Prima gli italiani - Del mio razzismo.

/ Articolo / Prima gli italiani - Del mio razzismo.
  • Condividi

Sulla questione immigrazione e xenofobia ho pensato molto e scritto pochissimo. Ho polemizzato altrove con chi propone azioni politiche xenofobe ma anche con chi invoca l'accoglienza indiscriminata. Più con i primi che con i secondi perché son sia più pericolosi che numerosi, in questi anni. Ma sulla questione di fondo la mia posizione rimane salomonica, o cinica se volete. Provo a spiegarmi. Vi avviso, questo è lungo.

Mesi orsono Aldo Rustichini e Giulio Zanella pubblicarono qui su nFA tre interessanti articoli sul tema immigrazione. Ero stato tentato di dire la mia ma non me la son sentita. La questione mi tormenta personalmente da tempo ed oggi provo a fare un po' di outing, sperando di riuscire a farmi comprendere, cosa non ovvia viste le contraddizioni anche personali che il tema forza a rivelare. 

Tema: come comportarsi a fronte dell'immigrazione di persone che appartengono a ETNIE diverse da quella residente nell'area dove l'immigrazione avviene.

Userò il concetto di etnia e non quello di razza perché, alla luce della ricerca più recente in ambito genetico, qui un riassunto della sostanza. il concetto di razza, se usato per differenziare due esseri umani, risulta oggettivamente indefinibile ed inutile ai fini che qui mi interessano. Il dibattito scientifico sulla possibilità di definire o meno le "razze umane" in modo univoco non mi sembra risolto: forse potremo definirle e forse no (credo di no). Al momento, non c'è alcuna definizione ragionevole di "razza" che si possa applicare per dire che io ed il mio collega George apparteniamo a due "razze" diverse, mentre è piuttosto chiaro che apparteniamo a due etnie diverse. 

Chiarita la scelta del termine, provo a definire alcuni punti fermi. 

1) I flussi migratori da un territorio all'altro sono sempre esistiti e sono una caratteristica naturale degli umani, un po' come la cacca per essere chiari. Non a caso, partendo dall'Africa homo sapiens ha colonizzato l'intero pianeta in un periodo di tempo relativamente breve. Gli esseri umani si muovono. Se questo sia un loro "diritto naturale" o meno non lo voglio nemmeno discutere perché non conosco un significato coerente attribuibile alle due parole appena virgolettate. Prendo nota del fatto indiscutibile: gli umani si muovono, ognuno per le proprie ragioni, personali o collettive. Io stesso sono un nomade che abita il pianeta Terra per vivere la sua vita.

2) Gli esseri umani hanno un innato senso di proprietà per il territorio che essi abitano. Lo percepiscono come loro e ritengono di avere il diritto di escludere altri umani dall'usarlo. Se altri cercano di usare le risorse di quel territorio (nei tempi andati tali "risorse" includevano le donne, ma transeat ...) essi vengono percepiti come "nemici" e si cerca di respingerli. Di nuovo, non mi interessa discutere se questo sia un "diritto naturale" (tema sul quale si son scritte stronzate infinitamente ilari, guarda caso amate sia dai nazionalisti che dai socialisti che uniti fanno il nazional-socialismo ora di moda) o meno. Noto che così è ed è sempre stato da quando homo sapiens s'aggira per il pianeta. La ricerca in campo antropologico (specialmente quella nota come evolutionary psychology) sostiene che questi istinti o tratti psicologici degli umani siano delle adaptation evolutive alla situazione ambientale in cui si sono evoluti: se hai il minimo per sopravvivere, e quel minimo viene dalla terra che abiti, l'arrivo di altri umani che intendono sfruttare i prodotti di quella terra mette in pericolo la tua sopravvivenza. Quindi li combatti per sopravvivere ed elabori norme, metodi e giustificazioni "morali" per farlo. Sembra ragionevole ed intellettualmente m'interessa alquanto. Ma, ai fini odierni, è comunque irrilevante discutere se queste siano o meno le ragioni del nostro senso di proprietà verso la terra che abitiamo. Conta il fatto che così è.

3) I fatti 1) e 2) sono sia incontestabili che in conflitto l'uno con l'altro. La contraddizione è quindi immanente: da un lato è un fatto (diritto naturale?) che gli umani migrano per il pianeta perseguendo i propri fini e, dall'altro, è un fatto (diritto naturale?) che gli umani considerano nemici coloro i quali cercano di migrare nel territorio da loro già abitato. Il conflitto è, appunto, immanente: lo è sempre stato e sempre lo sarà.

4) Il problema politico (= decisione collettiva) non consiste tanto nell'eliminare il conflitto o nel far finta che non vi sia, ma nel gestirlo. Gestire il conflitto immanente richiede scegliere un punto intermedio fra "gli umani migrano da un territorio all'altro" e "gli umani possiedono il territorio che abitano". Questa banale implicazione logica di due fatti incontestabili toglie di mezzo sia le troiate "schmittiane" (l'Italia è degli "italiani" perché essi la abitano da N anni) sia quelle "liberal-libertarie" (l'Italia è di "chiunque" la voglia abitare). Se il conflitto è inevitabile la politica deve occuparsi di minimizzarne i danni, ovvero massimizzarne i rendimenti. Questo non toglie che, per raccogliere consenso, alcuni usino o ben l'uno o ben l'altro corno del dilemma a seconda di quale sia, nel momento dato, l'istinto umano (proprietà vs migrazione) dominante. Si può fare ma, come i fatti dimostrano, il conflitto rimane. 

5) Il conflitto è immanente anche a livello personale, non solo collettivo. Ognuno di noi percepisce (pensa, sente, ritiene, fate vobis) che il territorio dove vive gli appartiene più che a coloro che vengono da fuori di esso. Ovviamente questa sensazione o idea non è {0,1} e la sua intensità dipende sia da quanto tempo uno ha passato in un dato territorio, che dalla sua area, che dal tipo di "foresti" che incontra, eccetera. Ma la percezione, istintiva, esiste. Al tempo stesso ognuno di noi percepisce come ovvio potersi spostare, di tanti kilometri o di pochi, dal luogo dove ora vive per andare a vivere da un'altra parte. Anche in questo caso vi sono gradazioni d'intesità e più lontano uno pensa di spingersi meno ovvio gli sembra di poterci andare a vivere di punto in bianco. Ma anche a livello individuale entrambi i "pensieri" sorgono spontaneamente e vengono razionalizzati come "diritti". Io penso di avere un qualche diritto di proprietà verso il territorio dove sto vivendo ed al contempo penso di avere il "diritto" di spostarmi e di scegliere d'andare a vivere altrove. Siamo tutti nomadi legati alla terra dove oggi viviamo.

Un detour sulle questioni politiche correnti

Parentesi (che si può omettere) sulla questione italiana (europea e dell'intero mondo occidentale infatti). I termini economici della questione sono stati ben illustrati negli articoli di Aldo e Giulio citati in apertura, non li ripeto. Aggiungo solo due collezioni di dati, le cui implicazioni economiche mi sembrano ovvie.

Il primo lo trovate in questa tabella. Confrontate (anno per anno) i nati degli ultimi dieci con la popolazione d'età compresa fra i 52 ed i 62 (l'età, quest'ultima, a cui i rossobruni ritengono sia buona idea andare in pensione per i 25-30 anni seguenti). Il numero medio di nascite è di circa 500mila con trend decrescente (l'ultimo è 456mila). La media di persone nei dieci ultimi anni di età lavorativa è di 850mila circa. La differenza è pari a circa 350mila: ogni anno in Italia le forze di lavoro potenziali diminuiscono di 350mila persone! Se volete essere più prudenti confrontate i gruppi d'età 16-20 e 58-62: la differenza è "solo" di -210mila! Quest'ultimo deficit si sta realizzando oggi, non fra qualche anno! Il secondo insieme di dati è in questa pagina: date un'occhiata ai processi demografici in corso in Africa e nel Medio Oriente. L'argomento economico segue da solo. Passo quindi alle questioni politiche e culturali, che sono quelle che mi hanno spinto a scrivere il post.

Siccome è ovvio che, sul piano economico, l'Italia e l'Europa beneficiano dall'arrivo di un numero sostanziale di immigrati e siccome è altrettanto ovvio che nessuno teorizza - nemmeno Giulio, anche se una volta Sandro in un momento lirico argomentò che forse la politica migliore era aprire totalmente le frontiere - non si debba gestire il flusso cercando di attrarre quelli che meglio si adattano alla situazione socio-economica del paese, la discussione di politica economica dovrebbe iniziare qui. Ovvero su come gestire flussi, sostanziali, di immigrazione e NON su come bloccarli o su come espellere chi è già arrivato.

Troppo facille? In Italia una vera politica dell'immigrazione non è mai stata fatta, i filtri non si sono mai introdotti, i processi d'inserimento non esistono ed una politica attiva per attirare persone che possano rapidamente integrarsi non si fa. Questo fatto, verissimo, NON dipende dall'essere o meno a favore dell'immigrazione in via di principio ma, bensì, da due specificità italiane.

Con "specificità" non intendo sostenere che l'Italia sia l'unico paese dove questi problemi si presentano, ma che in Italia essi sono particolarmente più gravi che in ogni altro paese limitrofo o simile a noi. Mi riferisco a, nell'ordine, un apparato dello stato ridicolo ed incapace di svolgere la sua funzione ed una cultura xenofoba, o razzista che dir si voglia, diffusa e profonda come in nessun altro paese occidentale avanzato. 

Le politiche attive dell'immigrazione non risolvono tutti i problemi ma, se devo giudicare dai risultati relativi, funzionano ovunque molto meglio che in Italia. Immagino che questa affermazione verrà immediatamente contestata puntando il dito alle tensioni che, specialmente negli anni recenti, sono emerse in altri paesi europei e al supposto "fallimento dell'integrazione e della società multiculturale". Sono stronzate: che una politica d'inserimento funzioni lo si giudica guardando ai costi sopportati ed ai benefici ricevuti non dall'assenza di problemi e dalla presenza di tensioni. Queste ultime sono, appunto, i costi perché quelli economici sono minuscoli. I benefici vengono dal fatto che milioni di immigrati si sono integrati nel mondo del lavoro e nelle società europee. I non integrati sono minoranze dell'ordine del 5% o meno. Problema serio, anche pericoloso quando funziona da albergo per fenomeni terroristici ma contrallabile e controllato. Questo è successo persino in Italia: gli immigranti sono oggi circa il 10% della popolazione e contribuiscono enormemente alla vita del paese. Nonostante i costi siano stati qui maggiori, i benefici continuano ad essere incommensurabili (sì, Tito Boeri ha ragione mentre invece questo mediocre boiardo di stato mente). Se le cose si son fatte peggio che altrove il problema è tutto dei nostri governi e della nostra pubblica amministrazione, ossia dei Polillo e di coloro che hanno servito. La gestione dell'immigrazione in Italia funziona peggio che altrove per le stesse ragioni che treni, scuole, sistema giudiziario, eccetera, funzionano peggio che altrove. La prima specificità sta nel settore pubblico italiano, nello stato italiano e nella politica italiana, non negli immigranti che non sono diversi in Italia da quel che sono in altri paesi. 

Torniamo al punto cruciale, ovvero il mio razzismo.

Veniamo ora alla seconda specificità, che è quella che m'interessa davvero: noi italiani siamo pubblicamente e politicamente molto più razzisti/xenofobi del resto degli europei. L'evidenza empirica oramai è schiacchiante (esempi: qui, qui e qui).  Lo siamo da lungo tempo, il razzismo e la xenofobia degli italiani - che negli ultimi anni sono riusciti a manifestare invidia ed ostilità verso tedeschi, austriaci, francesi, inglesi e financo spagnoli - è cosa vecchia e generalizzata. Le sue origini storiche e culturali le discuto altrove (nella sequenza sul regime rosso-brunato), qui voglio entrare nel personale. 

E qui vengo alla confessione personale: io sono privatamente razzista ma non lo sono pubblicamente.

Lo sono per la ragione discussa anteriormente nella voce 2) e per ragioni "culturali" o "psicologiche" che si possono riassumere in alcune sensazioni, reazioni ed atteggiamenti che non credo essere solo miei ma che so essere miei. Mentre ho centinaia di amici e conoscenti di etnie e culture diverse dall'italiana devo ammettere che i miei veri amici non italiani si contano sulle dita di poche mani. Faccio fatica ad accettare usi e costumi privati di altri, anche se nei 35 anni trascorsi fuori d'Italia ne ho sperimentati ed apprezzati molti e da loro ho appreso. Tendo ad avere un (razionalmente immotivato ma istintivo) senso di alterità e superiorità verso persone con tratti somatici, odori e regole d'interazione diverse da quelle a cui mi son abituato crescendo in Italia. Soprattutto faccio un'obiettiva difficoltà a pensare di vivere in un ambiente culturalmente non "europeo-mediterraneo" e, persino dopo 35 anni di USA, vi sono molti aspetti del loro modo di vivere e comportarsi che tendo a trovare irritanti o incomprensibili. Insomma, credo di essere istintivamente e privatamente un razzista, anche se in una versione "leggera". E credo di essere in compagnia della grande maggioranza non solo in Italia ma ovunque nel mondo. Per le ragioni dette sopra. 

Al contempo credo, anzi son certo, di non esserlo pubblicamente. Evito di "lodarmi", che sarebbe ridicolo, ma sottolineo il fatto che mi è costato fatica (almeno all'inizio, ora è più facile perché la cosa è diventata sia ovvia che abituale) agire pubblicamente in modo non razzista o anche anti-razzista. La parola chiave qui è "pubblicamente", ovvero nei miei comportamenti e discorsi pubblici, nelle mie scelte politiche e nelle decisioni collettive. La ragione, alla fine, è molto semplice: sono incapace - con qualsiasi criterio, razionale o istintivo che sia - di tracciare una linea fra quelli verso cui riterrei "legittimo" discriminare e quelli che no. E siccome questa linea non la so tracciare in modo coerente, allora non la traccio proprio. La slogan "restiamo umani" si fonda su questa banalità.

Certo, potrei invocare i diritti umani e le grandi elaborazioni filosofiche che li fondano. Mi accontento di osservare che - qualsiasi sia lo stato in cui io decida di vivere - vi sarà sempre una percentuale sostanziale di persone insopportabili, puzzolenti, ignoranti, stupide (in senso stretto, ovvero con QI basso), violente e financo con istinti criminali. Questo NON implica che li debba andare a cercare e nemmeno implica che queste percentuali siano uguali ovunque: sono ovviamente più alte in certi ambienti o paesi e più basse in altri. Questo il succo, messo molto brutalmente riassunto, dell'argomento di Aldo, di cui condivido la preoccupazione ed anche l'onestà intellettuale nel provare a discutere ciò che l'osservazione empirica da decenni ci dice e quasi tutti tacciono. Ma una percentuale sostanziale di persone con queste caratteristiche la trovo anche fra gli italiani e gli statunitensi, ovvero fra i cittadini dei paesi di cui ho in tasca il passaporto. Quindi, che faccio? Discrimino costoro? Li deporto? Agisco politicamente per censirli, rinchiuderli, controllarli, discriminarli, esperllerli?

Prendiamo la variabile QI di cui oggi in Italia molto si discute (potremmo fare lo stesso con misure d'ignoranza/alfabetizzazione o altro). Tutta l'evidenza a disposizione dice che in ogni paese la frequenza di persone con on QI inferiore alla media sia di circa il 50%. In alcuni paesi la media si aggira attorno a 106-108 (l'Italia è uno di questi), nella grande maggioranza attorno a 100 ed in parecchi altri raggiunge valori attorno a 80-90. Son valori relativamente bassi e siccome in quel 50% sotto la media molti scendono a 90, 80 o 70, non è difficile cogliere il problema. Che facciamo? Togliamo i diritti civili a quelli sotto la media? A quelli mezza standard deviation sotto la media? Una intera? Due? Dove tracciamo la linea fra l'umano ed il non umano? 

Guardate che la questione è tutta lì e NON è risolvibile in modo istintivo ma solo facendo sì che quella parte del nostro cervello che chiamiamo "razionale" si imponga sul resto. In un conflitto personale continuo, quotidiano. La qual cosa la rende difficile da accettare e personalmente contraddittoria per le ragioni elencate in apertura: perché si fonda su un conflitto immanente fra i nostri istinti - tribali e migranti al contempo - e la nostra comprensione razionale dell'impossibilità di tracciare una linea netta che separi, fra gli umani, gli "aventi diritti" dai "non aventi diritti". Un conflitto che non risolveremo mai in modo definitivo e che accompagnerà ogni società umana per sempre, o per lo meno sino a quando un mitico "stato ergodico globale" non venga raggiunto. 

La politica dell'immigrazione da qui deve partire e su questo si fonda: sull'accettazione del conflitto continuo e sulla necessità di gestirlo quotidianamente in quanto conflitto. L'armonia fra le "razze" non si dà naturalmente, il meglio che si può fare è costruire artificialmente la tolleranza.

Ah, dimenticavo, se c'è un messaggio che differenzia il Cristianesimo dal resto delle religioni che conosco sta tutto qui: siamo tutti umani, anima o meno.

Indietro

Commenti

Ci sono 50 commenti

Mi piace molto l'approccio. Sono di corsa, ma ho il seguente dubbio:
non è che quello che definisci "senso di proprietà" sul territorio, sia semplicemente quella cosa che chiamiamo "razzismo"? E che questa sia quella cosa che hanno sviluppato le tribù di parenti cacciatori-raccoglitori che gironzolavano per le savane nei 2-4 milioni di anni che hanno preceduto l'agricoltura e quindi la sedentarietà?
La cosa mi sembra rilevante per quanto riguarda la questione "frontiere aperte": chiuderle può servire solo a evitare eccessi di immigrazione. Se però fossimo tutti, e non solo noi italiani, istintivamente legati al nostro vicinato, con la sua cucina, clima, odori, paesaggi, suoni e idiomi?
E se anche quel miliardo di africani considerasse odioso andare a vivere fra quei mangiaspaghetti, tanto quanto noi consideriamo odioso vivere fra mangiacrauti coi calzini nei sandali o mangiarane con la erre moscia?

Apprezzabile la sincerità e condivisibile l’argomentazione. E comunque è sempre aria fresca che entra nella stanza sentire un economista ferrato non liquidare  la faccenda osservando che la libera immigrazione non è altro che il libero scambio applicato al lavoro.

 

Unico solo timido smarcamento: utilizzerei senza timore il termine “razza”. Dopo la mappatura del genoma umano  la classificazione della nostra specie (per quanto sempre minata da inevitabili sfumature) risulta comunque più chiara quantificando le variazioni negli alleli che le variazioni culturali.

No, ho spiegato perche'.

"E comunque è sempre aria fresca che entra nella stanza sentire un economista ferrato non liquidare la faccenda osservando che la libera immigrazione non è altro che il libero scambio applicato al lavoro"

 

E invece, e proprio cosi'. La ''libera'' immigrazione e il ''libero'' scambio del lavoro. Ha effetti positivi che di solito vengono evidenziati quando si parla di altre ''liberta''' economiche, il fatto che milioni e milioni di individui hanno maggiori possibilita di realizzare un futuro migliore per loro e le loro famiglie.

E ha ovviamente effetti negativi, per chi e' affetto dalle conseguenze di queste liberta e non le usa. Da ad alcuni gruppi maggior potere su altri, ha externalities etc. etc.

Al pari della ''liberta di licenziare'', deregolazioni, privatizzazioni e qualsiasi altra liberta' socio-economica.

Bisogna porre un limite a queste libera': Forse si e forse no, e una questione complicata che tocca diverse caratteristiche umane che sono appunto in contraddizione. Caratteristiche che spesso rendono definire una cosa come ''diritto inviolabile'' o ''liberta'' molto sottili.

 

Ma non prendiamoci in giro: Guarda le espressioni gioiose dei Tedeschi dell'est che scavalcavono i confini 29 anni fa. Confronta con le

espressioni gioiose degli Africani che forzano i muri a Melilla. Sono identiche, perche, a parte il fatto che i cittadini della DDR stavano molto meglio della maggior parte degli Africani che entra a Melilla, l'azione e la motivazione sono identiche. Esseri umani che usano un diritto naturale per chiedere un futuro migliore. Gli Europei che chiedono confini chiusisono moralmente equivalenti ai funzionari comunisti che mettevano muri. Entrambi pensavano, entrambi con delle ragioni, che la liberta di movimento non e' importante quanto il benessere sociale come lo vedevano loro. E ''impedire di immigrare non e la stessa cosa di impedire di emigrare'' e una foglia di fico. Su una sfera, interno ed esterno non esistono, e se si guarda in dettaglio quello che Minniti in poi vogliono dalle autorita' Libiche e Turche, e indubbio che li ci si aspetta che i governi locali mettano su muri di Berlino e sparino ai propri cittadini che intendano attraversarli. E la stessa cosa che fece Honecker.

 

La distinzione fra Bianchi Tedeschi dell'Est sul muro di Berlino e Negri sul muro di Melilla non e' economica ne' indivudualmente classificabile. E' etnico-razziale-culturale. I primi sono piu come noi e quindi devono avere delle liberta che i secondi non hanno perche se tutti fossero liberi la nostra societa non funzionerebbe. Michele ha scritto un'ottimo articolo spiegando quest'ultima parte, e spero che tutte le ''liberta' economiche'' siano sottoposti a ragionamenti di questo tipo, dove tutte i potenziali conflitti sociali siano esaminati in una maniera piu ampia dell'individualismo metodologico.

Solo che, come dapertutto, valgono conseguenze a lungo termine. Un mercato delle merci ''aperto'' unito a limitazioni alla liberta di movimento e altri incentivi su base razziale era piu o meno quello che aveva il Sud Africa durante l'Apartheid. L'economia globale sara' una specie di Apartheid globale giustificato dall'innato senso di proprieta''? O una modificazione eugenica dello stesso? Bene discuterne sinceramente, effettivamente.

 

PS: Il concetto di razza e' scientifico piu o meno quanto quello del segno Zodiacale, e la mappatura del genoma umano, appunto, lo mostra.

Concordo totalmente sull'analisi. Credo che la soluzione migliore sarebbe: A) Respingere tutti i clandestini o riportarli alla casella di partenza B) Abolire la Bossi-Fini e consentire a chiunque di entrare purché abbia un tutor (azienda,privato o ente) che faccia da garante all'ingresso e si faccia carico di residenza, sussistenza ecc. C) Permesso di soggiorno stabile, con la possibilità negli anni al diritto di cittadinanza a chi raggiunge una propria autonomia economica. Mi pare il metodo migliore per gestire il problema.

 

1. Anche a me sembra plausibile che la territorialità abbia una base istintiva, come per altre specie. Però, razzismo, xenofobia, intolleranza per la stupidità, ecc., sono cose diverse dalla territorialità (che può manifestarsi in forme violente anche fra vicini senza nessuna differenza etnica o culturale), e non so quanto fondamento trovino nella territorialità.  L'intolleranza per la stupidità, direi nessuno; forse, insieme con razzismo e xenofobia, trova invece un fondamento nella propensione umana alla pseudo-speciazione (che potrebbe pure avere una base istintiva, distinta dalla territorialità): a me, riguardo ai novax o ai credenti nell'omeopatia o in altre evidenti assurdità, viene istintivo pensare che appartengano a una specie un po' diversa dalla mia, pur sapendo che questo è razionalmente insostenibile.

2. Il punto di equilibrio fra territorialità e nomadismo mi sembra che si sia molto spostato a favore del nomadismo a seguito di una serie di progressi tecnici e sociali, in particolare la riduzione dei costi degli spostamenti (in tempo e denaro) e la crescita dell'urbanesimo (le mura cittadine non ci sono più e nessun milanese si sognerebbe di osteggiare l'arrivo a Milano di un torinese o di un londinese, e neanche di un palermitano solo perché di Palermo). Alle mura cittadine si sono sostituiti i confini nazionali, prossimamente europei, e in un futuro realisticamente non tanto lontano, nessun confine. Senza con ciò azzerare la propensione alla territorialità, che continuerà a manifestarsi in tante forme, anche a prescindere dall'esistenza di confini statali.

Come ho anche scritto sotto, mi pare logico, sul piano della normale evoluzione darwiniana, che un predatore come l'uomo sia fortemente territoriale. Lo sono i primati e tanti nostri cugini, vicini e lontani. Non si conoscono invece atteggiamenti razzisti o xenofobi nel mondo animale. 
Bisognerebbe capire quando questi fenomeni sono apparsi nella storia dell'uomo. 

Sul discosrso territorialità/nomadismo non comprendo come l'equilibrio si sia spostato verso il secondo. È un refuso? Di popoli nomadi (per scelta culturale) ormai non ce ne sono quasi più. Naturalmente non definirei nomadismo il fatto che in caso di guerre e crisi ci siano popolazioni in movimento. Se puoi chiarire, ringrazio. 

Bè! 15.000 caratteri per descrivere la "tua" insofferenza ...

Perchè di quello si tratta, alfine, caro Boldrin.

Poi c'è chi può evitarne le cause - come te - altri che 'devono' subirle; a volte anche epidermicamente.

E - guarda caso il soccombente - tipicamente è allocato in quel segmento di QI che stà sotto il 100.

Annessi e connessi.

Quindi, non avendone neanche il tempo, non 'spende' 15.000 caratteri per spiegare la "sua" di insofferenza, ma ... corre dietro a chi 'sintetizzando' crede possa alleviargli cotal orticaria.

Ed oggi è 'il capitano'; domani forse un'altro, non ci è dato di sapere.

E' forse diverso da quei 15.000 caratteri tuoi ?

Che che la ns specie - vs le altre - sia debole e fallace non è certo una novità.

Ciò non di meno anche "l'insofferenza" è uno degli additivi che ci ha fatto prevalere sulle altre.

Così non fosse oggi, comanderebbero cani, gatti, pesci o chi più possa piacerti di un'altra razza.

 

Ciò non di meno anche "l'insofferenza" è uno degli additivi che ci ha fatto prevalere sulle altre. Così non fosse oggi, comanderebbero cani, gatti, pesci o chi più possa piacerti di un'altra razza.

 

roba da cadere dalla sedia. tutta la storia umana è il tentativo di uscire da pulsioni animali deleterie per la specie, per mezzo di tabù culturali. "l'insofferenza" ad esempio non permetterebbe certo l'esogamia, cioè il tassativo e generalizzato obbligo culturale ad accoppiarsi fuori dal proprio ristretto gruppetto di scimmie, che è stato uno dei fattori di progresso più potenti. idem per la limitazione dell'aggressività, per i comportamenti oblativi, per il prolungamento dell'accudimento genitoriale o neotenia etc.

ma da dove vieni, di che razza sei?

In calce ai miei articoli non accetto contributi anonimi, se negativi o similia.

Volete provare a mettere in discussione quel che affermo? Bene, siccome io ci ho messo la faccia nell'affermarlo ce la mettete anche voi nel negarlo. A quel punto vediamo cosa dicono fatti e logica. 

In particolare: se scrivete stronzate da troglodita come quelle qui sopra aspettatevi sia di ricevere insulti come unica risposta sia, una volta certi che gli insulti sono arrivati a destinazione, di trovare il conto bloccato. Ad libitum. 

Ci sono tanti anonimi con cui non applico questa regola? Solo e soltanto quando contribuiscono fatti verificabili ed argomenti condivisibili. In quel caso è un problema loro se non vogliono ricevere credito per i loro contributi utili a capire il mondo. 

Il contributo negativo, se vuole essere preso in considerazione, deve venire da un autore che si sia reso perfettamente identificabile. No discuto le critiche degli anonimi, mai.

Se proprio avete bisogno di scrivere stronzate anonimamente, c'è sempre il sacro blog.

Una sola cosa sul concetto di "territorio". Quel che difendono gli uomini difendendo il loro territorio è essenzialmente la loro “cultura”. Non è forse la cultura il segreto del nostro successo? Non è forse grazie alla cultura che dominiamo il mondo? Se fosse per l’intelligenza le scimmie non sarebbero poi tanto staccate, è che tocca loro reimparare tutto daccapo ogni volta!

 

E’ proprio perché siamo così abili nel trasmettere una cultura che abbiamo dei “cuccioli” così rispettosi verso il personaggio “autorevole” (di solito il genitore) e così pronti a “bullizzare” il diverso, specie se debole. Il nostro "razzismo naturale" è ben visibile nei bimbi di fronte al tipo "originale" che non si conforma.

 

Riflessioni interessanti e coraggiose, nel clima attuale. E' paradossale la frase in cui l'autore dice: "io sono privatamente razzista ma non lo sono pubblicamente" visto che è detta in forum pubblico... Al di là del paradosso però il contenuto è importante. Essere razzista in pubblico è estremamente pericoloso in quanto fomenta e legittima l'odio in chi non sa razionalmente reprimerlo. Soprattutto quando l'espressione del razzismo arriva "dall'alto". Alcuni dati tratti dalla European Social Survey (http://www.europeansocialsurvey.org/) me ne danno qualche indizio di conferma (le elaborazioni sono un po' laboriose da riprodurre, ma è tutto fattibile online). Dal 2002 al 2016-17 i paesi nei quali la % di persone che nutrono sentimenti anti-immigrazione è cresciuta vistosamente (10+ punti percentuali) sono Italia, Ungheria, Austria e Rep. Ceca. Non vi dice nulla questo accostamento?

Niente di simile invece in Germania, Francia, Olanda, Spagna o Inghilterra.

 

Il dialogo fra Zanella e Rustichini (e il seguente di Bisignano) fu molto bello e istruttivo. Io ho trovato più ragioni in Rustichini. Ho trovato molto utile anche il saggio breve di Giuseppe Sciortino, Rebus immigrazione, che si può sintetizzare nel passaggio che si trova al suo interno: "gestire la tensione tra il diritto di migrare e il diritto di uno Stato di decidere chi far entrare".

Circa la scelta del termine etnia. Si può aggiungere che anche fosse sensato parlare di razze, non cambierebbe la questione, perché appunto siamo umani.

Circa il diritto naturale. L'unico diritto naturale è la forza. Ma il diritto come concetto non può mai essere naturale. Mentre sono naturali e animali il sentimento morale. Noi sentiamo come giusto tanto l'idea di poterci muovere altrove quanto il non voler avere presenze intorno. D'altronde anche verso noi stessi abbiamo sentimenti contrastanti e conflitti interiori.

Un altro problema che vedo e che mi ha fatto cambiare idea nel tempo è che non possiamo pretendere che gli altri siano più ben disposti di noi verso l'immigrazione. Che una persona non provi disagio con lingue diverse, fisionomie diverse.

Passo ora a cosa mi sembra problematico:

"Ovvero su come gestire flussi, sostanziali, di immigrazione e NON su come bloccarli o su come espellere chi è già arrivato."

Se anche uno fosse d'accordo sul principio di aumentare la presenza straniera, questo andrebbe fatto contemporaneamente all'espulsione di una parte di quelli che ci sono. Carota e bastone. Qui il criterio dovrebbe essere banalmente: non aggiungere crimine, se possibile. Mentre tutti si concentrano erroneamente sui tassi di criminalità. Se uno viene accoltellato da un balordo che in Italia non ci dovrebbe stare non penso che gli possiamo rispondere di stare tranquillo perché gli omicidi sono in calo.

Ma a me questo discorso mi sembra riassumibile così: cari italiani, come popolo siete finito, adesso è il turno di altra gente. Come può una forza politica rivolgersi ai propri cittadini dicendo loro che non farà nulla per aiutare i giovani italiani a lavorare e a fare figli? Gli italiani non sono diventati sterili. L'Italia è uno dei pochi in Europa, se non l'unico, nel quale il tasso di occupati autoctoni è inferiore a quello degli immigrati. Inoltre in questi ultimi anni è nei primi posti per cittadinanze concesse. Per cui non saprei se concordare con l'idea che abbiamo gestito male l'immigrazione. Forse abbiamo gestito male gli sbarchi, che rappresentano una minoranza di arrivi. Ma questo è il nocciolo del problema. Nel senso che se uno non vuole controllare l'immigrazione allora è bene che conceda i visti a chiunque, in modo che ognuno arriva e non bisogna dare vitto e alloggio a nessuno. Se invece si fanno i controlli quelli che arrivano sanno che possono fare richiesta di asilo, che implica commissioni, centri d'accoglienza eccetera. I filtri e le politiche ci sono già, ma il numero di quelli che vogliono arrivare non consente intrinsecamente la gestione auspicata.


L'articolo ovviamente è molto condivisibile, soprattutto nelle sue linee generali. L'unico leggero controsenso mi sembra di scorgerlo nel fatto che si sceglie, molto giustamente, di evitare il termine "razza", ma poi si ricade nel parlare di "razzismo" e "antirazzismo", in un modo che sembra distogliere un po' da tutto il resto dell'argomentazione. Nel nostro linguaggio comune esistono anche le parole "tolleranza" e "intolleranza": termini che in questi ultimi tempi sono forse alquanto desueti, ma che tuttora sembrano esprimere al meglio sia le dinamiche personali 'private' di cui nell'articolo si parla, sia la scelta che ci si pone di fronte quando si ha l'opportunità di interagire 'pubblicamente' (e forse anche "strategicamente", almeno nel senso che le scienze sociali danno a questa parola) con ambiti culturali o di altro tipo alquanto diversi dal nostro. Ma ovviamente non è una critica all'articolo, solo una volontà di comprendere meglio la posizione che in esso si esprime.

contano piu' i soldi di dio ; spero mi venga perdonato il fatto di non trovare nessuna fonte ... ma ricordo di aver sentito che l'inghiliterra ha leggi speciali per concedere visti ( o forse cittadinanza ) a chi possiede grandi patrimoni . Ugualmente credo sino bene accetti i ricchi arabi nella citta' di milano ( La calata degli arabi: così gli emiri mettono le mani sull'Italia ) . In sinstesi ritengo che a fare da determinante nella questione dell'intolleranza sia la ragione economica piu' di quelle etniche ereligiose e culturali

Nulla di nuovo (sotto il sole). Così come gli arabi e i musulmani nei secoli non si sono mai fatti scrupoli di accettare monete d'oro con l'effige del papa, così oggi i peggiori terroristi islamici utilizzano senza batter ciglio i biglietti verdi con la scritta 'IN GOD WE TRUST'.

Se i *ricchi* di etnia diversa si trovano a essere presenti in modo significativo nella vita economica di una nazione mi sembra che fenomeni di razzismo o intolleranza possano manifestarsi e si siano manifestati. Mi vengono in mente i "ricchi ebrei che succhiano il sangue del popolo tedesco..." (non devo spiegare a cosa mi riferisco) ma anche in realtà extraeuropee cose simili si sono verificate. Se sei ricco ti comperi un passaporto e formalmente ti piazzi dove vuoi ma quanto a essere al riparo da pregiudizi e razzismo non direi. I pogrom colpiscono anche i ricchi, a volte.

 

Maurizio

Chiedo al professor Boldrin se l'Italia non si sia già avviluppata in una spirale (reversibile? non reversibile nel breve periodo?) di selezione avversa della qualità dell'immigrazione disponibile?

Data una 'offerta disponibile' di persone disposte o obbligate a migrare, mi pare che l'Italia stia attraendo per la maggior parte la seconda tipologia. 

Può benissimo essere un bias di osservatore, ma se fosse vero, credo sia complicato riuscire a integrare nella società questa quota trasformandola in 'virtuosa'

Circa il fatto che strutturalmente sia difficile attrarre immigrazione altamente qualificata in Italia potrebbe essere un altro mio bias percettivo, ma volevo capire se è una sensazione solo mia o se esiste il rischio di una dinamica a spirale 'simil-stagflazione' in cui il razzismo (unito alle condizioni strutturali che scoraggiano un migrante non forzato a venire in Italia) spiazza la grand parte di offerta di immigrazione virtuosa e il residuale di immigrazione forzosa accelera la convergenza verso il collasso cosmico.

grazie, saluti

Corrado Calderoni

"Dove tracciamo la linea fra l'umano ed il non umano?"

Io eviterei di entrare in discussioni troppo filosofiche sull'esistenza, l'essenza, il significato, etc. Faccio un esempio molto pratico, prendo in esame un paese: la Svizzera. In tale area geografica vivono 3 popoli, con differenze ben definibili per lingua e cultura. Ora vorrei dare una definizione abbastanza ovvia ma molto semplice relativa specificatamente a quel paese: un tedesco è un tedesco e non è un italiano e nemmeno un francese. La Svizzera come tutti sanno è una confederazione. La sua costituzione, suddivide territorialmente in cantoni il proprio territorio. Ad ogni cantone corrisponde una sola ed unica identità, non esiste un cantone svizzero che si possa definire contemporaneamente sia italiano che tedesco. La costituzione della Svizzera non ammette ad esempio che i tedeschi in massa di un cantone, si spostino tutti assieme e vadano a vivere in un altro, cambiando la lingua delle insegne pubbliche, o delle vie. Una cosa del genere infatti potrebbe succedere solo dopo una guerra, come ad esempio quando gli italiani furono deportati nel 1947 a centinaia di migliaia dal territorio che era ormai della Jugoslavia. Quello che volevo dire è che la storia è piena di esempi concreti, mentre con la filosofia si può discutere all'infinito di concetti troppo sofisticati, che poi non hanno una vera importanza pratica, quando i meccanismi legati a razza, cultura, lingua, religione, vanno analizzati.

A parte il fatto che le culture linguistiche sono 4 e non 3 (dimentichi il romancio) esistono cantoni plurlinguistici dove ufficialmente le lingue cantonali sono più d'una quindi è sbagliato dire "ad ogni cantone corrisponde una sola ed unica identità". 

Dei 26 Cantoni svizzeri, quattro sono ufficialmente plurilingui: Berna (tedesco e francese), Friburgo (francese e tedesco), Vallese (francese e tedesco) e Grigioni (tedesco, romancio e italiano). Anche le città di Bienne e Friburgo sono bilingui (tedesco e francese). Nel concreto, il Ct. Grigioni è sia tedesco, sia italiano, sia romancio. 

Inoltre questo fatto che tutti gli abitanti di un cantone non possano trasferirsi (per dettato costituzionale) non esiste. Nel caso favorire l'articolo, pls.

Ma non esiste nemmeno in Italia che tutta la popolazione di Forlì si trasferisca armi e bagagli a Firenze. Proprio l'esempio non ha senso in alcun paese, costituzione o meno. 
Le singole persone hanno facoltà di trasferirsi dove vogliono, basta trovare casa (o comprandola o in affitto). Effettivamente il Ticino, per la sua posizione a Sud, è meta ambita di tanti svizzeri tedeschi benestanti in pensione. 


Dovrei guardarmi più dati ma a pelle mi sembra che il razzismo faccia proseliti soprattutto (1) in aree essenzialmente omogenee, ai margini dei fenomeni migratori, e (2) in quelle aree dove i migranti "causano" fenomeni di degrado molto forti.   Fosse vero, questo punterebbe a spiegazioni "psicologiche" e di politics diverse da quelle discusse nell'articolo: in sostanza, la causa sarebbe la paura dell'invasione (che può essere manipolata e "diffusa" da politici e mass media) più che l'invasione stessa.

(Le aree improvvisamente soggette a forti volumi migratori, ovviamente, possono sviluppare fenomeni di razzismo ma, se non si verificano (1) o (2), si tratta di "proteste" transitorie)

L'articolo mi ripropone alcuni miei interrogativi.

Gli europei hanno invaso territori non loro, anche con la forza e sterminando gli autoctoni (in America). Anche oggi sfruttano territori altrui (minerali, metalli, petrolio). Pagano un po', è vero; meno di quanto ricavano e di quanto promesso.

Come si fa a respingere? Come fanno i francesi a respingere migranti francofoni, cosa che prova il loro aver invaso altri territori e averne rubato perfino l'idioma? Il territorio mio è mio e il loro pure? Gli italiani sono espatriati in massa, una volta in cerca di fortuna e ora, al ritmo di più di centomila l'anno, per cogliere migliori occasioni di lavoro. Oggi s'è diffuso il concetto di difesa del territorio. Criteri diversi di valutazione.

Gli ebrei sono quelli messi peggio nel motivare le loro conquiste: i territori, assegnati nel 1948 al da farsi Stato palestinese, sarebbero di loro proprietà in base ad un ipotetico 'diritto naturale' di proprietà perché essi li abitavano tremila anni fa. Non li potevano comprare invece di cacciar via con le armi settecentomila persone?

Il conflitto tra il diritto di proprietà sul territorio che si occupa e il diritto di andare ad occupare un territorio occupato da altri credo che si risolva nel 'valore' unificante del proprio tornaconto esercitato secondo libertà: prevale sull'altro diritto quello che, in un determinato momento della propria vita, è il più conviene. Prima conveniva invadere, oggi conviene respingere. Il diritto di respingere per difendersi da una minaccia ingigandita si vive con intensità proporzionale al proprio egoismo.

Nota personale a margine, non rilevante, a proposito del razzismo e del QI.

Non riesco a percepire il concetto di diverse razze umane, di cui peraltro la grande maggioranza di scienziati nega l'esistenza.

Molto peggiori, per le conseguenze prodotte, i contrasti tra cristiani e musulmani e tra sunniti e sciiti dovuti a motivi religiosi. Solo tra hutu e tutsi sono rilevate differenze somatiche, ma anche in quel caso i contrasti sono stati dovuti a differenze di posizione sociale. Voglio dire che, anche volendo ammettere che la razze umane esistano, non trovo motivo per il quale ci debba essere contrasto tra razze diverse. Fu usato dagli schiavisti come attenuante all'orrore che perpetravano, ma in quel caso il 'cattivo' era la (per dire) razza dell'Europa occidentale, ritenuta superiore da menti alterate. Può capitare di provare avversione per persone di diversi usi e costumi, casomai conseguenti alla diversa etnia. Ma capita pure che l'avversione si manifesti tra coniugi della stessa etnia. Diciamo: che razza di moglie (o marito) sei?

Oggi si maschera la scelta di respingere a prescindere, con l'intento di non voler consentire ai trafficanti il loro turpe lavoro. E invece aumentano i casi di violenze a danno di neri, con la punta massima del caso di Macerata.

In quanto al QI, viene usata l'espressione 'razza di cretino'. Sì, è solo una espressione. Ma perché si usa? Forse che esistono le razze dei cretini e degli intelligenti? C'è razzismo nel provare avversione verso i cretini, o odio verso gli intelligenti? O il fatto che si usa il termine 'razza' per i cretini dimostra che quel termine non ha significato? Si può determinare la differenza tra i 'cretini' e gli 'intelligenti' col QI sul piano intellettivo come quelle dei 'neri' e dei 'bianchi' con i geni sul piano genetico. E quindi che significato ha il termine 'razza'? E' solo conseguenza del fatto che si possono creare schemi in cui inserire umani affini? Esiste pure la razza degli 'alti' e quella dei 'bassi', facilmente classificabili con un doppio metro? Per intelligenza intendo la capacità di capire, da 'intelligere' o meglio 'intus ligere', che non è dimostrata a pieno dai test. Si può migliorare la propria cultura ma non il proprio QI. Vabbè, solo i risultati, in parte per riflesso della propria cultura e in parte per come sono costruiti i test.

Si può provare repulsione nel contatto umano con persone di qualunque colore ma che dimostrano un basso QI. E' razzismo?

Differenze a livello genetico ci sono anche tra italiani e spagnoli, tra portoghesi e belgi ecc, in misura più o meno pari a quella tra europei e africani, bianchi e neri, europoidi e negroidi. Perché essere razzisti solo verso i neri? Almeno prevalentemente e al netto della paura per il diverso?

Si ha il diritto di difendere il proprio tornaconto, la proprietà, il territorio; a patto di riconoscere che anche altri popoli lo abbiano.

Come si risponde a inglesi che dicono agli italiani che sono andati lì a rubare loro il lavoro? Prima gli italiani, ma chi la manterrà la futura massa di pensionati? Che sciocchezza aspettare che comincino a lavorare gli aborigeni che nasceranno nei prossimi anni.

E comunque, che le posizioni, pare prevalenti, non servano a mascherare razzismo, che non ha senso non esistendo le razze.

E' tutto secondo me, naturalmente.

Vabbè, mi sono fatto delle domande e mi darò delle risposte. Spero di non aver scritto troppe scemenze e che non me ne colgano strali :).

L'ho scritto, ormai, e con molti dubbi ... Invio

sono la ragione del fatto che il Prof. Boldrin mi rimane simpatico nonostante le contumelie che mi ha spesso riservato. MB si è costruito un personaggio da Burioni dell'economia, ma a differenza del Burioni vero, che "blasta la gente" sì ma solo quando si parla di vaccini (guardandosi bene da imprudenti sortite fuori dal terreno sicuro) egli si avventura, pubblicamente, anche in terreni spinosi come questo, mettendosi in gioco e dando dimostrazione di onestà intellettuale. Glie ne rendo merito.
Ben sapendo che questa captatio benevolentiae (che è un sincero riconoscimento) non basterà per mettermi al riparo dagli strali, porto per ora una sola osservazione, prendendo spunto da questo passaggio:

 

 

2) Gli esseri umani hanno un innato senso di proprietà per il territorio che essi abitano. Lo percepiscono come loro e ritengono di avere il diritto di escludere altri umani dall'usarlo. Se altri cercano di usare le risorse di quel territorio (...) essi vengono percepiti come "nemici" e si cerca di respingerli. Di nuovo, non mi interessa discutere se questo sia un "diritto naturale" (..) o meno. Noto che così è ed è sempre stato da quando homo sapiens s'aggira per il pianeta.

La ricerca in campo antropologico (..) sostiene che questi istinti o tratti psicologici degli umani siano delle adaptation evolutive alla situazione ambientale in cui si sono evoluti: se hai il minimo per sopravvivere, e quel minimo viene dalla terra che abiti, l'arrivo di altri umani che intendono sfruttare i prodotti di quella terra mette in pericolo la tua sopravvivenza. Quindi li combatti per sopravvivere ed elabori norme, metodi e giustificazioni "morali" per farlo. Sembra ragionevole ed intellettualmente m'interessa alquanto.

 

Ma no, questo senso di proprietà non è innato. Gli esseri umani non hanno “sempre” percepito come loro il territorio che abitano. Dal tempo dei Neanderthal fino alla preistoria recente dei popoli cacciatori-raccoglitori, cioè per centinaia di migliaia di anni, non fu così. L’uomo che viveva cacciando o raccogliendo dei frutti che spontaneamente la terra gli offriva non aveva ragioni – o ne aveva molto poche – per sviluppare un senso del possesso per quella terra in particolare. Era nomade, e poteva desiderare la fruizione esclusiva di una porzione di terra solo quando questa fosse una risorsa particolarmente scarsa e preziosa, come un’oasi nel deserto, un’isola o l’alveo fluviale del Nilo.
Il senso del possesso (del territorio) divenne impellente agli uomini quando cominciarono a colonizzarlo, con le comunità stanziali dedite all’agricoltura e all’allevamento.
È piuttosto facile intuire le ragioni per cui quell’uomo che prima aveva lavorato, seminato e coltivato una terra poi presumesse di avere dei diritti di esclusiva (o perlomeno una priorità) sulla fruizione dei frutti che provenivano da quella terra e dal suo lavoro insieme.
Dall
inizio della storia, via via che l’umanità è progredita dallo stadio preistorico dei popoli raccoglitori, essa ha sempre di più antropizzato il suo habitat, sovrapponendo uno sull’altro infiniti layerdi strutture che trasformano quel territorio in qualcosa di radicalmente diverso.
Strutture fisiche, e strutture concettuali: dalla rete fognaria fino al sistema giuridico – che a meno di immaginifiche Panarchie immaginate da utopisti sognatori ha necessariamente una base territoriale – il territorio che gli esseri umani popolano è stato da essi adattato alle loro esigenze con migliaia di modifiche, aggiunte ad esso con il loro lavoro, lungo centinaia di generazioni.
Questo territorio modificato non è più un terreno vergine, come sarà la superficie di Marte il giorno in cui ci arriveremo.
Non è più semplicemente un “territorio”.
Le fogne che raccolgono la nostra cacca le abbiamo costruite, l’acqua che esce dal rubinetto proviene da una diga che abbiamo costruito, per mezzo di un acquedotto che abbiamo costruito, i fornelli di casa funzionano grazie al metanodotto che abbiamo costruito, la luce si accende grazie agli elettrodotti che abbiamo costruito, le strade e le ferrovie che facilitano i nostri trasporti le abbiamo costruite, il fiume non ci inonda grazie agli argini che abbiamo costruito, la malaria non ci uccide grazie alle bonifiche che abbiamo completato, e così via all’infinito. E sopra di queste strutture fisiche, stanno le strutture di livello superiore, come il sistema giuridico già menzionato, il sistema sanitario, l’assistenza sociale, le scuole, i servizi di sicurezza, eccetera, che tutte assieme formano il cosiddetto capitale sociale, che (a differenza di quello privato) si diluisce man mano che si aggiungono nuovi utilizzatori; e che come le strutture fisiche non si è formato da solo, ma è stato costruito con il lavoro lungo decine o centinaia di generazioni.

Il territorio colonizzato diviene come una casa per gli uominiperché -come quella - è costruito sopra un terreno che fu incolto un tempo, ma che è stato reso abitabile e accogliente grazie al loro lavoro, qui collettivo e intergenerazionale.
Perché dunque ci pare così strano che gli esseri umani non che “popolano” e basta, ma che hanno colonizzato un territorio, poi lo percepiscano come loro, tanto che ci sembra ci sia bisogno di rifarsi alla ricerca antropologica per comprenderne le banali ragioni?
Quello che mi sembra davvero degno di nota è questa ovvietà risulti così oscura, e di questo fatto azzardo una mia spiegazione: secondo me questa miopia è un’altra conseguenza dell’individualismo della civiltà borghese. Lo spirito borghese è talmente abituato a osservare il mondo in termini individuali, che vede con sospetto, o rifiuta del tutto, qualunque petizione di principio che si muova lungo più di una generazione. Qualunque considerazione, di merito o di valore, che si riferisca a un soggetto collettivo, e sia in senso orizzontale (la comunità, chiamata con disprezzo “tribù”) sia in senso verticale (il clan, chiamato con disprezzo “stirpe”) è respinto con sdegno dallo spirito borghese, che riconosce diritto di esistere solo all’individuo,
e sopra all’individuo ammette soltanto la società, artificiosa ed esteriore costruzione positiva, come in Ferdinand Tönnies.

Il professor Rustichini, nel dibattito con Giulio Zanella comparso qui su nFA e ricordato da MB, scriveva in una nota a un lettore:

 

 

I poveri cristi italiani stanno meglio di quelli in Africa non per un caso, e non per sfruttamento. Anche io sono in una condizione privilegiata; in buona parte questo è dovuto (oltre che ai miei sforzi individuali) alla lenta accumulazione, fatta di sacrifici e di lavoro, delle persone nella mia famiglia che mi hanno preceduto. Io conosco, e so il nome, e la storia, di ognuna di queste persone, almeno fin dai primi decenni del 1600. E sono grato a tutti loro, uno dopo l’altro. [..]
Ti è chiaro ora che le sorti di una persona dipendono non dalla sua cittadinanza, ma dalla sua storia?

 

In questo passaggio c’è la chiave della discordia. Rustichini supera i confini del principio individuale: collegando le sorti di una persona con la sua storia, egli trasferisce su un piano collettivo (qui intergenerazionale) la giustificazione etica della disuguaglianza.
E nella stessa nota, spiega anche le ragioni per cui ciò non è solo possibile, ma è necessario.
Ma si può fare? Secondo la mistica borghese, NO. Ecco la causa psicologica di quella trappola autodistruttiva che Alain de Benoist ha chiamato feticismo dell'accoglienza.



Credo sia poco importante nell'ambito del discorso ma tutte le letture fatte in proposito mi confermano che l'istinto della territorialità era fortemente radicato anche nelle popolazioni di cacciatori-raccoglitori. Il motivo è semplice: quel territorio (vasto da 35 a 50 km2 per villaggio) era vitale per la sopravvivenza di un nucleo che era attorno ai 35-40 persone, bambini inclusi.  C'è un equilibrio tra territorio e risorse e questo bastava a quel villaggio solo. Erano stanziali quelle nelle foreste, nomadi chi seguiva la transumanza ma erano molto ostili nei confronti di competitori (umani e non, che venivano eliminati). I villaggi erano quindi distanziati tra loro e non erano ammessi sconfinamenti.  Ci sono diversi riferimenti nei libri di Pincker.  

Poi chiamo questo "terriorialità" come per un branco di leoni, non  "senso di proprietà".
Questo sì che è sorto con l'agricoltura. 

E continui a voler fare il pensatore senza far la fatica di pensare. 

Basta un esempio. Scrivi

 

"Le fogne che raccolgono la nostra cacca le abbiamo costruite, l’acqua che esce dal rubinetto proviene da una diga che abbiamo costruito, per mezzo di un acquedotto che abbiamo costruito, i fornelli di casa funzionano grazie al metanodotto che abbiamo costruito, la luce si accende grazie agli elettrodotti che abbiamo costruito, le strade e le ferrovie che facilitano i nostri trasporti le abbiamo costruite, il fiume non ci inonda grazie agli argini che abbiamo costruito, la malaria non ci uccide grazie alle bonifiche che abbiamo completato, e così via all’infinito. E sopra di queste strutture fisiche, stanno le strutture di livello superiore, come il sistema giuridico già menzionato, il sistema sanitario, l’assistenza sociale, le scuole, i servizi di sicurezza, eccetera, che tutte assieme formano il cosiddetto capitale sociale, che (a differenza di quello privato) si diluisce man mano che si aggiungono nuovi utilizzatori; e che come le strutture fisiche non si è formato da solo, ma è stato costruito con il lavoro lungo decine o centinaia di generazioni."

 

Ed e' tutto banalmente falso. Anzitutto perche' l'uso della prima persona plurale lascia indefinito chi siano i "noi" (quelli che vivono ora in Italia, quelli che ci vivevano al tempo che le varie infrastrutture vennero costruite, quelli che han pagato le tasse che li hanno finanziati e quindi non quelli che le tasse non lehanno pagate, chi le sta pagando ora per tenerle in piedi, chi vorrebbe pagarle o le paghera'?) ed in secondo luogo perche' ti attribuisci la proprieta' di cose su cui non hai proprieta'. Il sistema giuridico ha mille padri intellettuali (buona parte stranieri, il resto morti) a cui nessuno ha pagato il debito. Il "capitale sociale" se e' quella roba per cui in Trinacria c'e' la mafia e' un capitale negativo, se invece sono gli usi e costumi in generale questi si evolvono da sempre grazie ai contributi di chi si muove in Italia e nel mondo quindi NON si diluisce ma si modifica ed adatta, eccetera.  

By the same token dovresti chiederti: che diritto di proprieta' hai tu (avete "voi", chiunque voi siate) su cio' che le generazioni precedenti di persone che hanno vissuto in Italia hanno lasciato e sul quale si regge un buon 20% dell'economia del paese? Avete rimborsato gli austriaci per i lavori fatti nel lombardo-veneto? I romani per il colosseo? Attila per il trono del Torcello? I francesi e Napoleone in particolare per essersi inventati il fatto che l'Italia era uno stato-nazione oppresso e per gli innumerevoli contributi al suo sistema giuridico ed istituzionale? L'elenco e' endless ma nella tua piccola tesa non ci entra purtroppo.

Insomma, scrivi stronzate. Ma stronzate gigantesche come al solito le quali hanno un unico fine: pretendere vi sia della ricerca, dello studio, del pensiero dietro alle affermazioni che una mente fascistoide ed anche un po' malata continua a produrre.  Ti invito per l'ennesima volta a smetterla. Se davvero hai questa ammirazione allora accetta il mio consiglio da professore: scrivi stronzate che provano solo grande ignoranza. Studia e quando avrai finito di studiare riprovaci. Ci si sente fra 10 anni, viste le enormi lacune culturali che manifesti.

Sul fatto di senitrsi razzista privatamente ma non pubblicamente, credo di capire che effettivamente a livello di reazione d'impulso possiamo provare i fastidi che menzioni ma poi se siamo stati educati bene (e questo è il fattore importante) abbiamo un differente comportamento pubblico. L'educazione è basilare e segna il passaggio dal bambino naturale (non adattato) all'adulto adattato (o disadattato, nel caso). 

Tuttavia il disagio che si prova a contatto con certe persone (o gruppi di persone che hai descritto) non credo sia ancora razzismo. Lo sarebbe se il passo successivo fosse un sentimento di superiorità globale. Nel senso che un conto è avere una valutazione oggettiva per cui io mi sento migliore di Tizio, altro è se io, in quanto appartenente al gruppo A mi sento superiore a Tizio solo in quanto egli appartiene al gruppo B.