-03, è stato utilizzato, in misura del tutto modesta, solo nella distribuzione del FFO 2009!

 

Concordo sul resoconto. E' probabile che uno Stato malfunzionante e malgovernato come quello italiano non sara' mai capace di valutare efficacemente e provvedere incentivi adeguati ai suoi Atenei. L'unico fatto che si puo' apprezzare oggi e' la volonta' espressa ripetutamente dalla Gelmini di aumentare l'entita' delle risorse assegnate sulla base di una valutazione di merito e sperare...

 

Il problema non è togliere potere ai professori, ma avere buoni professori e far funzionare meglio l’autogoverno.

 

Io direi che l'obiettivo e' di avere un'universita' che produce buoni risultati spendendo efficientemente le risorse pubbliche e private che assorbe. L'autogoverno, che ha dato risultati scadenti fino ad oggi, non e' un valore in se'. Semmai e' un valore, o meglio e' opportuno che il merito scientifico dei risultati della ricerca sia valutato dalla comunita' scientifica. Le universita' USA funzionano bene senza essere auto-governate dai docenti. Anche i sistemi statali universitari della California non sono auto-governati dai docenti ma semmai da reggitori (Regents) di nomina sostanzialmente politica. Detto questo, il problema dell'Italia e' che una classe politica abominevole non ha i titoli per nominare amministratori migliori di quelli espressi dall'autogoverno, ne' si vedono altri attori credibili per questo compito (Fondazioni, associazioni industriali). Quindi l'autogoverno in Italia rappresenta solo una pessima soluzione (per l'evidente conflitto di interessi nell'uso di risorse pubbliche) al quale pero' non si vedono alternative migliori.

 

Fondare la riorganizzazione degli atenei non sul maggior potere del governo centrale, ma sulla maggiore forza e autonomia delle unità di base della ricerca – i dipartimenti – è una correzione di rotta che occorre richiedere nell’iter parlamentare che si sta avviando. L’innovazione più interessante del ddl è proprio il focus sui dipartimenti. Il ddl va però timidamente in questa direzione, non con la decisione necessaria. La scelta cruciale, cui dovrebbe condurre quell’ispirazione forte che non c’è nel ddl, è rendere i dipartimenti direttamente responsabili dei risultati conseguiti nella ricerca. Le unità di riferimento del sistema di incentivi devono essere soprattutto e direttamente i singoli dipartimenti. Ciò va nella direzione opposta del rafforzamento del governo centrale di ateneo, toglie ad esso inopportuni margini di manovra e crea le condizioni di contesto più sicure per la tutela e dunque per lo sviluppo della ricerca.

 

Sono totalmente d'accordo su queste considerazioni.

 

Lo schema delineato segue infatti una vecchia idea dell’opposizione: una abilitazione scientifica nazionale a lista aperta, con una immissione in ruolo nelle singole sedi effettuata poi o attraverso una valutazione comparativa o attraverso una chiamata diretta di persone, provviste della necessaria abilitazione, già in forza nell’ateneo. Un vincitore unico sui posti banditi dalle sedi, dichiarato da un commissione nazionale con innesti internazionali, e la libertà della sede di non chiamare nessuno se è insoddisfatta dell’esito del concorso, è uno schema più diretto e semplice.

 

Sono radicalmente contrario alla commissione nazionale per la determinazione dei docenti reclutati dai Dipartimenti: i membri di una commissione nazionale non hanno alcun interesse personale a scegliere il candidato migliore per un posto disponibile in un Dipartimento e hanno semmai interesse a soddisfare con uno scambio non trasparente di favori le richieste dei Dipartimenti oppure a spedire in Dipartimenti non sufficientemente ammanicati e inseriti nel sistema candidati del proprio entourage.  Ritengo invece che il metodo migliore di reclutamento sia quello locale purche' organizzato con alcuni fondamentali elementi non presenti oggi:

  1. devono esistere conseguenze incisive sulle scelte operate sulla base della produzione scientifica aggregata a livello di Dipartimento: lo Stato dovrebbe valutare i risultati dei Dipartimenti e assegnare risorse e possibilita' di reclutamento commisurate ai risultati, e anche il monte salari dovrebbe essere influenzato dalla valutazione dei risultati
  2. per un periodo potenzialmente illimitato dovrebbe essere impossibile reclutare gli interni. Ritengo che il sistema dovrebbe essere organizzato similmente agli USA ma adottando per legge i canoni di comportamento di fatto li' adottati, quindi:
    1. gli studenti di dottorato devono essere reclutati esternamente ai laureati dell'Ateneo
    2. i post-doc devono essere reclutati esternamente ai laureati PHD dell'Ateneo
    3. i ricercatori, trasformati in assistant professor, devono essere reclutati esternamente
    4. come peraltro previsto dal disegno di legge, i ricercatori dopo ~6 anni sono confermati nella posizione di professore associato, a discrezione del Dipartimento di appartenenza, in caso contrario perderebbero la posizione (la richiesta di abilitazione nazionale puo' rimanere almeno transitoriamente, ma sarebbe meno importante se venisse fatto reclutamento esterno).
    5. sia la conferma ad associato sia la promozione ad ordinario potrebbero essere lasciati al Dipartimento se i gradi precedenti del reclutamento sono stati esterni
    6. i salari dovrebbero essere rimodulati riducendo di molto l'anzianita' e introducendo differenziazioni legati al merito e alle responsabilita' organizzative, anche le differenze di salario medio tra assistant, associati e ordinari dovrebbero essere ridotte al livello USA anche per diminuire i danni della tendenza naturale alla promozione di massa internamente ai Dipartimenti.  Come misura di sanita' ogni Dipartimento dovrebbe avere un budget per salari che e' indipendente da come internamente vengono decise le promozioni, che determinanerebbero solamente la distribuzione interna relativa delle retribuzioni stesse
    7. inoltre [quanto segue e' stato aggiunto in un secondo tempo] i costi di rilocazione del reclutamento esterno vanno coperti sia con un contributo di rilocazione sia con salari di entrata di livello europeo (ma commisurati al costo della vita italiano) cui far seguire nel resto della carriera di chi li percepisce una progressione di anzianita' di pendenza europea, molto infereriore alla progressione di anzianita' italiana, abbandonando l'insano sistema retributivo italiano caratterizzato da salari d'entrata miserabili e da salari finali lordi medi ai vertici mondiali per i professori universitari di anzianita' di servizio massima. Una molto utile rimodulazione salariale si puo' fare anche con spesa salariale pro-capite a regime del tutto invariata.

 

Dubbi infine si pongono anche per i ricercatori a tempo determinato, assunti con contratto triennale, rinnovabile un sola volta. La prospettiva offerta a questi ricercatori è di ottenere una chiamata dalla università che gli ha fatto il contratto, qualora essi abbiano ottenuto prima della scadenza del contratto l’abilitazione per il ruolo di professore associato. La ratio della norma è incomprensibile. I pericoli sono invece chiari: se l’abilitazione sarà un titolo negato a pochi, l’immissione nel ruolo di professore continuerà ad essere un fatto locale, sostanzialmente privo di controllo.

 

Come ho scritto sopra io invece vedrei bene questa parte del DDL purche' venga combinata con reclutamento esterno dei ricercatori.  Secondo me e' opportuno abolire l'abnorme posizione del ricercatore universitario italiano, e il modo migliore che vedo e' l'adozione del sistema USA con contratti a tempo determinato di ~6 anni seguiti tendenzialmente per l'80-90% con stabilizzazione al livello di associato su decisione del Dipartimento stesso. La via maestra per ridurre l'arbitrarieta' senza controllo della cooptazione a livello di DIpartimento secondo me dovrebbe essere l'obbligo di reclutamento esterno per dottorato, post-doc e assistant professor e poi conseguenze incisive, anche sul monte salari complessivo, determinati dai risultati aggregati a livello di Dipartimento. Specie in una fase transitoria valutazioni nazionali dei candidati potrebbero aiutare ma non le ritengo decisive se non per assicurare un livello veramente minimo dei candidati.

 

 

per un periodo potenzialmente illimitato dovrebbe essere impossibile reclutare gli interni.

 

Questo e' un provvedimento relativemente semplice da adottare e secondo me potentissimo. Eppure se ne parla sempre poco. Io lo appoggio con tutte le mie forze da sempre.

PS: la prima parte del tuo commento e' ripetuta diverse volte.

almeno il 40% di membri esterni all’ateneo.


In cambio di cosa?

Quando questo governo si mette a governare, invece che fare leggi che interessano il premier, rivela di aderire a una cultura dirigista improntata a una "iper-regolamentazione", come dite voi:

www.corriere.it/politica/09_dicembre_01/badanti-baby-sitter_da418c3e-de73-11de-b977-00144f02aabc.shtml

Posso capire che una persona che pensa seriamente alla politica per la prima volta, come la Carfagna, pensi che mettere tante regole sia una soluzione ai problemi. Tuttavia il ministro Sacconi non è giovane, e nemmeno bello, quindi non ha scuse e non possiamo dire che sta lì perché almeno è bravo in qualcos'altro...

 

La debolezza della governance, a tutti i livelli, sta nella circostanza che essa è quasi sempre espressione diretta della struttura per corporazioni del nostro sistema universitario e degli equilibri che tra le corporazioni si costituiscono nei singoli atenei e nelle singole unità. Ai condizionamenti delle corporazioni si aggiungono sovente, nella carica rettorale, non marginali interferenze politiche.

 

 

    Analisi perfetta: non si capisce tuttavia la critica (che segue) rivolta alla nuova composizione  del CdA. Viene a questo proposito evocato lo spettro delle ASL. O il governo (amministrazione e gestione) dell’ateneo è affidato ai docenti attraverso una rappresentanza elettiva (è quel che avviene oggi), o si mette il CdA in mani estranee alle cucine accademiche. Tertium non datur. Nel secondo caso vi sarà sempre lo spettro delle ASL, anche se va detto che alcune ASL funzionano, a differenza di molte altre. Personalmente penso che una minoranza di consiglieri (scelti in modo probabilmente avventuroso) non sia sufficiente a modificare l’attuale sistema di governo. Del resto, le celebrate università USA sono governate da amministrazioni estranee alla docenza, e nella stessa direzione sono state riformate recentemente le università di diversi paesi europei.

 

 

Fondare la riorganizzazione degli atenei non sul maggior potere del governo centrale, ma sullamaggiore forza e autonomia delle unità di base della ricerca – i dipartimenti – è una correzione di rotta che occorre richiedere nell’iter parlamentare che si sta avviando.

 

 

   Le università hanno la doppia missione, che è quella di produrre e trasmettere il sapere. Immaginare le università come una galassia di Dipartimenti votati alla ricerca, che per tenere coesi i propri aderenti dovrebbero essere tematici, è semplicemente fuorviante. Ciascun dipartimento è invece un insieme di ricercatori che agiscono in collaborazione o indipendentemente e ad essi il dipartimento deve fornire i mezzi strumentali per svolgere il lavoro. Così la maggioranza dei dipartimenti è e sarà sempre “DISCIPLINARE”: di qui la necessità di strutture di raccordo  per avere una didattica, che è parte della missione delle università. Strutture identificabili con le attuali facoltà. 

   Immaginare una fumosa immagine di dipartimenti forti e autonomi sui quali disegnare l’autonomia responsabile degli atenei mi è poco comprensibile.

 

   Sul reclutamento sono perfettamente d’accordo: il DDL  era stato presentato qualche anno fa da Tessitore ed altri. L’idoneità – al pari di quante ne abbiamo viste negli ultimi quaranta anni – diventerà risibile. Il “concorso locale” non servirà mai a nulla fino a quando saranno gli atenei a disporre dei budget per l’istituzione di un posto e quindi la chiamata di un docente.  L’idea di proibire prove scritte o orali per reclutare ricercatori od assegnasti –quasi sempre privi di titoli “solidi” – è una pessima idea che porterà ad un potenziamento del clientelismo.

    La parte del DDL sul reclutamento dei docenti è del tutto deludente.

 

Se davvero il federalismo regionale diventasse una realtà, come la metteremmo con le università? Dico questo perché il DDL Gelmini è un concentrato di centralizzazione davvero deprimente. Il DDL si compone di 28 pagine e 123 sotto-commi che riguardano i minimi dettagli del funzionamento delle università, che (dettagli e università) dovrànno essere uguali su tutto il territorio nazionale, per la gioia - ne sono certo - di Antonello Masia, capo del Dipartimento (una volta era capo della Direzione) per l’Università, l’Alta Formazione Artistica Musicale e Coreutica e per la Ricerca. 

E pensare che sarebbe bastato un  DDL con un solo articolo: "Abolizione del valore legale della laurea" ( e di tutti i titoli di studio superiori) per

1. mettere in moto la vera competitione tra Università

2. poter abolire il Ministero dell'Università e della Ricerca (che esiste solo per garantire l'equipollenza (specialmente la pollenza...) dei titoli di studio)

3. ottenere una naturale classificazione tra università di serie A e quelle di serie B, o C.

Invece, con un DDL che dà la delega al governo su molti punti importanti, la cosidetta ennesima "riforma" dell'università darà i suoi primi vagiti, forse, tra un paio d'anni, cioè mai.  Ci vorrà la fiducia per approvare questo DDL...

 

 

E pensare che sarebbe bastato un  DDL con un solo articolo: "Abolizione del valore legale della laurea" ( e di tutti i titoli di studio superiori) per

1. mettere in moto la vera competitione tra Università

2. poter abolire il Ministero dell'Università e della Ricerca (che esiste solo per garantire l'equipollenza (specialmente la pollenza...) dei titoli di studio)

3. ottenere una naturale classificazione tra università di serie A e quelle di serie B, o C.

 

Professor Paris, io - come molti, penso - ho una elevata stima per la sua azione moralizzatrice in materia di correttezza e trasparenza del reclutamento accademico, incluso con le azioni giudiziarie.

MA non posso evitare di rilevare, e diciamo pure per la n-sima volta qui, cogliendo l'occasione di questo intervento, il valore ideologico e sostanzialmente vacuo delle parole d'ordine che Lei lancia con il suo intervento. Non è con la ripetizione della richiesta di "abolizione del valore legale della laurea" che si comprendono i problemi del sistema dell'istruzione universitaria italiana.

Questo che Lei ed altri chiamate "valore legale" esiste, nella sua forma sostanziale, in tutto il mondo - posto che si mappino correttamente ruoli, responsabilità e prerogative fra diversi sistemi con diverse tradizioni amministrative e diverse tradizioni giuridiche.

RR