L'Italianità e l'economia

/ Articolo / L'Italianità e l'economia
  • Condividi
La settimana scorsa ho partecipato a un convegno/gruppo di studio/scampagnata a Washington/spot pubblicitario sugli/cogli accademici italiani in America del nord. Ci è stato chiesto di discutere/presentare la propria disciplina (l'economia nel mio caso) per come è condotta qui nelle colonie d'oltreoceano e soprattutto di identificare se possibile un "approccio italiano" alla ricerca nella propria disciplina. Ecco la mia risposta, in forma abbreviata.

L’Economia

Politica ha notevole tradizione in Italia. Ciononostante vari tra i maggiori economisti italiani hanno svolto in

passato attivita’ di ricerca all’estero:

Vilfredo Pareto, l’economista italiano il cui contributo ha avuto il maggior impatto,

a Losanna e Franco Modigliani, l’unico

italiano a vincere un premio Nobel per l’economia, a MIT.

Ancora oggi

molti economisti italiani svolgono ricerca all’estero con notevole successo. Ad oggi si contano 29 italiani nella faculty dei 12 migliori dipartimenti

di economia(Berkeley, Chicago, Harvard, Minnesota,MIT, Northwestern, NYU, Penn, Princeton,

Stanford, UCLA, Yale). Non è poca cosa:29 italiani corrispondono

a circa il 7/8 per cento della intera faculty di questi dipartimenti. Tra

questi, 15 hanno posizioni tenured (cioè hanno contratti a tempo indeterminato,

contratti che sono concessi dopo anni di dimostrata attività di ricerca ai

livelli di qualità del dipartimento stesso). Ci sono anche molti italiani nei

migliori dipartimenti di economia in Europa: 7

alla London School of Economics (Londra), 5 a Pompeu Fabra (Barcellona),

2 a Idei (Tolosa).

Gli

economisti italiani all’estero tendono in media a produrre ricerca di migliore

qualità degli italiani in Italia (naturalmente queste sono medie, ci sono anche

ottimi economisti in Italia e pessimi all’estero). Un'analisi delle

pubblicazioni nelle più prestigiose riviste di economia nel 2006 (JPE,AER,

QJE, REStud, Econometrica)

una idea sommaria ma efficace di questo fenomeno: troviamo infatti 31 autori

italiani, di cui solo 7 hanno affiliazione accademica in Italia. Un serio confronto statistico delle

pubblicazionidegli economisti italiani

in Italia e all’estero (fatta da S. Gagliarducci, A. Ichino, G. Peri, R.

Perotti – tre di loro in Italia - in "Lo splendido isolamento dell’università

italiana", disponibile qui)

conferma, anzirafforza, questi analisi.

Ma perché

preoccuparsi di dove lavorano gli economisti italiani?Dopo tutto i risultati delle loro ricerche circolano

liberamente. Nonostante alcuni degli economisti italiani all’estero intervengano

regolarmente con editoriali sulla stampa o, come il sottoscritto, su blogs tipo

www.noisefromamerika.org,io credo che il paese paghi un costo notevole

per la loro assenza dall’accademia italiana in termini di qualità del dibattito economico. La totale

mancanza di comprensione, a destra come a sinistra, dei meccanismi fondamentali

di funzionamento di mercati competitivi non manca di sorprendermi (credo

senz’altro di poter dire 'sorprenderci')

ad ogni lettura di giornale.

L’altro vero

problema per il paese è che se tanti economisti di qualità lavorano

all’estero, lo stato finisce per spendere male i propri soldi, finanziando

ricerca economica di bassa qualità, a meno di non essere in grado di attrarre

bravi economisti stranieri (il ragionamento vale non solo per l’economia ma per ogni disciplina che produca ricerca non

brevettabile). In realtà l’Italia non attrae economisti stranieri (i dati

riferiscono al 2003 e sono ancora tratti dal lavoro S. Gagliarducci, A. Ichino,

G. Peri, R. Perotti): nei migliori 200 dipartimenti di economia al mondo(4 dei

quali italiani, tutti sotto la 100esima posizione) in media il 25% dei

ricercatori e’ straniero, mentre in

Italia solo l’1% dei ricercatori in questi dipartimentiè straniero. Questa percentuale è del 31%

nel Regno Unito, del 22% in Spagna,e

addirittura del 18% in Turchia.

Ma forse quello

che a me (e alla maggioranza degli economisti) pare una scarsa qualità media

della ricerca in Italia non è altro che un diverso approccio, un 'approccio

italiano' all’economia, che non trova il favore del mondo anglosassone.

Argomentazioni

di questo tipo sono possibili ma, a mio parere, assolutamente errate. Prima di

tutto, per essere più oggettivi, la

qualità della ricerca può essere misurata più oggettivamente misurata sulla

base delle citazioni ottenute dalle pubblicazioni. I risultati non

cambierebbero affatto. Inoltre, questo 'approccio italiano' all’economia

dovrebbe essere davvero solo italiano. Economisti francesiin Francia, tedeschi in Germania, spagnoli in

Spagna, e così via, pubblicano con successo nelle migliori riviste, per quanto

esse siano anglosassoni, e hanno dipartimenti (ad esempio Pompeu Fabra o Carlos III in

Spagna, Delta o Idei in Francia, Mannheim e Bonn in Germania) che sono ottimi

rispetto agli stessi standards di valutazione di matrice anglosassone. Infine,

le riviste italiane in cui molti dei ricercatori italiani pubblicano spesso non

soddisfano nemmeno minime condizioni di correttezza e indipendenza scientifica.

Per esempio, dei 32 economisti dichiarati idonei a concorso nel 2006 (dati

raccolti da Roberto Perotti nel suo Bollettino

dei Concorsi, disponibile qui), 15 non ha pubblicazioni su riviste che garantiscano “peer review” (cioè che

le decisioni di pubblicazione siano

prese sulla base di rapporti anonimi di uno o più esperti specialisti, condizione

richiesta in tutte le discipline,

fisiche, biologiche, umane, perchè una pubblicazione sia considerata dialcun valore scientifico).

Invocare un 'approccio

italiano' all’economia significa evitare confronti di qualità, sostenere che

ogni valutazione della ricerca è di per sé soggettiva e arbitraria. Queste

sono posizioni di relativismo culturale un tanto al chilo, con l’ovvio obiettivo

di continuare agarantire in Italia

forme di finanziamento dellaricerca

independenti dalla sua qualità. Non è sorprendente quindi che posizioni di

questo tipo siano emerse in seno al panel

di Economia e Statistica del Comitato di Indirizzo della Valutazione della

Ricerca (CIVR) che per la prima volta l’anno scorso ha prodotto una valutazione

della ricerca nell’università italiana. In questa occasione un membro del

panel, Luigi Pasinetti, ha pubblicamente

e ripetutamente ritenuto di esprimere nella relazione conclusiva (disponibile

in questa pagina del CIVR) dubbi sugli schemi valutativi adottati

sulla base di argomentazioni di relativismo

culturale così estreme da risultare, a mio papere, una difesa preconcetta e

strumentale di un sistema di finanziamento della ricercaindipendente dalla valutazione che il CIVR ha sperimentato.

In buona

sostanza, non esiste alcun 'approccio italiano' alla ricerca economica. Quando è esistito, nel caso degli economisti sraffiani negli anni 60-80, ha prodotto una

generazione di economisti ignorati dal resto del mondo perché rinchiusi in

schemi concettuali auto-referenziali e privi di alcuna rilevanza empirica.

Accettare

che la ricerca di qualità, in economia come in altre discipline,possa essere riconosciuta e identificata con

buon grado di oggettività è il primo passo per promuoverla e sostenerla, in

Italia come altrove. Come farlo è un altro problema.

 

Indietro

Commenti

Ci sono 17 commenti

Caro Alberto, condivido gran parte della tua analisi e in particolare l'idea che non abbia senso parlare di "approccio italiano" all'economia, se non, forse, per il passato (mi viene in mente p.e. la scuola italiana di scienza delle finanze a cavallo tra '800 e '900). Tuttavia, essendomi occupato in varie occasioni di CIVR e simili, posso dire che un elemento mancante nelle tue riflessioni è che sono le "regole del gioco" accademico, in particolare la famigerata suddivisione in raggruppamenti concorsuali (a volte MICRO-raggruppamenti!), ad incentivare i ricercatori, di economia (e non solo), a coltivare l'orticello della parrocchietta (pomposamente chiamato "approccio italiano" all'economia, al diritto, alle scienze politiche, ecc.), perché magari quello è il filone di studi prediletto dal - o l'unico noto al - barone che "ti porta" nel concorso. In altre parole, finché i concorsi non saranno solo e soltanto di "economics" (anzi, meglio ancora sarebbe non farli proprio i concorsi, ma questa è un'altra storia...: vedi comunque le proposte che mi paiono migliorative in http://www.universitas.bo.it:80/stato2007.htm, sulle quali mi piacerebbe avere il giudizio di voi di NfA), mancheranno gli incentivi adeguati ad allinearsi davvero ai temi ed ai metodi di ricerca internazionali. Permanendo lo status quo, condivido le tesi di chi, a proposito appunto di valutazione della ricerca, ha difeso posizioni, se non proprio "alla Pasinetti", comunque comprensive verso chi è in qualche modo "costretto" a pubblicare nelle varie sottodiscipline o su temi strettamente italiani. Questa è stata anche la mia posizione espressa, dopo varie riflessioni, pubblicamente ed in sedi ufficiali contro gli estremismi dei tifosi di criteri ahimé solo pseudo-scientifici quali l'IF. Devo dire che, pur tra molti dubbi, sono tuttora convinto di aver fatto bene.  

 

 

 

La settimana scorsa ho partecipato a un convegno/gruppo di studio/scampagnata a Washington/spot pubblicitario sugli/cogli accademici italiani in America del nord. Ci è stato chiesto di discutere/presentare la propria disciplina (l'economia nel mio caso) per come è condotta qui nelle colonie d'oltreoceano e soprattutto di identificare se possibile un "approccio italiano" alla ricerca nella propria disciplina.

 

C'è modo di avere un'idea più precisa di quanto si è detto al convegno? Esiste un sito?

 

No, non c'e' un sito con tutti gli interventi. Un po' di informazioni, che dovrebbero permettere di farsi un'idea della cosa, si trovano qui.

C'ero anche io al convegno ed al ritorno ci eravamo messi di buona lena a scrivere un lungo racconto/rapporto sullo stesso, corredato ovviamente di nostre osservazioni critiche.

Ma il tempo, implacabile nel suo mancarci, ha rallentato la cosa ... speriamo che l'ennesima conferenza di fine settimana avvenga in una sala con wireless ...

 

Scusa, LuigiP, ero via e non ho potuto rispondere. Ma vedo che lo ha fatto Michele

qui sopra. L'evento e' stato organizzato dal SUM, Istituto di Scienze Umane, un istituto universitario di Firenze, e dal Prof. Aldo Schiavone, in particolare. L'ambasciata ha patrocinato.

 

 

Malgrado la mia totale ignoranza in materia, la butto li': non potrebbe essere semplicemente un problema di "arretratezza" dei metodi di analisi utilizzati in italia?

 

Mi spiego meglio:

 

Lo scorso semestre ho seguito un corso di macroeconomia "avanzata" (avanzata per uno studente MBA) che mi ha consentito di avere una vaga idea dell'approccio utilizzato attualmente da voi economisti. Francamente sono rimasto stupito dalle notevoli analogie con i metodi impiegati, da piu' di 100 anni, dalla fisica e dall'ingegneria e dalla immensa distanza dall'economia classica (quella dei corsi di macroeconomia 101, tanto per intenderci).

 

Per quanto la mathematical economics sia un approccio ormai piuttosto datato (wikipedia dice 1947), l'impressione che ho avuto e' che non ci sia un continuum fra la macroeconomia classica e quella modera, ma un vero e proprio "salto". Questa tendenza, peraltro, pervade diversi ambiti del sapere: basta pensare alla distanza siderale fra i pisellini di Mendel e la moderna biologia. "Semplicemente" vi siete accorti che un sistema economico non e' altro che un sistema complesso che puo' essere analizzato con opportune equazioni differenziali e condizioni al contorno.

 

Non potrebbe essere, semplicemente, che gli economisti italiani utilizzano, in molti casi, un approccio classico e che quindi i loro lavori non sono ritenuti sufficientemente rigorosi? Dico questo semplicemente sulla base del fatto che il 90% dei miei amici che stanno frequentando un dottorato in economia in Italia non sono in grado di risolvere un integrale (neanche io...mi sono dimenticato tutto).

 

In questo caso, il problema non sarebbe strutturale, ma solo contingente: basta formare le nuove leve sulla base dei nuovi metodi di analisi e probabilmente, nel giro di qualche anno, pubblicazioni e impact factor degli economisti che lavorano in Italia aumenterebbero.

 

PS

Da ex studente di ingegneria posso dirvi che le poche volte che ho tentato di leggere e capire qualche articolo di economia, mi sono ritrovato a sorridere: molti economisti sembrano compiacersi della complessita' formale utilizzata, un po' come un giovane musicista che ama fare virtuosismi al piano forte. Sono sicuro che fra qualche anno accadra' cio' che avviene in fisica ed in ingegneria: articoli brevi (3-4 pagine) con poca, semplice matematica.

 

Buon punto, ma non spiega il tutto. Quantitativamente, direi, non spiega piu' del 10% della differenza osservabile nella qualita' media della ricerca. Cerco di spiegare perche' (con aggiunta, in appendice, di note storiche sull'adozione di metodi formali in economia.)

- I metodi matematici-statistici sono stati adottati in Italia da almeno 40 anni. Io ho appreso valanghe di economia matematica ed econometria a Ca' Foscari, nella seconda meta' degli anni 70. Certo, esistono vari gruppi e dipartimenti che rifiutano l'adozione di metodi quantitativi sulla base di una supposta "irriducibilita' " della materia economica al linguaggio formale. Ma tali gruppi, per esempio "new institutional economics", esistono anche qui negli USA: senza andare troppo lontano, Douglass North (che ha un Nobel in economia) e' uno dei leaders di tale corrente ed e' mio collega; Alberto potrebbe raccontarci di altri seguaci della medesima religione presenti ad NYU. Come in tutte le cose c'e' una distribuzione di intensita', e non direi che la distribuzione USA e quella Italia siano molto diverse.

- Si da' il fatto che, tanto per non fare nomi, uno dei virus peggiori che ha infettato l'accademia italiana negli ultimi 40 anni (e le cui ultime tracce sono ancora in giro) fosse altamente matematizzato: parlo degli sraffiani. In fatti, il loro status si fonda sul fatto che Samuelson in compagnia di un suo studente (Levhari) aveva "provato" un teorema falso (in termini astratti e semplificati la loro affermazione era incredibile perche' isomorfa alla seguente: genericamente un polinomio reale di grado N ha solo una radice reale positiva ... ) e che Pasinetti e Garegnani, fra gli altri, avevano mostrato per mezzo di controesempi che falso appunto era. Aver pizzicato il semi-dio (si fa per dire) Samuelson in fallo su una questione completamente secondaria, convinse costoro che l'intero sistema "neoclassico" (uso la parola fra virgolette perche' non ho mai capito cosa questa etichetta significhi) era incoerente ed andava tirato alle ortiche. Da buoni religiosi, avendo occupato l'accademia italiana almeno nelle aree teoriche, fecero tutto il possibile per tenere chiunque non fosse sraffiano fuori dai dipartimenti di economia italiani, e per almeno tre decenni ci riuscirono. Si potrebbero raccontare tante storie scandalose, ma tralasciamo. Il problema non era l'uso della matematica, era la loro religione e la difesa baronale della stessa. Di conseguenza una valanga di sraffiani incompetenti (nel senso letterale: che sapevano poco di economia e matematica ed erano anche poco intelligenti) occuparono le cattedre di economia politica del paese. Il cambio inizio' solo verso la fine degli anni 80, quando con il ritorno di alcuni esiliati e la crescita dei pochi posti non dominati dagli sraffiani, anche in Italia comincio' a crearsi lentamente una comunita' scientifica che prova a fare teoria economica senza avere una religione guida ed un paio di guru che la amministrano.

- Lo sraffianismo influenzo' molto poco la ricerca applicata. Poiche' per molti anni in Italia non si fece altra teoria economica che la sraffiana (e gli applicati delle prediche sraffiane sul crollo imminente del capitalismo dovuto al "ritorno dee teniche" non sapevano che farsene) e' vero che in Italia si e' sviluppata una ricerca applicata che, piu' che in altri paesi, e' molto distaccata dalla modellistica e dalla teoria. Pero', di nuovo, dubito che questa sia la ragione per la differenza di qualita' che i dati citati da Alberto rivelano. Pur avendo una forma di allergia molto forte verso la modellistica, e pur facendo lavori che ad avviso sia mio che del mercato mondiale sono in media di qualita' non alta, il mondo degli economisti applicati italiani e' pieno di gente che fa ed usa econometria molto sofisticata. Il problema quindi non e' certo mancanza di sofisticazione tecnica: al giorno d'oggi, anche uno studente del liceo puo' comprarsi Stata e fare le regressioni e calcolare i likelihood ratios piu' complicati, basta schiacciare un po' di bottoni ... altra cosa e' capire cosa i numeri che il computer sputa fuori significano.

- Insomma, il fatto che quelli all'estero usano formule e gli italiani no credo spieghi al piu' 1/10 della differenza di qualita' che i dati rivelano. La ragione fondamentale e' sempre la stessa: in Italia non si premia il merito, non vi e' concorrenza, non si licenziano quelli che scrivono poco o scrivono boiate. Quindi i migliori (fatte salve le solite eccezioni) rimangono all'estero dove ricevono maggiori compensi e soddisfazioni. Poiche' qualcuno deve pur riempire i dipartimenti italiani, lo fa chi rimane ... e chi rimane e' (sempre con le dovute eccezioni) l'insieme complemento a quello dei migliori.

 


 

L'uso della matematica nella ricerca economica risale almeno a Marx (che usava semplice algebra) o a Cournot (che usava semplice calcolo differenziale) e si sviluppa lentamente dalla meta' del secolo XIX in avanti. Non mi sembra ragionevole fissare nessun particolare punto di discontinuita', neanche in termini di decenni. Da dove la data 1947 arrivi, non saprei (Cowles? Le Foundations di Samuelson?) e non mi pare rilevante. Von Neumann i suoi teoremi, utili ancor oggi, li provava negli anni 30; l'adozione di metodi statistici sofisticati (legato ai nomi di Frisch, Slutzsky, Wold (e von Neumann di nuovo)) avviene fra le due guerre ... Quello che, forse, fa pensare a molti che vi sia una discontinuita' e' che nell'accademia USA i metodi quantitativi vengono importati dalla diaspora di economisti europei che si rifugia in quel paese a causa di Hitler, ed i cui lavori esplodono dopo la guerra. Ma, ripeto, la relazione fra argomenti economici e metodi matematici, e' molto piu' vecchia.

Sulle relazioni con la fisica si e' scritto molto, fin troppo ed a mio avviso si e' scritto molto a sproposito. Di nuovo, l'idea che tutto cio' che gli economisti fanno e' meccanica classica rivestita si deve a due molto visibili soggetti: Walras e Samuelson, i quali impostano i loro lavori in esplicita analogia. Ma e' una loro personale visione, che senz'altro influenza molti e si applica a certi strumenti (massimizzare una funzione concava e minimizzare una convessa e' senz'altro la stessa cosa) ma non a molti altri.

Per esempio: i teoremi di separazione per spazi convessi, il teorema di Hahn-Banach o i molti teoremi di punto fisso poco uso hanno in fisica; i sistemi dinamici non lineari che si usano per studiare problemi dinamici in economia vengono dalla fisica, dalla biologia, dalla metereologia ed anche dalla matematica pura e dura; teoria dei giochi usa strumenti del tutto propri e che con la fisica e l'ingegneria nulla hanno a che vedere, eccetera. Lo stesso vale, forse ancor piu', per chi fa lavoro empirico: l'intera statistica per studiare dati di panels e', praticamente, un prodotto autonomo degli economisti/econometrici, che se la sono inventata da soli. 

Lunghezza dei papers: vero. Ma la causa sembra sociologica: verbosita' ed una certa tendenza "filosofare" per il gusto di farlo.

Riassumendo: gli economisti studiano problemi economico-sociali. Quando hanno bisogno di uno strumento quantitativo se lo cercano dov'e', se c'e', oppure se lo inventano. Il feticismo matematico che, senza dubbio, aveva fatto presa negli anni 60-80 in alcuni gruppi di teorici si e' andato dissipando ed il tipico atteggiamento, da molto tempo, e' che se l'essenza di un modello non e' spiegabile con un semplice esempio, un paio di grafici o anche solo una "storia", allora c'e' un problema. La domanda che senti fare piu' frequente in un seminario di teoria e', da decenni, la seguente: "what's the intuition?" La seconda e': "can you point to a real world example, or some data you are trying to explain?" Niente di misterioso, dunque.