La produttività scientifica dell'Italia

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G.A.Stella ha pubblicato l'8/11/2008 sul Corriere della Sera un articolo in difesa della produttività scientifica dei ricercatori italiani, citando dati sostanzialmente incomprensibili e senza indicare con chiarezza la fonte. R. Perotti e altri hanno pubblicato anni fa un saggio ovviamente molto meglio documentato ("Lo splendido isolamento dell'Università italiana", 2005) in cui concludono che la qualità della produzione scientifica dei ricercatori italiani si colloca agli ultimi posti tra i paesi avanzati. In realtà entrambi si basano sulla stessa fonte (David A. King, The scientific impact of nations, 2004), solo diversamente interpretata.

Riassumendo all'osso: i ricercatori accademici italiani confrontati con quelli degli altri Paesi pubblicano articoli di qualità relativamente inferiore per numero di citazioni, ma in quantità maggiore a diversi paesi anche avanzati. Moltiplicando il numero di articoli per la qualità media, il numero di citazioni per ricercatore accademico in scienze e ingegneria è più che dignitoso, superando Francia e Germania. Sia chi loda, sia chi valuta male la produttività scientifica dei ricercatori italiani ha elementi a suo favore. Personalmente tendo a preferire il criterio della qualità media degli articoli, con R. Perotti et al., e apro la discussione sul tema.

King esamina le pubblicazioni dei ricercatori di scienze e ingegneria delle 30 nazioni più avanzate in due periodi, 1993-1997 e 1997-2001, e riporta (Tav.1), per ogni paese, il numero di articoli scientifici, il numero di citazioni totali sommato su detti articoli, e il numero di articoli che - disciplina per disciplina - appartiene al 1% più citato.

L'Italia ha ovviamente una pessima posizione, come ci si può aspettare anche (ma non necessariamente solo) dal fatto che lo Stato italiano investe in ricerca il 25% in meno della media UE15 e i privati italiani investono in ricerca 2.4 volte meno della media UE15 (dati OCSE relativi al 2001). Sul parametro più significativo, gli articoli più citati, il Canada con 33 milioni di abitanti supera l'Italia con 60 milioni di abitanti, e addirittura Svizzera (6 milioni di abitanti) e Olanda (15 milioni di abitanti) producono un numero di articoli molto citati solo leggermente inferiore a quello italiano.

Oltre al numero totale di articoli prodotti e citazioni ottenute, è interessante anche confrontare la qualità media degli articoli prodotti, per capire se le citazioni sono ottenute pubblicando un grande numero di articoli poco citati (magari pubblicando un elevato numero di articoli sostanzialmente identici sulla stessa ricerca) oppure con un piccolo numero di articoli molto citati. Siccome il numero di citazioni dipende dalla disciplina e dal tempo intercorso dalla pubblicazione, King rinormalizza il numero di citazioni per articolo alla media della disciplina e (in sostanza) per anno di pubblicazione. In questo modo si ottiene un numero pari a 1 per chi pubblica articoli di qualità media tra le 30 nazioni considerate, e superiore a 1 per chi pubblica gli articoli migliori. Nel confronto, l'Italia si posiziona ultima, assieme alla Francia, tra i paesi europei ed anglosassoni avanzati eccetto l'Australia. Arriva tuttavia sopra la media che corrisponde al valore 1 (ottiene 1.12 nel primo periodo e 1.07 nel secondo) e supera i seguenti paesi (nomi in inglese, per rapidità ...): Australia, Israel, Irlanda, Spain, Luxembourg, Japan, Portugal, Poland, Greece, South_Korea, Singapore, Brazil, Russia, China, Taiwan, India, Iran.

L'articolo di King è già stato utilizzato in passato in difesa della ricerca in Italia per mostrare che la produttività dei ricercatori italiana è molto elevata. Cito R. Perotti et al:

 

Come si vede, l'Italia ha un rapporto "pubblicazioni/ricercatore" molto vicino a quello dell'Olanda, e piu alto di quello degli altri paesi nella tavola. Anche il rapporto "citazioni/ricercatore" e nelle primissime posizioni, molto vicino a quello di Regno Unito, Olanda e Danimarca, ma molto maggiore di quello di tutti gli altri paesi. Dello stesso tenore sono i dati illustrati da DTI (UK Department of Trade and Industry, 2004), che include anche scienze sociali e business. Questi risultati, apparentemente incoraggianti per il nostro paese, sono stati ampiamente citati nella stampa italiana, da ultimo nella risposta del ministro Moratti ad un articolo di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 22 Novembre 2004.


Tuttavia essi risultano fortemente ridimensionati quando si tenga conto del fatto che la composizione dei ricercatori varia molto da paese a paese. La definizione di ricercatore include una varietà di figure professionali, di cui i ricercatori accademici sono quasi ovunque una minoranza. Ma è noto che i ricercatori accademici pubblicano molto piu degli altri ricercatori. Usare il numero totale di ricercatori al denominatore delle prime due colonne, anziché il numero di ricercatori accademici, può quindi distorcere notevolmente i risultati. La colonna 3 mostra chiaramente che i paesi sud-europei tendono ad avere una percentuale di ricercatori accademici molto piu alta che i paesi anglosassoni dove la maggior parte dei ricercatori e costituita da scienziati e ingegneri che lavorano in aziende private. In particolare, negli Stati Uniti i ricercatori accademici sono meno di un sesto del totale. Questo e il motivo per cui nella gli Stati Uniti hanno - molto implausibilmente - il piu basso valore "pubblicazioni/ricercatore" dopo il Portogallo.


Quando al denominatore usiamo i ricercatori accademici invece dei ricercatori totali, la posizione dell'Italia si ridimensiona notevolmente. Ora l'Italia ha rapporti "pubblicazioni/ricercatore" e "citazione/ricercatore" ben inferiori agli USA, ma anche a Regno Unito, Olanda e Danimarca.

 

R. Perotti e altri continuano il loro studio rapportando quindi le pubblicazioni ai soli ricercatori accademici, e concludono (il riassunto è mio):

  • per numero di citazioni diviso numero di ricercatori accademici l'Italia supera Portogallo, Spagna, Francia e Germania ma è inferiore tutti gli altri paesi considerati (nord-europei e anglosassoni).
  • come impact factor medio (numero citazioni diviso numero articoli) degli articoli prodotti, l'Italia precede solo Spagna e Portogallo tra i 10 paesi presi in considerazione.
  • i due risultati precedenti risentono della ripartizione dei lavori pubblicati nelle diverse discipline, che hanno un numero di citazioni diverso. Rapportando le citazioni disciplina per disciplina alla media di disciplina, si può ottenere un impact factor standardizzato degli articoli pubblicati dai ricercatori accademici italiani, e questo risulta ancora una volta terz'ultimo tra i paesi considerati e superiore solo a Spagna e Portogallo. Si noti che anche King arriva ad una conclusione simile, accomunando però l'Italia anche alla Francia.

Sostanzialmente, i ricercatori italiani producono un numero elevato di articoli, di qualità media però non elevata. Tuttavia moltiplicando i due numeri, il numero di citazioni totali per ricercatore supera Francia e Germania, e questo non è un risultato disprezzabile.

R. Perotti et al. considerano più significativo il confronto sulla qualità media degli articoli, e concludono che l'Italia arranca nelle ultime posizioni. Altri (citati prima) considerano più significativo il numero di articoli o il numero di citazioni per ricercatore e concludono che l'Italia primeggia del mondo (se non si distingue tra ricercatori accademici e del settore produttivo) oppure che ha una produttività più che dignitosa se ci si restringe a considerare i ricercatori accademici.

Ora passiamo a considerare quanto scrive G.A.Stella:

 

TERZI AL MONDO - La prova? In rapporto al loro numero, i nostri

ricercatori sono i terzi al mondo dopo i britannici, che svettano con

3,27 citazioni sulle maggiori riviste scientifiche internazionali, e

dopo i canadesi, che seguono a quota 2,44. Ma con il nostro 2,28 noi ci

piazziamo davanti agli Stati Uniti (2,06), alla Francia (1,67), alla

Germania (1,62) e al Giappone, che chiude il pacchetto di testa con

0,41.

 

G.A.Stella riporta dati incomprensibili e senza rinviare a qualche pubblicazione. Il suo corrispondente appare essere Ugo Amaldi, così introdotto nel paragrafo precedente:

 

Il professor Ugo Amaldi, che lavora al Cern di Ginevra [...] dice di essere

furibondo, con le classifiche internazionali. Sono bugiarde, spiega.

«Perché non viene fuori un dato fondamentale. E cioè che nella ricerca

di punta noi italiani restiamo forti. Fortissimi, in certi settori».

 

Per quanto ciò non sia chiarito da G.A.Stella, i dati provengono effettivamente da una breve nota di Ugo Amaldi: si tratta semplicemente dei rapporti tra il numero degli articoli più citati della tabella 1 di King e il numero di ricercatori (universitari e del settore produttivo) della tabella 3 di King. Questi rapporti sono poi moltiplicati per 100. Non si tratta quindi di "citazioni sulle maggiori riviste" ma di "numero di articoli molto citati prodotti da 100 ricercatori".


 
Top 1% cited papers 1997-2001Full-time researchers
 
Nazioneda Tabella 1da Tabella 3Rapporto x100
Gran_Bretagna4.800147.0003.27
Canada2.20090.0002.44
Italia1.60070.0002.28
USA23.7001.150.0002.06
Francia2.600155.0001.67
Germania3.900240.0001.62
Giappone2.600640.0000.41

Come ho fatto presente privatamente a Ugo Amaldi, questi dati non tengono conto del fatto che in Italia i ricercatori sono prevalentemente accademici, mentre in altri Paesi lavorano tipicamente prevalentemente per il settore privato, rinviandolo all'articolo citato di R. Perotti et.al. Ugo Amaldi ha replicato mostrando attenzione e gentilezza e osservando tra l'altro che almeno come numero di citazioni diviso ricercatori accademici anche R. Perotti assegna all'Italia una posizione più che dignitosa, come già visto sopra.

Aggiungo a tutti i dati precedenti alcuni dati che ho raccolto nel 2006 sulla spesa in ricerca e sulla produttività tecnologica dei paesi avanzati, si riferiscono probabilmente ad anni tra il 2001 e il 2004.

paeselaureati*sp.statale**sp.priv.**brev.hi-tech***brev.***
USA10.20.861.9048.4154.5
Giappone13.00.802.3240.4166.7
Germania8.10.771.7345.5301.0
Spagna12.20.470.563.525.5
Francia20.20.831.3631.8147.2
UK19.50.611.2632.0128.7
Italia6.10.550.557.174.7
UE1512.50.691.3030.9158.5

* laureati in materie scientifiche in perc. della pop. da 20 a 29 anni

** spesa in ricerca in percentuale del PIL

*** domande all'EPO per milione di abitanti

Usando questi dati sulla spesa pubblica in ricerca e assumendo che gli articoli al top 1% delle citazioni siano esclusivamente finanziati dalla spesa statale (assunzione che credo corretta con buona approssimazione) ottengo dei dati paragonabili a quelli di Ugo Amaldi ma rapportati alla spesa pubblica:


 
top1%popol.ricercaprod
Italia1630600.5549.4
Germania3932800.7763.8
Francia2591600.8352.0
Spagna785400.4741.8

top1% = numero di articoli di scienze e ingegneria nel 1997-2001 per paese

popol. = popolazione in milioni (approssimata)

ricerca = spesa statale per ricerca in % del PIL

prod = numero di articoli molto citati rapportato alla spesa pubblica relativa al PIL nazionale

Questa tabella mostra che la produttività della spesa pubblica italiana in ricerca è inferiore alla Germania e (di poco) alla Francia, ma supera (1997-2001, non so ora) la Spagna. Personalmente ritengo questi dati più indicativi della realtà.

'<h' . (('3') + 1) . '>'Chi ha ragione?'</h' . (('3') + 1) . '>'

Questo lo lascerei decidere ai lettori. Personalmente non sono soddisfatto del fatto che la qualità media degli articoli italiani sia agli ultimi posti tra i paesi avanzati, e considero questa indicazione prevalente sulla produttività in termini di numero di articoli. Anche il numero di articoli molto citati mi sembra meno che commisurato alla spesa pubblica in ricerca. Per me il ritardo dell'Italia c'è non solo come spesa ma anche come produttività, ma il ritardo di produttività non è tragico (in scienze e ingegneria) come si potrebbe temere: fino al 2001 facciamo molto meglio del Messico e della Turchia e non siamo lontani dai Paesi avanzati, che per alcuni parametri superiamo.

In ogni caso, anche se non concordo nel magnificare la produttività scientifica italiana, sono assolutamente d'accordo sul fatto che sia essenziale per l'Italia aumentare il numero dei ricercatori, che ci vede arrancare nelle ultime posizioni. Il ritardo viene principalmente dal settore privato, che non fa ricerca, ma anche lo Stato italiano spende in ricerca il 25% meno della media UE15. Oltre ad aumentare la spesa, a mio parere è necessario migliorare significativamente anche la sua allocazione in funzione del merito e della produttività all'interno del comparto ricerca, per aumentare la qualità e il rendimento per la società delle spese in ricerca.

 

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Commenti

Ci sono 79 commenti

 

Avevo notato anch'io l'articolo di Stella, e mi era sembrato un po' pasticciato... felice che tu abbia fatto un po' di chiarezza.

Mi chiedevo come viene affrontata in questo genere di classifiche la questione della lingua. E' chiaro che scrivere in una lingua "sfigata" puo' avere influenza negativa sul numero delle citazioni (indipendentemente dalla qualita' intrinseca dell'articolo stesso).

D'altro canto, se parliamo di "scienze ed ingegneria", mi pare che la lingua dell'articolo possa essere considerata di per se' un grossolano indicatore di qualita'... almeno a livello aggregato. Parliamo di discipline molto "internazionali", no?

Insomma, potrebbe essere un elemento degno di ulteriori indagini.

Cio' detto, concordo con te sul fatto che un alto numero di articoli di bassa qualita' non sia per nulla qualcosa di cui ci si possa vantare.

 

Mi limito a riportare la mia esperienza. In fisica il numero di riviste di livello dignitoso in italiano è pari a zero. Persino "Il nuovo cimento" (nonostante il titolo) è in inglese. Esiste qualche rivista in russo (anche se la maggior parte hanno una versione tradotta) e qualcuna (poche) in francese. Per il resto tutte le riviste sono in inglese. Le riviste nelle altre lingue esistono ma sono cose così minoritarie che pubblicarci sopra praticamente non conta.

 

 

Avevo notato anch'io l'articolo di Stella

 

Colgo l'occasione di ringraziarti per aver riportato il collegamento e aver attirato la mia attenzione li'.

 

Mi chiedevo come viene affrontata in questo genere di classifiche la questione della lingua.

 

Il problema e' sentito dalle elites accademiche italiane, acutamente da quelle attive in campo internazionale (come anche Ugo Amaldi). Non e' solo vittimismo e credo non sia solo la lingua: ritengo che in una certa misura i paesi anglosassoni tendano magari inconsciamente magari no (vedi Echelon) a fare gioco di squadra.  Inoltre paesi scandinavi e Olanda sono avvantaggiati da una migliore conoscenza dell'inglese, mentre i paesi asiatici come il Giappone sono svantaggiati rispetto a noi. Infatti anche per evitare queste distorsioni nel mio confronto ho incluso solo paesi comparabili in termini di lontananza dall'inglese: Italia, Francia, Germania e Spagna. L'inglese comunque non e' una barriera insuperabile: la Svizzera produce articoli in scienze e ingegneria di qualita' media superiore a tutti i paesi anglosassoni inclusi gli USA. Personalmente prenderei sempre a riferimento per l'Italia Francia, Germania e Spagna, sono i paesi piu' direttamente confrontabili con noi.

 

alberto, bell'articolo.

visto che sei documentato vorrei farti una domanda.  nella conclusione scrivi "Oltre ad aumentare la spesa, a mio parere è necessario migliorare

significativamente anche la sua allocazione in funzione del merito e

della produttività".

idee sul come (aumentare e allocare)?

 

 

idee sul come (aumentare e allocare)?

 

Qualche idea ce l'ho, ma mi rendo conto che non sara' facile, perche' la societa' e la cultura italiana sono profondamente antimeritocratiche, sono rimaste indietro in parte alla mentalita' feudale (clientele e baroni) e in parte alla mentalita' delle corporazioni.  Del resto anche l'inizio della trasformazione degli USA in una societa' meritocratica e' recente (~1933), secondo questo articolo di R.Abravanel.


Per allocare meglio, lo Stato deve fare molto piu' di quanto fa ora, non deve dare soldi agli Atenei in base agli iscritti o alle lauree o al numero di docenti e ricercatori, ma in base alla qualita' dei laureati (valutata indipendentemente dagli Atenei), in base al gradimento degli utenti (per es. proporzionalmente agli studenti esteri attratti, o anche italiani residenti a oltre 100 km di distanza). I fuori corso devono essere valutati molto meno in modo da disincentivare economicamente sia gli Atenei sia gli studenti stessi a prolungare gli studi. Deve fare review periodiche anche della produttivita' scientifica almeno dipartimento per dipartimento. Invece di dare soldi indivisi per la ricerca agli Atenei (tipicamente spartiti internamente in parti uguali) dovrebbe dare agli Atenei solo il minimo per pagare gli stipendi e funzionare, e poi ogni docente dovrebbe concorrere separatamente per i fondi della ricerca, come piu' o meno avviene negli USA. I dipartimenti poi amministrerebbero questi fondi trattenendo il 20% per spese amministrative e investimenti comuni al dipartimento.  Questo ultimo meccanismo sarebbe utile per incentivare a cooptare colleghi validi.  Ma perche' funzioni, occorre un'agenzia di valutazione delle proposte sceintifiche quanto piu' possibile separata dai percettori finali dei fondi.

Per quanto riguarda aumentare i fondi, lo Stato italiano deve ridurre la spesa clientelare (es. operai forestali calabresi, spesa per studente eccessiva per la scuola), gli aiuti alle grandi imprese private, e disincentivare pensionamenti anticipati, scivoli, casse integrazioni speciali per lavoratori anziani, insomma tutta la spesa pubblica eccessiva agli standard degli altri paesi riversata sugli anziani: con riduzione modeste sulle voci di spesa citate, lo Stato potrebbe aumentare da 0.55% del PIL al 0.8-1.0% del PIL la spesa pubblica per ricerca.

Per quanto riguarda la spesa per ricerca privata il problema e' piu' complesso perche' non riguarda solo il fatto che l'Italia ha meno grandi imprese rispetto ad altri Paesi. Io ritengo che i veri problemi vengano dallo Stato, dalla societa' e dalla cultura italiani. Innanzitutto e' vergognoso che l'ufficio brevetti non funzioni in maniera rapida ed efficiente come leggo in altro commento.  Ma piu' in generale, secondo me c'e' un fallimento pressoche' totale dello Stato come potere esecutivo e della Magistratura come potere giudiziario nel garantire in maniera efficiente i diritti di proprieta' intellettuale, in Italia. La cialtroneria dello Stato a questo riguardo e' probabilmente riflesso del consenso sociale che in Italia piu' che altrove favorisce chi copia. Se si vuole incentivare ricerca e innovazione di elevato livello, occorre garantire che lo sfruttamento economico dell'innovazione sua tutelato per un periodo congruo di tempo, pur senza esagerare come negli USA. Paradossalmente, l'Italia potrebbe trarre vantaggio anche dalla sua cultura anti-meritocratica e irrispettosa della proprieta' intellettuale per importare la legislazione USA in materia di brevetti in maniera opportunamente temperata.

 

Quale affidabilità hanno le classifiche di http://www.sciencewatch.com/ della thomson reuters basate essential science indiators ?

guardando le ultime pubblicate, l'Italia è mediamente in settima posizione, ossia un ranking coerente con il suo PIL.

Ecco alcune discipline:

chimica: http://sciencewatch.com/dr/cou/2008/08apr10CHE/

http://www.noisefromamerika.org/

Fisica:  http://sciencewatch.com/dr/cou/2008/08mar20PHY/

medicina clinica: http://sciencewatch.com/dr/cou/2008/08aug20CLI/

matematica: http://sciencewatch.com/dr/cou/2008/08nov20MATH/

 

 

Caro Sabino,

ti ringrazio molto per gli interessanti collegamenti, che non conoscevo! Ho guardato Fisica: mi sembra in prima approssimazione attendibile rispetto alla mia percezione.  Probabilmente gli indici sono ottenuti con forza bruta senza troppe raffinatezze, ma sembrano documentare bene quella che e' la mia percezione aneddotica.  Secondo me dovremmo rapportare i dati al PIL o alla frazione di PIL spesa in ricerca per confrontare meglio la produttivita'.

p.s. se ricapiti sul tuo commento, per attivare i link dovresti selezionarli e copiare il testo, premere il bottone sopra con la catena, riversare il testo copiato sul campo URL della finestra che appare, e selezionere OK o DONE.

 

 

Ottimo articolo su di un tema che almeno a parole sta molto a cuore anche a tutta la classe politica italiana.

Mi sembra che il dato piu' preoccupante (ed incontrovertibile) sia lo scarso impegno dei privati rispetto agli altri paesi. Tra l'altro penso che con una maggiore interazione tra industria ed universita', verrebbe migliorata anche la qualita' media degli articoli (almeno nel mio settore, le telecomunicazioni, questo e' sicuramente vero).

Purtroppo le notizie di questi ultimi mesi non sono per nulla incoraggianti: chiusura del centro di ricerca di Ericsson a Roma (circa 300 unita'), chiusura della Motorola a Torino (-370 unita' impegnate in R&D), NSN che ridimensiona tutti i programmi di sviluppo in Italia, Alcatel-Lucent non so (ma non credo che se la passino troppo bene) ...

Attualmente l'unica ricerca possibile e' quella di un altro posto di lavoro, magari all'estero se si vuole continuare nell'R&D :(

Saluti

 

alberto, articolo molto interessante

una domanda: perche' secondo te in italia si tende a preferire la quantita' alla qualita' nella produzione scientifica?

Sono portato a pensare che il sistema di incentivi (i.e. la normativa sui concorsi pubblici e la prassi su come vengono gestiti) sia marcatamente differente rispetto ad altri paesi e che pertanto sia ottimale per i nostri ricercatori puntare sul volume delle pubblicazioni piu' che sull'impatto (ma e' semplicemente una guess).

 

 

una domanda: perche' secondo te in italia si tende a preferire la quantita' alla qualita' nella produzione scientifica?

 

Non enfatizzerei oltre misura questo dato che pure mi sembra misurabile in modo significativo, perche' le differenze sono modeste, non ci sono fattori 2 o 3 ma differenze dell'ordine del 10-20-50%.

Come ipotesi, avanzo due possibili spiegazioni. La prima e' un maggiore provincialismo e minore internazionalizzazione della ricerca italiana, la seconda e' la predilezione italiana per fare piccoli lavori e approfondimenti molto molto specialistici, e la riluttanza a fare lavori di ricerca e pubblicazioni di largo respiro e indirizzati ad un pubblico vasto e/o interdisciplinare. Nella concezione italiana lo studioso modello deve essere super-specializzato e deve occuparsi di teorie astruse e incomprensibili alla massa e comprensibili solo a pochissimi eletti, e quasi si squalifica se produce pubblicazioni estese o interdisciplinari o magari una intera teoria esposta dalle sue basi a tutte le sue conseguenze.  Sia ben chiaro che quanto sopra deriva puramente da mia personale esperienza aneddotica.

 

Non entro nel merito della ricerca accademica, e del dibattito sul numero di articoli e citazioni, ma intervengo solo per portare una testimonianza, piccola, di come i privati siano in seria difficoltà con la ricerca.  A permettersi i costi della ricerca possono farlo solo le grandi aziende, per le piccole imprese non c'è spazio per il costo della ricerca poichè il fisco, attraverso il meccanismo degli studi di settore, uccide ogni velleità non consentendo investimenti che non si ritorcano come aumento della base di valutazione del reddito d'impresa minimo.  La ricerca non è solo quella di base, dove si studia ed è difficile valutare i possibili risultati a priori, ma anche quella che piccole imprese potrebbero realizzare attraverso studi su applicazioni specifiche del dominio in cui operano, propedeutici allo sviluppo di nuovi prodotti. Come, per esempio nel settore informatico, nei dispositivi per la comunicazione ad accesso su media condivisi, potrebbero esserlo studi statistici sui picchi di traffico in relazione alle applicazioni d'utenza per l'ottimizzazione di algoritmi predittivi tali da ridurre le collisioni ed aumentare l'efficienza (e la banda disponibile); e non sto parlando di chat via internet, ma di sistemi per il controllo di automatismi. Talvolta si incorre in problemi addirittura per fare rientrare i costi nei bilanci: è più facile intestarsi una barca alla azienda e farla passare come costo (mi è stato riferito di una signora, proprietaria di una grande azienda, che ha sfruttato i contributi europei per la ricerca per finanziarsi uno splendido Ferretti da 40 piedi).

La questione fiscale non è limitata solo a questi aspetti, diciamo diretti, ma anche a fattori indiretti: costi amministrativi e "infrastrutturali burocratici" (consentite il termine, poichè non ne trovo uno di adeguato per definire i costi riguardanti l'adeguamento di strutture e personale per questioni di sicurezza, di tutela dei dati personali, ecc. che sono realizzati in realtà al solo fine di dar "lavoro" a "consulenti").

Ma non è solo una faccenda di soldi. Io ho depositato due brevetti "hi-tech" nel 2004 ...non sono ancora stati presi in considerazione poichè si stanno ancora lavorando quelli del 2002!

Ok, forse dovevo rivolgermi direttamente all'EPO in Germania ...ma in questo articolo si parlava dell'Italia...

 

 

 

Puoi spiegare meglio: com'e' che una barca puo' essere imputata come costo, e non la spesa per (putacaso) un consulente che ti dica come ottimizzare la bandwidth?

Sono convinto che manchi nello Stato italiano e tra i politici la competenza e la volonta' di incentivare ricerca e innovazione, sia dal punto di vista fiscale, sia dei brevetti, sia per quanto riguarda la tutela giudiziaria della proprieta' intellettuale. Si dovrebbe fare molto molto meglio. Credo peraltro che anche le medie e forse anche le piccole imprese facciano ricerca tecnologica non disprezzabile in Italia, forse dissimulata perche' chi la fa viene pagato e inquadrato come metalmeccanico o quadro di basso livello.  Altrimenti non mi spiego il successo di tante PMI nel settore della moda, della meccanica e macchine utensili, delle montature degli occhiali, ci sono perfino quelle che riescono a vendere piastrelle in Cina. Certo e' ricerca relativamente minore ma senza i corrispondenti avanzi nella bilancia commerciale potremmo scordarci il sia pur limitato benessere di cui godiamo.

 

Mi sembra che una cosa che senz'altro si può concludere a partire dai dati riportati è che la ricerca italiana accademica (in scienze e ingegneria) non è così disastrosa come invece spesso viene dipinta. Direi che in un modo o nell'altro occupiamo una posizione onorevole, corrispondente al nostro status. Sarebbe interessante verificare quale posizione occupiamo nelle altre discipline (medicina, economia, sociologia, ...)

 

 

Direi che in un modo o nell'altro occupiamo una posizione onorevole,

corrispondente al nostro status. Sarebbe interessante verificare quale

posizione occupiamo nelle altre discipline (medicina, economia,

sociologia, ...)

 

Leggendo il testo citato di Perotti e altri, sembra che nelle scienze sociali (lui documenta ovviamente Economia) il ritardo dell'Italia sia molto maggiore rispetto a scienze e ingegneria. Riguardo a medicina, il  collegamento di Sabino mostra l'Italia in posizione proporzionale al suo PIL. In rapporto al PIL, facendo a mente i conti, l'Italia occupa una posizione paragonabile al suo indice di sviluppo umano (20-22, tra gli ultimi dei paesi OCSE).  In rapporto ai ricercatori non saprei, ma azzarderei che medicina clinica sia paragonabile a scienze e ingegneria, per quanto (aneddoticamente) il livello di corruzione e sprechi mi sembra molto superiore, e la produttivita' scientifica potrebbe soffrirne proporzionalmente.

 

 

 

è noto che i ricercatori accademici pubblicano molto piu degli altri ricercatori

 

Oddio. Questa mi sembra una affermazione che avrebbe bisogno, se non altro, di un qualche supporto un po' più forte del "si sa". Che in Italia la ricerca non accademica sia limitata possiamo anche essere d'accordo ma, francamente, non me la sentirei di dire che i Bell Labs o i centri di ricerca dell'IBM pubblichino poco. Forse pubblicheranno poco nell'ambito della matematica pura o della filologia classica ma qui stiamo parlando di ingegneria. Insomma se dividere per il numero totale dei ricercatori può essere un metodo imperfetto dividere per il numero dei ricercatori accademici dimenticandosi degli altri è altrettanto sbagliato.

 

 

Insomma se dividere per il numero totale dei ricercatori può essere un

metodo imperfetto dividere per il numero dei ricercatori accademici

dimenticandosi degli altri è altrettanto sbagliato.

 

Credo che R.Perotti et al confrontino pubblicazioni di ricercatori accademici con ricercatori accademici. Per quanto riguarda l'approssimazione che faccio io al termine del mio pezzo, ritengo che gli articoli appartenenti al 1% piu' citato per disciplina, provengano quasi esclusivamente dal settore accademico, tuttavia cerchero' maggiore documentazione su questo punto. Per Fisica mi stupirei se fosse altrimenti, per ingegneria e' possibile che ci siano correzioni, hai esempi di articoli molto citati prodotti da ricerca privata non accademica?

Non sono peraltro d'accordo a considerare altrettanto sbagliate le due approssimazioni. Usando il numero totale dei ricercatori, la qualita' della produzione scientifica USA risulta inferiore a quella portoghese, mentre usando i ricercatori accademici le qualita' sono grosso modo allineate alle posizioni dei vari paesi secondo l'indice di sviluppo umano dell'ONU. Per me almeno e' evidente che la seconda approssimazione e' molto piu' realistica e migliore della prima, con questo sono pronto ad affinarla se ne ho la possibilita'.

 

commento spostato

 

 

Buongiorno, volevo chiedere una cosa, prettamente in riferimento alla ricerca in economia: ma la qualita' della produzione scientifica e' determinata solo dalle citazioni, o anche dal, diciamo, "ranking" della rivista dove l'articolo e' pubblicato? Se la risposta e' si, quale e' il peso dell'istituto di affiliazione, ossia, a parita' di qualita' dell'articolo, come varia la mia probabilita' che venga pubblicato nell'American Economic Review se lavoro al MIT o all'Universita' del Sannio?

Grazie mille, Alessandro.

 

 

Quale e' il peso dell'istituto di affiliazione, ossia, a parita' di

qualita' dell'articolo, come varia la mia probabilita' che venga

pubblicato nell'American Economic Review se lavoro al MIT o

all'Universita' del Sannio?

 

Credo che effetti di questo genere siano conosciuti e anche studiati, ma non sono esperto della materia. Sbirciando un articolo sull'argomento "ranking" ho visto che un punto importante e' valutare la qualita' le riviste non in base alla loro storia passata ma alle citazioni che ricevono nel medesimo periodo nel quale si vogliono confrontare le istituzioni universitarie.  Se si classificano le riviste in base alle citazioni raccolte in periodi precedenti, si favoriscono i paesi dove erano edite (tipicamente gli USA).  Se invece le riviste sono valutate nello stesso periodo di riferimento, la classifica appare essere piu' bilanciata tra USA, Europa ed Asia, eliminando almeno in parte lo svantaggio dei paesi scientificamente emergenti.  Cio' significa che se un paese o una regione fanno buona ricerca e pubblicano, cio' influisce sulla qualita' misurabile delle riviste, rafforzando le riviste che danno loro spazio, e in definitiva consentendo a tutte le regioni scientificamente produttive di emergere, a patto di fare le classifiche con alcuni accorgimenti per ridurre i vantaggi del passato.

 

 

Vorrei suggerire ad Alberto e a chi ha partecipato a questo dibattito la lettura del seguente documento che tratta, dal punto di vista degli statistici, delle statistiche sulle citazioni. 

http://www.mathunion.org/fileadmin/IMU/Report/CitationStatistics.pdf

Adesso vado a cercare un mio breve commento a questo documento. Intanto invio questo. Ecco il commento destinato al notiziario dell'unione matematica italiana che ha pubblicato il documento.


Accolgo volentieri l'invito a commentare la pubblicazione sul NUMI (ottobre

2008) del documento "Citation Statistics". Vorrei commentare la "ingenuità

statistica" con la quale utilizziamo un valor medio come il

cosiddetto "impact factor", addirittura per "normalizzare" rilevazioni in

ambiti diversi. Mi spiego con un esempio. Supponiamo che si decida di

rilevare l'età degli alunni che frequentano una prima elementare. In un'era

tecnologica la rilevazione non è affidata ad un umano ma ad un robot. Il

risultato è una distribuzione in cui mediana e moda (il

valore più frequente) coincidono e sono uguali a sei, mentre la media è

quasi undici. A nessuno verrebbe in mente di considerare la media

significativa e utilizzabile in "normalizzazioni". Certamente moda e mediana

rappresentano meglio la distribuzione. Inoltre un simile risultato

desterebbe sospetti che probabilmente consentirebbero alla fine di scoprire

che nella rilevazione sono stati inclusi 20 bambini e due maestre

sessantenni in "copresenza". A questo punto ci si preoccuperebbe di

verificare che in altre classi, magari più numerose, sia stata rilevata

l'età anche di una sola maestra ventenne, distorcendo solo di poco la media.

La popolazione delle maestre verrebbe quindi studiata a parte.

L'atteggiamento nei riguardi dello "impact factor" è ben diverso e non è

così "scientifico". Per quasi tutte le riviste di matematica, lo "impact

factor" è appunto il valor medio di una distribuzione in cui valore mediano

e moda coincidono e valgono zero. Ma è solo la media(sostanzialmente priva

di significato) ad essere utilizzata. Eppure, se per un lavoro di matematica

è normale non essere citato nei due anni successivi alla pubblicazione,

varrebbe la pena di studiare proprio le eccezioni per cercare di risalire

alle ragioni dell'eccezione. Certamente

non possiamo aspettarci questo atteggiamento "scientifico" da parte di chi

vende e publicizza un prodotto come lo "Impact Factor", ma è quello che

dovremmo aspettarci da utenti ben informati, come dovrebbero essere i

matematici ed i loro colleghi delle facoltà di scienze ed ingegneria.

                       Alessandro Figa' Talamanca.

 

 

Ho letto sia l'articolo segnalato che il commento. Tutte le affermazioni sui limiti e le imprecisioni dell'impact factor e misure similari sono in buona misura condivisibili. In particolare e' fuori luogo considerare queste misure numeriche e statistiche oggettive quanto lo puo' essere una misura fisica, perche' e' evidente che non possono cogliere tutta la complessita' delle attivita' umane. Tuttavia mi sembra che da parte dei critici manchi una proposta alternativa all'attuale sistema universitario italiano che corrisponde a nessuna valutazione, nessuna responsabilita', nessun incentivo e nessun disincentivo alla produttivita'.  Certamente Harvard non assume in base all'impact factor, ma piuttosto in base a raccomandazioni di studiosi affermati e alla discussione interna al dipartimento e, almeno come ratifica, al CDA dell'Universita'.  Detto questo, quando si confronta Harvard con altre universita' usando impact factor, premi Nobel tra gli alunni o la docenza, o praticamente ogni altra misura imprecisa e limitata ma pur sempre ragionevole, fatalmente risulta nelle prime posizioni. In fin dei conti dipende tutto dall'onesta', serieta' e competenza di chi elabora e usa questi indicatori, se usati bene possono dare una misura imprecisa e limitata ma ragionevole della realta'.

 

 

Segnalo che Nature ha pubblicato un nuovo (breve) editoriale sulla riforma dell'università. Lo potete trovare qui.

Non sono sicuro che sia accessibile a chi non ha l'abbonamento; qui se ne trova una traduzione in italiano e chi proprio volesse l'originale mi può contattare che gli mando il pdf (si tratta di mezza paginetta).

 

Volevo far notare che in moltissimi campi di punta e' estremamente difficile produrre articoli ad alto impatto senza adeguati finanziamenti. La mia esperienza del mondo della ricerca italiana, comparato con quello di altri paesi, e' di un'ambiente generalmente di alto livello e produttivo. Pero' basta leggere un qualsiasi numero di Nature o Science per rendersi conto che gli articoli veramente "striking", quelli che attirano centinaia di citazioni, contengono in gran parte un lavoro sperimentale fatto con macchine all'avanguardia. Questo materiale costa molto e praticamente nessun gruppo di ricerca in Italia puo' permetterselo, parlo sia di fisica che di biologia che chimica. Forse, non potendo puntare sulla massima qualita' per mancanza di risorse, molti ricercatori in Italia puntano di piu' alla quantita'.

 Non so se la spiegazione del dato statistico e' questa, ma sicuramente per equiparare le risorse dei vari paesi non basta normalizzare al numero di ricercatori, bisogna anche valutare quali sono le risorse messe a disposizione di ciascun ricercatore e anche in queste tra, ad esempio, Italia e Gran Bretagna c'e' una disparita' enorme.

 

Non credo che in Italia la Fisica, e specialmente la Fisica delle alte energie, sia sottofinanziata.

 

Nel mentre che in tutto l'orbe terracqueo ci si affanna a capire come mantenere in piedi la ricerca scientifica per il PIL delle nazioni, qui da noi si discute di come erodere il già poco PIL che si produce per distribuirlo nientemeno che alla CULTURA, che per Napolitano sarebbe poi Kultur cioè sapere che crea identità e memoria...il che lo capiamo bene, vivendo lui in un museo per il quale tutti gli italiani pagano il biglietto, anche se lo può visitare solo una persona ogni 7 anni.

E così l'Obama de noartri, che ai tempi dell'invasione sovietica dell'Ungheria, era già una felice e lungimirante promessa della nostra generosa storia politica nazionale (applaudendo i sovietici) adesso è qui a commentare con la bonarietà di un Babbo Natale la cronaca spicciola, sempre tra il garrire di enormi tricolori e l'eco di aggettivi che usa ormai solo lui.

Il nostro solleva alti lai contro i tagli alla cultura e premia, come rappresentante della stessa, Matteo Garrone, regista del film Gomorra. Repubblica, che ormai ha la credibilità dei tazebao appesi nei muri di Roma, non ci dice nulla di come la Napoli di Gomorra sia stata l'incubatrice politica dove Napolitano ha mosso e muove tutt'ora i suoi pesanti passi....piuttosto è tutto un fiorire di battutine e gag che dimostrano la commossa e partecipata e sentita vicinanza del Presidente alla cultura.

Ma la mia domanda è questa: se la presidenza della repubblica ha un ruolo, diciamo così, di serena celebrazione delle istituzioni, convinta di risolvere i problemi stando a sentire una trafila di storie comuni facendoci poi il tema dopo le vacanze, perchè non vendiamo il quirinale compriamo una slitta, 4 renne e mandiamo il presidente in giro, a dare buffetti ai buffoni?

Dico. Quanti consiglieri, cavalieri, granducati, cavalierati, dame e insigniti onore(de)ficienti attorniano i presidenti della Repubblica? Ebbe, dopo tutto questo scialo, l'unica cosa che il Presidente della Repubblica produce è quest'aria fritta che neanche mio nonno si sognerebbe di proferire? Ma non ce li ha gli studiosi che lo consigliano? E lui non potrebbe dare un indirizzo più marcato, dicendo quello che pensa? Oppure la sua opinione e sempre la media fra quanto detto da destra e sinistra?

 

 

Segnalo un'elaborazione del Gruppo di Genetica Molecolare del Dipartimento di Biologia dell’ Università di Roma “Tor Vergata” che ha svolto una serie di studi relativi alla valutazione del sistema universitario, pubblicata su pubblico ergo sum. Sono interessanti i risultati  in cui i risultati del CIVR sono confrontati con analoghe analisi effettuate usando Google Scholar, ottenendo una eccellente correlazione (ad un costo enormemente inferiore!).

Aggiungo che ritengo che Google Scholar sia in realta' piu' attendibile del CIVR, perche' (con approssimazione) cattura la produzione scientifica totale e non una piccola selezione che nel caso del CIVR e' stata effettuata con criteri disomogenei dai singoli Atenei, anche perche' in assenza di criteri chiari e trasparenti su come i titoli sarebbero stati valutati.

 

 

Domanda per gli addetti ai lavori:

Quanto sono affidabili i software come Google Scholar, Publish or Perish ed altri nell'evitare double counting nel caso di pubblicazioni piu' o meno identiche? Il problema mi sembra rilevante, soprattutto (ma non solo!) quando si includono nella lista i working paper (anche quelli "di alto profilo" tipo CEPR o NBER per intenderci, non solo quelli di dipartimento) e non ci si limita a giornali veri e propri con peer review.

 

 

Segnalo un appello per la raccolta di firme a favore della ricerca di base, elaborato principalmente da docenti di fisica. Si tratta di:

http://www.ricercadibase.it/

L'appello chiede di:

  1. ristabilire il finanziamento alla ricerca di base a livello adeguato, comparabile a quello dei nostri partner europei;
  2. premiare la competitività nella ricerca a livello internazionale;
  3. riformare i meccanismi di arruolamento, dando responsabiltà ai Dipartimenti e agganciando i finanziamenti ai risultati ottenuti nella RDB sulla base di una efficace valutazione;
  4. finanziare con borse di studio di durata e importo internazionalmente adeguati i corsi di laurea e di dottorato in ambito scientifico;
  5. evitare finanziamenti a pioggia, individuando un numero ristretto di sedi universitarie da coinvolgere nel progetto strategico e concentrando su di esse le risorse aggiuntive.

 

 

Fino a dieci anni fa il finanziamento pubblico della ricerca di base era diretto a fisica ed astrofisica per almeno i due terzi del totale. Non ho più voglia di fare questi conti, e di reperire i dati per farli. Mi piacerebbe sapere però se negli ultimi dieci anni il finanziamento globale di fisica ed astrofisica (compresa la pertecipazione a progetti ed istituzioni intrnazionali) è diminuito, (o piuttosto non è aumentato in proporzione al PIL). Sarebbe anche interessante capire gli effetti, sulla spesa pubblica per la fisica, dell'accorpamento dello INFM al CNR (la mia congettura è che abbia fatto aumentare le spese e diminuire l'efficacia degli interventi) e gli effetti della creazione dello IIT. Naturalmente c'è chi sostiene che lo IIT non si occupi di ricerca di base. Ma io non ne sono convinto, per lo meno per quanto riguarda la fisica della materia.

Ricordo di aver fornito macchinari alla missione italiana in Antartide nel lontano 1996. Vedo che stanno ancora facendo ricerche e non sono riuscito a connettermi al loro sito per vedere "cosa" stiano ricercando. La gente che sproloquia di come lo stato butti via soldi, che potrebbero essere investiti in cose più utili, senza essere informata non mi piace e non vorrei farne parte ma, in questo caso, la sensazione che sia così è piuttosto forte. Qualcuno conosce gli scopi di questa missione e saprebbe fugare questo mio dubbio ?

 

L'Italia ha una tradizione pluridecennale di ricerca in Antartide (e nell'Artico). Le missioni polari sono coordinate dal CNR e rientrano in un contesto di collaborazioni internazionali. Trovi gli scopi (ed il budget) della missione nel piano triennale 2008-2010 del Dipartimento Terra e Ambiente (vedi Progetto 2, pagine 41-43). Esiste una pagina sul sito CNR che descrive l'attivita` dei ricercatori in Antartide ed il sito ufficiale della base Concordia dove questa attivita` si svolge. Su quest'ultimo ci sono altri link che permettono di recuperare informazioni.

 

Per quello che ricordo - vado a memoria - uno degli scopi era valutare la quantità di elementi in funzione della profondità del ghiaccio. Per es., ricordo da una presentazione in un congresso, la correlazione fra esplosioni vulcaniche e quantità di certi elementi presenti nel ghiaccio. Ho un collega che partirà fra poco, se interessato provo a chiedere....

Non ho letto tutti commenti sull'articolo, ma vorrei fare una piccola considerazione. La produttività scientifica non ha un andamento lineare in funzione dei finanziamenti. Spesso serve una soglia minima per far partire qualcosa di significativo. Nella fattispecie, la produzione di articolo ad alto impact factor richiede sempre più strumentazione all'avanguardia, moderna, nuova e, ovviamente, costosissima. Ciò che voglio dire è che se uno ha a disposizione uno strumento "della madonna", costosissimo (milioni di euro), e che pochi al mondo hanno, è quasi garantita una pubblicazione di ottimo livello.

Chi invece deve giocare con quello che ha, spesso "rusca" di più e pubblica ad un livello più basso. Non necessariamente è sempre così, ma in campo scientifico si verifica sempre più.