Eradicare l'epatite C?

/ Articolo / Eradicare l'epatite C?
  • Condividi

Da quando sono disponibili gli antivirali di nuova generazione per il trattamento dell’epatite C (Direct Acting Antiviral, DAA) periodicamente appaiono dichiarazioni di politici e titoli sui giornali circa piani di eradicazione di questa malattia. L’Associazione dei pazienti con epatite (Epac Onlus), nell’annunciare gli 11 nuovi criteri dell’AIFA sulla prescrivibilità dei DAA a carico del SSN, dichiara che l’AIFA renderà pubblico prossimamente un piano nazionale per l’eradicazione dell’epatite C, anche se sul sito dell’Agenzia non se ne fa cenno. Ma questo obiettivo è veramente raggiungibile? Oppure è solo propaganda politica? O riflette la passione, le speranze, la dedizione di un gruppo di persone che con la malattia ha avuto, ed ha, a che fare? E se fosse possibile, eventualmente, a che costo e con quali risorse? In questo articolo cerchiamo di mettere dei numeri dietro a delle ipotesi.

I DAA sono farmaci che finora si sono dimostrati molto efficaci nell’eliminare il virus dell’epatite C dal sistema circolatorio delle persone infette. È troppo presto per una completa valutazione della loro efficacia in termini di mortalità e sopravvivenza, dato che sono stati introdotti molto recentemente ed i tempi di sviluppo della malattia a partire dall’infezione sono molto lunghi. Finora, tra l’altro, sono stati trattati solo i pazienti più gravi. Il costo di un trattamento con DAA è molto elevato. Il primo di questi trattamenti, il Sofosbuvir, era stato posto sul mercato in USA a $ 88.000 per ciclo di terapia, scatenando enormi polemiche. Ora il costo del trattamento in Italia è molto sceso e si aggira su € 15.000 per ciclo di terapia, prezzo comunque ingiustificato sia dai costi di produzione e di distribuzione, sia dai costi di R&S, ormai ampiamente recuperati[i]. Un’ampia trattazione del tema è già stata fatta su queste pagine e ad essa si rimanda.

Come premessa per capire se e come l’eradicazione della malattia sia veramente possibile, bisogna aver chiaro che i DAA non sono vaccini, ovvero non proteggono le persone dal momento della loro assunzione in poi. Sono medicine che nel 95% dei casi eliminano il virus dal sangue. Sulla eliminazione completa dal corpo umano non si hanno certezze (potrebbero permanere per esempio in alcuni tessuti), ma senza entrare in questo tema, possiamo essere ragionevolmente certi che l’eliminazione dal sangue prevenga la possibilità che il malato possa contagiare altri.

Ciò detto, vediamo qual è il modello epidemiologico dell’infezione. I Centers for Disease Control (CDC), USA  ce lo illustrano in modo semplice ed immediato.

I CDC ci dicono che, per ogni 100 persone che si infettano con il virus dell’epatite C:

  • 75–85 svilupperanno un’infezione cronica
  • 60–70 svilupperanno una malattia epatica cronica
  • 5–20 svilupperanno una cirrosi in un arco di tempo compreso fra i 20 ed i 30 anni dall’infezione acuta
  • 1–5 moriranno poi come conseguenza della cirrosi o di un cancro epatico

Le percentuali possono variare a seconda del paese, ma la sostanza non varia. E la sostanza è che in ogni dato momento fra il 30 ed il 40% delle persone infette non svilupperanno mai o non hanno ancora sviluppato la malattia, per cui non sono conosciute. In realtà anche i malati con epatite cronica vengono conosciuti gradualmente, dato che per diverso tempo la malattia non dà sintomi clinici evidenti oppure per svariati motivi la malattia epatica non viene associata all’epatite C. Di conseguenza trattare solo i malati noti lascerebbe in giro un ampio numero di infetti che continuerebbero a costituire un serbatoio di circolazione per il virus. Tra l’altro sono proprio le persone che non sanno di essere infette a trasmettere il virus ad altri, dato che chi apprende di essere portatore in genere assume comportamenti tali da prevenire il contagio di altri. Quindi l’eradicazione del virus dai malati conosciuti non diminuirebbe di molto l’entità dell’endemia. Per incidere su quest’ultima, bisogna individuare e trattare la popolazione infetta non nota, in altri termini effettuare uno screening con test di laboratorio, screening di cui andrebbe però valutato con attenzione il rapporto costo/beneficio.

Ci viene qui in soccorso un pregevole studio del centro di economia sanitaria dell’Università di Tor Vergata a Roma, che ha elaborato nel 2016 un complesso modello epidemiologico della distribuzione dell’infezione e della malattia in Italia, proprio per valutare la fattibilità di questa eradicazione di cui si parla tanto. Uno dei grandi pregi di questo studio, tra l’altro, è che è uno dei pochissimi in cui gli autori dichiarino una totale mancanza di conflitti di interesse, vale a dire nessuno di loro ha mai ricevuto finanziamenti o altro dalle aziende produttrici di DAA.

L’articolo parte da una revisione dei molti studi di prevalenza dell’epatite C compiuti negli anni immediatamente successivi alla individuazione di questa malattia (1989) ed elabora stime per il 1995. Successivamente estrapola queste stime al 2014 con modelli matematici. Non sono dunque dati certi, ma la miglior stima disponibile. Secondo lo studio nel 2014 c’erano 1.569.215 cittadini con anticorpi anti virus C (quindi persone con infezione pregressa), e 828.884 pazienti con virus circolante nel sangue (pazienti con infezione in atto, che stanno replicando il virus). I pazienti con malattia epatica conclamata in vari livelli di severità sarebbero 728.883, di cui solo il 53% con diagnosi di epatite C. Lo screening dovrebbe quindi individuare gli 800 mila infetti cronici non malati e circa il 50% dei malati cronici, in totale circa 1.100.000 persone che andrebbero poi trattate con i DAA. Il test da fare è l’RNA+ qualitativo e non il test HCV Ab, che individua anche coloro che hanno avuto l’infezione e ne sono guariti in modo indolore, avrebbe cioè molti falsi positivi o bassa specificità che dir si voglia.

La popolazione italiana è di 60 milioni di individui. Possono essere ragionevolmente esclusi i più giovani (diciamo fino a 18 anni), ma non gli anziani, perché costoro hanno una prevalenza alta in quanto cresciuti in anni in cui la malattia non era conosciuta. Stiamo parlando di 49 milioni di persone, che potrebbero scendere a 45 circa, escludendo gli ultraottantenni. Il costo del test non è dato solo dal kit, ma anche dai costi organizzativi e di personale di una simile operazione, mastodontica. La tariffa del test del SSN è € 68,35 in Veneto, che non è ovviamente il costo, ma appunto una tariffa, e nel SSN le tariffe sono sempre molto inferiori ai costi veri. Il costo vero è però complesso da determinare, per cui assumiamo pure questo. Moltiplicando € 68,35 per 45 milioni di persone abbiamo 3 miliardi di euro. La platea degli screenandi potrebbe certamente essere ulteriormente ridotta, ma l’ordine di grandezza del costo resterebbe comunque elevatissimo. Sconti sul costo di acquisto del kit  inciderebbero solo parzialmente sul costo complessivo.

Una volta individuati gli infetti bisognerebbe poi trattarli. Il costo di un trattamento per il SSN attualmente pare sia sui 15.000 euro, che per 1.100.000 persone, dà 16 miliardi e mezzo di euro. Probabilmente per simili volumi il prezzo si ridurrebbe notevolmente, ma rimarrebbe comunque nell’ordine di svariati miliardi.

Ne vale la pena? Certo che no. Misure di profilassi e ricerca attiva nei malati epatici conclamati sono misure altrettanto efficaci a prezzi sostenibili. Inoltre il numero di malati è in costante diminuzione. Inoltre possono esserci fenomeni inattesi: per esempio, a Hong Kong in pazienti con epatite B trattati con farmaci antivirali per 7 anni la mortalità generale e per tumore non è per nulla diminuita. Infine, come detto sopra, i risultati a lunga scadenza della terapia non sono conosciuti.

Parlare di eradicazione non è dunque molto opportuno. Dato il modello epidemiologico dei CDC sopra ricordato, conviene aspettare che ci siano sintomi ed intervenire allora sul singolo soggetto. Del resto i nuovi criteri dell’AIFA opportunamente limitano l’uso del farmaco solo a malati conclamati e di una certa gravità.


 

[i] Piergentili P. Monopoly and public health in the medication market: The case of sofosbuvir. J Generic Medicines, 2017, DOI: https://doi.org/10.1177/1741134317705691 ; purtroppo l’accesso a questo paper è a pagamento, ma a chi è interessato posso mandarne una copia; a breve dovrebbe poi uscire una traduzione italiana open access.

 

Indietro

Commenti

Ci sono 5 commenti

 

 

Del resto i nuovi criteri dell’AIFA opportunamente limitano l’uso del farmaco solo a malati conclamati e di una certa gravità.

 

E questo è un paradosso, perché chi è oltre la soglia potrebbe sentirisi dire che ormai è troppo tardi, sopratutto se ha una certa età, e chi è sotto la soglia, e sarebbe curabile più facilmente si vede negate le cure. La cosa è emersa durante uno speciale della TV svizzera, andata in onda circa tre mesi fa. 

www.rsi.ch/la1/programmi/informazione/patti-chiari/Inchieste/inchieste-andate-in-onda/La-cura-c%C3%A8-ma-costa-troppo-7277834.html

perchè pare che l'abbattimento della carica virale blocchi il progresso di malattia. Purtroppo l'informazione e la ricerca sul tema è fortemante inquinata dagli interessi delle case farmaceutiche