Puntualizzazioni pedanti su liberismo e sinistra.

/ Articolo / Puntualizzazioni pedanti su liberismo e sinistra.
  • Condividi
Non ho molto da aggiungere all'infinito dibattito su cosa è la sinistra, cosa è la destra e cosa è il liberismo che è seguito alla pubblicazione del libro di Alesina e Giavazzi. Però in questo dibattito si tendono a volte a dare per scontate cose che non sempre lo sono. In questo post provo a chiarire alcune di queste questioni.

 

 

Per quel che ho capito il libro

di Alesina e Giavazzi è un tentativo di influenzare il dibattito politico

italiano corrente e le politiche effettivamente attuate dal governo italiano in

carica. Credo vada valutato come tale, senza richiedergli cose che non

promette. In particolare, il libro non è un trattato filosofico ad ampio raggio

o un tentativo di ridefinire alla radice cosa sono la sinistra e il

liberalismo.

 

Il dibattito che ne è seguito, anche su questo sito, ha però spesso 'sforato', toccando temi

più fondamentali. È su questo aspetto del dibattito (che ha poco a che fare con

il libro di Alesina e Giavazzi) che mi voglio concentrare. Nello specifico,

questo post è strettamente di speculazione teorica e filosofica; non venite qui

a cercare argomenti per la battaglia politica quotidiana a favore o contro la

tesi che 'il liberismo è di sinistra'. Voglio solo correggere alcune

affermazioni fatte un po' alla leggera, ricordando alcuni risultati che sono

apparsi nella teoria delle scelte sociali nell'ultimo mezzo

secolo.   

 

Premessa: i filosofi, i

politici e i gatti di Deng Xiao Ping. C'è una certa differenza tra il modo in cui come scienziati sociali

valutiamo il significato stesso dei termini 'sinistra' e 'destra' e il modo in

cui tali termini vengono percepiti nel dibattito politico quotidiano, in

particolare da chi fa politica in modo attivo. Gli economisti aderiscono quasi

senza eccezione, esplicitamente o (molto più spesso) implicitamente, a una

visione morale consequenzialista. Rimando a questo link per una spiegazione del consequenzialismo migliore di quella che posso

dare io. Ma se devo riassumere in forma brutale, facendo inorridire gli amici

filosofi che ci leggono, direi che il consequenzialismo afferma che la

desiderabilità delle decisioni che prendiamo va valutata unicamente guardando

alle conseguenze che tali azioni producono, e non all'azione in quanto tale.

Quindi, per esempio, può essere perfettamente giusto mentire se dire la verità

può causare morte e distruzione. La parabola dei gatti di diverso colore di

Deng Xiao Ping descrive alla perfezione questo punto di vista.

 

In politica economica questo

significa che la bontà di un provvedimento può essere giudicata solo guardando

ai suoi effetti su variabili come la crescita, la distribuzione del reddito o

quant'altro venga ritenuto rilevante. Per un consequenzialista 'essere di

sinistra/destra' può solo significare avere differenti preferenze riguardanti

il risultato finale delle politiche pubbliche. Per esempio, se per comodità di

esposizione diciamo che essere di sinistra significa essere rawlsiano allora una politica è buona se aumenta il

benessere di quelli che stanno peggio ed è cattiva altrimenti. Chiedersi se il

liberismo (o la proprietà pubblica delle imprese, o qualunque altra politica) è

di destra o di sinistra semplicemente non ha senso, è un po' come chiedersi se

un orologio o una bottiglia sono di destra o di sinistra. 'Di sinistra' possono

essere solo le conseguenze, non gli strumenti con i quali tali conseguenze sono

ottenute. Una persona di sinistra (più precisamente, un rawlsiano) adotterà

politiche liberiste se queste aumentano il benessere dei più svantaggiati e non

le adotterà altrimenti. Il colore del gatto è totalmente irrilevante rispetto

alle conseguenze che lo sguinzagliamento del gatto permette di ottenere.

 

Il punto di vista

consequenzialista, per quanto popolare tra gli economisti, non è universalmente

accettato. Per esempio ci sono persone che ritengono moralmente ripugnante il

fatto che la gente lavori e operi unicamente per trarre un tornaconto materiale

dalle proprie azioni, e ritengono quindi la proprietà pubblica intrinsecamente

superiore dal punto di vista morale. Anche se raramente esplicitato in forma

così netta, tale modo di ragionare pervade non solo vasti settori della

sinistra politica o della destra corporativa ma si può rintracciare, per

esempio, nei rantoli di Tremonti sul 'ritorno ... a una visione della vita meno

materiale e più spirituale'. Dall'altro lato, molto spesso gli aderenti alla

destra libertaria (o al libertarismo senza addizionali qualificazioni)

ritengono che l'autonomia individuale e la libertà dalle costrizioni della

collettività siano valori in sé, da difendere indipendentemente dalle

conseguenze che essi generano. Questo punto di vista è anch'esso incompatibile

con una visione strettamente consequenzialista (tornerò su questo tema alla

fine del post).

 

È presumibilmente alla gente che

ragiona in questo modo che Alesina e Giavazzi cercano di rivolgersi. Come

economisti mainstream, essi sono consequenzialisti. Sanno però che nella

sinistra politica italiana molte persone non lo sono, e badano più agli

strumenti che ai risultati. Si sono quindi buttati nell'impresa di convincere

costoro che i mezzi contano meno dei fini.

 

Per completare la discussione di

questo punto, credo sia opportuno notare che ben poco di quanto detto sopra ha

molta rilevanza pratica dal punto di vista delle scelte politiche effettive dei

vari gruppi sociali. Alla fine della fiera la gente si schiera in base ai

propri interessi, più che in base a qualche astratto ideale di giustiza. Se i

termini 'destra' e 'sinistra' vengono usati per indicare le coalizioni

socio-politiche che si cristallizzano in un dato paese, tali termini possono

rapidamente perdere gran parte della relazione con l'originario significato

filosofico del termine. Per cui, ad esempio, è possibile vedere forze politiche

di destra difendere a spada tratta sistemi di licenze e concessioni che sono

l'esatto opposto del liberismo. Oppure forze politiche di sinistra che

difendono un sistema di finanziamento dell'università che è nei fatti assai regressivo.

Ma di questo preferirei non parlare in questo post, che vorrei invece riservare

unicamente a questioni teoriche.

   

Nel resto del post assumerò un punto di vista consequenzialista e cercherò di

chiarire alcuni punti che a mio avviso sono risultati un po' confusi nel

dibattito. Per essere precisi assumerò che essere di sinistra significa avere

preferenze sociali rawlsiane nella versione popolarizzata dai teorici economici

(e non presente, per quel che mi è dato ricordare, in A Theory of Justice), ossia W=min{U_1,...,U_n} (vuol dire solo

che l'unica cosa che conta è l'utilità del più povero). Per favore, non

obiettate che tali preferenze sono irrealistiche; è cosa nota, servono solo per

semplificare l'esposizione e rendere il discorso più trasparente. Tutti gli

argomenti che seguono possono essere adattati a funzioni più generali che

abbiano la proprietà di assegnare all'utilità di chi sta peggio un peso

maggiore di quello assegnato all'utilità di chi sta meglio.

    

Rawls, la sinistra e la disuguaglianza. Restiamo quindi nel regno della

filosofia e proviamo a rispondere alla seguente domanda: come dovrebbe

giudicare una persona di sinistra (nel senso di rawlsiano) una politica che

favorisce l'aumento della disuguaglianza? Molti danno per scontato che tale

politica non può essere di sinistra; per esempio Asoni e Mele su Epistemes  hanno usato esattamente questo

argomento per sostenere che il liberismo non può essere di sinistra in quanto

genera un aumento della disuguaglianza sociale. Ma non è affatto ovvio che le

cose stiano così. Il test fondamentale non è se una politica aumenta la disuguaglianza,

ma se una politica aumenta il benessere degli ultimi. L'appropriato correlato

empirico da guardare per stabilire se una politica è di sinistra è quindi il

valore assoluto del reddito, che so, dell'ultimo percentile. Il coefficiente di

Gini può andar su quanto gli pare; se a quelli che sono alla coda sinistra

della distribuzione arrivano più soldi, allora la politica è di sinistra.

 

Un semplice esempio dovrebbe

chiarire il concetto. Supponiamo che in una società vi siano 100 contadini. La

distribuzione iniziale della proprietà è perfettamente egalitaria: ognuno ha un

pezzo di terra identico e ne ricava 10 euro l'anno; il PIL di questa

mini-economia è quindi 1000 euro. Sarebbe possibile raddoppiare la produttività

dei terreni mediante bonifiche e costruzione di canali per l'irrigazione, ma

finché la proprietà resta dispersa tali opere non vengono attuate (per i

fanatici del teorema di Coase: supponete che non esista un adeguato sistema

legale e che i costi di transazione di raggiungere un accordo siano molto

alti). A questo punto un contadino particolarmente intraprendente trova

finanziamenti da una banca d'investimento e propone agli altri contadini di

vendere a lui la terra e farsi assumere come braccianti per 11 euro l'anno.

Essendo agenti razionali gli altri contadini accettano. Dopo le opere di

irrigazione e bonifica il PIL è salito a 2000 euro. Ci sono 99 braccianti che

guadagnano 11 euro ciascuno, per un totale di 1089 euro. Il rimanente

contadino, quello intraprendente, è diventato un ricco signorotto e si becca

invece 2000-1089=911 euro. Se sei persona di sinistra, come devi giudicare tale

cambiamento? La società è molto più diseguale, ma per un rawlsiano questo non è

un problema. Gli ultimi hanno migliorato la loro posizione, guadagnano 11 euro invece

di 10, e questo è tutto ciò che conta.

 

Come esempio più pratico, si

pensi a una proposta di liberalizzazione del mercato del lavoro. Dovrebbe

essere una tale misura favorita da una persona di sinistra? La risposta è 'no'

se la liberalizzazione non crea nuova occupazione e riduce il salario dei

peggio pagati, ma è invece 'si' se la liberalizzazione favorisce una espansione

dell'occupazione, permettendo ai disoccupati di trovare lavoro e quindi

facendone aumentare il benessere. In particolare, anche se la liberalizzazione

induce una maggiore dispersione dei livelli salariali e quindi un aumento della

disuguaglianza, essa dovrebbe comunque essere sostenuta da una persona di

sinistra se permette un aumento del reddito di chi è attualmente disoccupato.

 

Essere egualitarista è

equivalente ad essere rawlsiano in un importante caso particolare, ossia quando

la quantità di risorse presenti nella società è fissa e non dipende dalle

decisioni sociali intraprese. In tal caso è ovvio che la massimizzazione del

benessere degli ultimi si ottiene distribuendo in modo egualitario le risorse.

Ma se la decisione di distribuire ugualmente le risorse fa sì che la quantità

totale di risorse decresca, ad esempio perché riduce gli incentivi al lavoro,

allora non è affatto ovvio che un rawlsiano debba essere a favore

dell'egualitarismo.

    

Disuguaglianza statica e dinamica. Ma assumiamo pure che la persona di

sinistra si debba preoccupare della disuguaglianza in quanto tale. È giusto

considerare misure statiche di dispersione del reddito per valutare la

disuguaglianza presente in una società? Anche questo non è ovvio.

 

Un minimo di buon senso

suggerisce che l'unico modo sensato di valutare il benessere degli individui è

quello di guardare all'utilità attesa lungo l'arco della vita. Consideriamo il

seguente esempio. Compariamo una società in cui esiste un solo tipo di lavoro,

il cameriere, che paga 10 euro l'anno. La gente vive due anni e l'utilità

sull'arco della vita è data dalla somma dei redditi nei due periodi, quindi 20

euro (al solito, tutte ipotesi che servono solo per semplificare e di cui si

può fare a meno). In tale società viene introdotto un nuovo mestiere, il

professore di economia. Per esercitare tale mestiere occorre passare il primo

anno facendo lo studente di dottorato, guadagnando zero. Nel secondo periodo

arriva l'agognata cattedra e il salario sale a 20 euro; una frazione della

popolazione decide di intraprendere questa carriera. Come devono reagire un

rawlsiano o un egualitarista a questo cambiamento? La risposta è che entrambi

dovrebbero essere indifferenti. Se guardiamo all'utilità sull'arco della vita,

questa resta immutata e uguale per tutti a 20 euro. Non esiste diguaglianza né

prima né dopo l'introduzione della nuova opportunità di lavoro. Ma cosa succede

se adesso calcoliamo il coefficiente di Gini separatamente nei due periodi?

Quando si può solo fare il cameriere l'indice è zero. Dopo l'apparizione di

studenti e professori invece l'indice è strettamente positivo nei due periodi.

Un osservatore esterno che guarda tale indice conclude quindi che la comparsa

dei professori coincide con un aumento della disuguaglianza. Sappiamo invece

che non è così.

 

Qual è il problema? Il problema è

che l'indice di Gini è un valore interessante solo quando la società è stazionaria

e manca la mobilità sociale. Se invece un aumento della disuguaglianza nel

periodo corrente si accompagna a un aumento delle opportunità di mobilità verso

l'alto, soprattutto per le classi più basse, allora tanto un rawlsiano come un

egalitarista non dovrebbero preoccuparsi. Queste considerazioni suggeriscono

che una persona di sinistra dovrebbe preoccuparsi più di allargare le

opportunità per gli ultimi che di redistribuire le risorse esistenti. Il

correlato empirico più importante che bisognerebbe guardare è la probabilità

che un membro dell'ultimo decile della distribuzione possa muoversi nei decili

superiori. Il livello di diseguaglianza corrente è invece di importanza

secondaria.

    

Pareto efficienza e libertà personale. Quando si parla di liberalismo o

liberismo si ha spesso in mente la definizione di un insieme di decisioni in

cui l'individuo ha piena sovranità, relativa per esempio all'uso dei beni di

cui si è acquisita la proprietà. La società non può e non deve violare tale

sfera, a pena di essere tacciata di illiberale.

 

Fin qui, tutto bene. Occorre però

essere coscienti che l'istituzione di sfere decisionali private ha conseguenze

importanti sull'insieme delle decisioni sociali che possono essere intraprese,

e come tale non è interamente compatibile con il consequenzialismo. Nella

discussione svolta su questo sito si è dato per scontato che il liberalismo sia

sempre compatibile con l'efficienza Paretiana. Sappiamo invece dal lavoro di

Amartya Sen (Journal of Political Economy, febbraio 1970) sull'impossibilità del liberale Paretiano che non è così. Questo tipo di paradosso

tende ad apparire quando esiste interdipendenza tra le decisioni degli agenti,

ossia quando l'utilità di un agente dipende direttamente o indirettamente dalle

decisioni di altri. Ci sono vari esempi, e voglio concludere questo post proponendone uno

io. Consideriamo una società in cui si possono consumare solo tre beni:

tagliatelle al ragù, pasta al pomodoro e cure mediche. Tutti preferiscono le

tagliatelle al ragù alla pasta al pomodoro, ma tale delizioso cibo ha la

sfortunata conseguenza di far aumentare il colesterolo, richiedendo quindi

costose cure mediche. Ovviamente tutti preferiscono essere sani che

essere malati.

 

Imponiamo su tale società la

regola liberale secondo cui ciascuno ha diritto di scegliere liberamente cosa

mangiare senza essere visto dagli altri (che sembra essere un requisito

abbastanza debole). Qual è l'equilibrio in tale società? Tutti mangiano le

tagliatelle al ragù e l'assicurazione medica costa parecchio perché il livello

medio di colesterolo è alto. Non è possibile ottenere un'assicurazione medica a

prezzo più basso promettendo di mangiare pasta al pomodoro, perché il principio

liberale impedisce di ficcare il naso nelle scelte alimentari individuali.

 

Ma supponiamo ora che il

principio liberale venga violato e che la società bandisca le tagliatelle al

ragù. Qual è il nuovo equilibrio? Il punto cruciale è che ora la gente è

costretta a mangiare pasta al pomodoro e quindi il costo medio

dell'assicurazione scende. Per opportuni valori dei parametri, il calo di

prezzo dell'assicurazione più che compensa la perdita di utilità che di soffre

passando dalle tagliatelle al ragù alla pasta al pomodoro. Quindi, un

miglioramento paretiano viene raggiunto solo grazie alla violazione del

principio liberale.

 

Quanto è rilevante il risultato?

Questa è ancora un'area attiva di ricerca (si veda per esempio qui). Forse in pratica è rilevante, forse no; almeno a giudicare dall'ardore

forsennato con cui tante politiche proibizioniste vengono perseguite (non per

le tagliatelle al ragù, per fortuna), un buon numero di persone sembra essere

convinta della rilevanza pratica del paradosso. Ma, alla fine, qui della

rilevanza pratica ci importa poco. Il punto teorico fondamentale resta, e

questa è l'unica cosa che interessa in questo post.

 

Indietro

Commenti

Ci sono 43 commenti

Una domanda sul teorema di impossibilità del liberale paretiano. Il teorema afferma (roughly speaking) che non è possibile avere politiche liberali e Pareto-efficienza. Dai miei pochi studi microeconomici, ricordo che la Pareto-efficienza e l'equità sono però due cose diverse: un'allocazione efficiente può essere iniqua, e un'allocazione equa può non essere efficiente.

Possiamo allora trarre la conclusione che esiste in teoria un'allocazione "liberale" ed equa, ma non efficiente?

Se questa allocazione fosse possibile, allora sì che il liberismo sarebbe di sinistra.

Ettore, il 'liberal paradox' di Sen dice una cosa un po' diversa, che provo a riassumere come segue.

Supponiamo che le preferenze degli individui su un insieme di decisioni sociali siano arbitrarie (il ché in particolare significa che esternalità positive o negative sono possibili).

Allora è impossibile trovare un sistema di preferenze della società che a) soddisfino un requisito minimo di libertà individuale, (la società deve preferire allocazioni in cui gli individui scelgono liberamente su un certo dominio) b) classifichino allocazioni pareto efficienti più in alto di allocazioni che non lo sono

È un risultato in linea con il venerando teorema di impossibilità di Arrow, nel senso che mostra come l'imposizione di una serie di requisiti apparentemente tutti desiderabili porta a contraddizioni logiche al momento di formulare un sistema coerente di preferenze collettive. Il paradosso è ovviamente molto importante in filosofia e scienza politica. Lo è un po' meno in economia, dove spesso si assume che il consumo privato non genera esternalità.

L'equità e la Pareto efficienza sono ovviamente due concetti distinti che nulla hanno a che vedere. Il suggerimento che forse il liberalismo non è incompatibile con l'equità, mentre è incompatibile con la Pareto efficienza, è interessante, ma non ho la minima idea se sia vero. Good topic for a paper, though. 

In ogni caso non mi spingerei a dire che questo renderebbe il liberismo di sinistra. Dipende ovviamente da cosa intendiamno per sinistra, ma un rawlsiano non dovrebbe essere contento con un'allocazione equa se c'è ne una efficiente che magari non è equa ma far star meglio l'ultimo.

Quando leggo post come questi, i miei "dubbi" (ne sa qualcosa Andrea Moro...) su NFA vengono spazzati via.

Altro che puntualizzazioni pedanti. Voglio ringraziare pubblicamente Sandro Brusco per questa sintesi. Sono gli argomenti che inseguo da tre anni all'università... Sono commossa.

Ora la mia domenica ha più senso. E non è poco.

Saluti 

Domanda 1: cosa comporta la violazione dell'ipotesi che nessuno possa sapere cosa mangiano gli altri? (ci posso arrivare anche da solo, ma non mi azzardo a mostrare tutta la mia pochezza).

Domanda dell'ignorantone numero 2: ma in un mondo in cui c'è domanda altissima di cure mediche e quindi prezzo alto dell'assicurazione, non c'è un incentivo per gli agenti ad offrire cure mediche? Anche così il costo dell'assicurazione scende, e tutti continuano a mangiare il ragù. 

Beh, se la compagnia di assicurazione può installare (con il mio consenso) telecamere nella mia cucina allora posso impegnare a non cedere ai miei bassi istinti in cambio di un premio assicurativo più basso. Tale decisione sarebbe perfettamente liberale, dato che le telecamere verrebbero installate solo con il mio consenso. L'esempio nel post assume che tale tecnologia non esista.

Sulla domanda due: l'esempio assume che il mercato assicurativo sia concorrenziale e che i premi siano fair. Il punto è che in un mondo in cui le tagliatelle sono liberamente disponibili il costo medio dell'assicurazione è più alto, perché le arterie si occludono più frequentemente. Se unilateralmente decido di mangiare più sano non beneficio di alcuna riduzione dei premi, perche' la compagnia assicurativa non mi crede (ne beneficiano ovviamente le mie arterie, ma l'ipotesi è che senza un'ulteriore risparmio assicurativo questo non sia sufficiente a farmi smettere). Bandire le tagliatelle invece riduce il costo medio dell'assicurazione, e in un mercato concorrenziale tale riduzione di costi si traduce in un risparmio degli assicurati.

 

Sandro, solo per dire che nel nostro articolo noi diciamo chiaramente (almeno mi pare, ma potrebbe non essere cosi') che la nostra definizione di "sinistra" sta a significare "ridurre al minimo le disuguaglianze per ogni t". Questa e' la definizione secondo me piu' calzante. Anche perche' se chiedi in giro (noi forniamo due fonti diverse di "chiedere in giro", giusto per essere sicuri), a sinistra e' questo che vogliono: la disuguaglianza e' ingiusta per ogni t, ergo va minimizzata per ogni t. Per ogni t, il ricco deve prendere parte dei profitti della sua societa' finanziaria e darli agli homeless.

"Nanetto". Una volta Xavi Sala-i-Martin disse a lezione: "non capisco perche' la gente si ostina a voler ridurre la disuguaglianza... mentre mi trovano d'accordissimo sulla riduzione della poverta' (e la crescita economica questo produce, basta vedere Cina e India), non capisco perche', se Bill Gates e' moooolto piu' ricco di me io dovrei volere i suoi soldi..." Gelo in aula. I commenti piu' teneri che ho sentito sono stati: e' un fascista, ipocrita, non gliene frega niente dei poveri, e similia. Prova ad indovinare come si definivano questi commentatori?

Mah, non so se a sinistra (in tutta la sinistra) vogliano solo "quello" (che penso di poter sintetizzare così, da quanto scrivi: "la disuguaglianza è ingiusta sempre, quindi va minimizzata sempre". Poi si potrebbe anche proseguire: "w l'eguaglianza dei risultati, no all'eguaglianza delle opportunità, che invece le diseguaglianze le implica eccome"). 

Se può tranquillizzare, molti trenta/quarantenni (e anche ventenni, via: me compresa) nei vari pensatoi affiliabili alla sinistra "riformista" hanno studiato autori come Rawls e si riconoscono sempre più in un frame consequenzialista, per dirla alla S.B.

Non è generalizzabile, estendibile a tutta la sinistra l'atteggiamento pietistico-compassionevole, "cattolicoso" di avversione verso i ricchi e di ammmmmòòre verso gli homeless...

Mi scuso se sono andata un po' fuori tema, visto che il pezzo di S. B., come lui stesso specifica nella premessa, si mantiene fuori dalla battaglia politica quotidiana. Ma volevo fare questa precisazione.

Salut 


quindi a voler portare alle estreme conseguenze la tua visione della sinistra, antonio, una persona di sinistra sarebbe ben contenta di rendere tutti più poveri se questo permettesse di diminuire la disuguaglianza, ma non sarebbe assolutamente disposta a far stare meglio i meno abbienti se questo significasse far stare molto più meglio i ricchi, giusto? Ma ti sembra sensato?

Complimenti per il post.

Per amor di discussione, segnalo un'altra lettura, più o meno in argomento (argomento disuguaglianza, intendo):

http://krugman.blogs.nytimes.com/2007/09/18/introducing-this-blog/

edit: una replica a Krugman si trova qui:

http://www.marginalrevolution.com/

 

Quindi il tuo ragionamento è questo. Osservo la politica italiana degli ultimi ventanni e ne deduco che le preferenze delle persone di sinistra sono assolutamente insensate. Potrei anche darti ragione in questo. Però ti si potrebbe contestare che dedurre dal comportamento di politici, che rispondono a miliardi di incentivi oltre alle preferenze degli elettori, il sistema etico morale degli elettori stessi è piuttosto difficile. Potrebbe essere che le politiche siano state quelle che sono per miliardi di altri motivi. Per determinare cosa sia sinistra è più sensato tentare di fissare teoricamente uno o più obiettivi da raggiungere e quindi decidere quali sono le migliori poltiche attuabili per raggiungere tali obiettivi. Decisamente la sinistra che hai in mente tu è una sinistra insensata. Il prof brusco ha semplicemente puntualizzato come teoricamente si possa essere di sinistra e volere poltiche liberiste; e mi sembra abbia usato una definizione di sinistra più sensata di quella che usi tu. Non so se il prof brusco sia o meno di sinistra, quello che è sicuro è che riconosce che possa esistere una posizione di sinistra sensata; non mi sembra che tu faccia lo stesso. Tutto qua.

la sinistra (intesa in senso culturale e identitario) che ho in mente io e' quella che viene fuori guardando i dati delle surveys demoscopiche (se vuoi vedere i dati, guarda che sono linkati nell'articolo di sandro, dove dice Asoni e Mele su Epistemes). Che e' insensata lo suggerisci tu, e io ti do ragione. Di nuovo: non e' colpa mia se la pensano cosi', e' inutile che mi dici che la mia visione della sinistra e' insensata. Se e' per questo, io guardo a coloro che si riconoscono nella destra sociale e dico: ma questi sono socialisti. Di nuovo, se loro hanno idee insensate, non e' colpa mia, io mi limito a fare notare la cosa.

I politici hanno mille motivi per implementare le politiche, ma quando settano (e mantengono per decenni sostanzialmente invariato) un sistema di welfare state come il nostro sono le visioni del mondo che contano, e sono state proprio quelle cattolica "di sinistra" (i cattocomunisti per intenderci) e la cultura socialista-comunista a forgiare il welfare state italiano. Di nuovo: io mi limito a registrare un fatto.

Per quanto riguarda i concetti espressi da Sandro: tutte cose di buon senso, chiaro. Ma non vedo perche' tali considerazioni implichino che la sinistra dovrebbe essere liberista, given i nuovi obiettivi sensati stabiliti da sandro.

Il primo: un mercato del lavoro piu' flessibile molto probabilmente farebbe scendere il salario dei lavoratori meno skilled, perche ora la gran parte di loro sono protetti dal contratto collettivo sindacale che lo tiene artificialmente alto. Piu' in generale, sono propenso a ritenere che in un mondo liberista gli homeless non scompaiano. 

il secondo: dobbiamo guardare alla probabilita' che chi sta nel primo decile si sposti negli altri nove. Benissimo: ma il liberismo non massimizza questa probabilita'! anzi a priori non saprei proprio dire che succede a quella probabilita'. 

Per determinare cosa sia sinistra è più sensato tentare di fissare

teoricamente uno o più obiettivi da raggiungere e quindi decidere quali

sono le migliori poltiche attuabili per raggiungere tali obiettivi.

Decisamente la sinistra che hai in mente tu è una sinistra insensata.

Purtroppo non l'ha solo in mente Antonio: e' un dato sperimentale. Come commentavo giorni fa, ci sono anche ragioni biologico-evoluzioniste per l'esistenza di posizioni di questo tipo (cosi' come per altri comportamenti che vanno contro all'interesse generale, e per l'esistenza della schadenfreude). L'ultima variazione sul tema, in ordine di tempo, e' stata la sinistra ambientalista: siccome non e' piu' sostenibile che politiche egalitarie funzionino anche solo nell'interesse dei meno abbienti, parte della sinistra ora esagera le esternalita' negative dello sviluppo, e gente come Mauro Bonaiuti e Paolo Cento chiede la "decrescita"... Se li sentisse, il Marx del "Manifesto del partito Comunista", che considerava la rivoluzione borghese come positiva premessa di quella proletaria, si rivolterebbe nella tomba.

Allora Rabbi, vediamo di capire una volta per tutte quello di cui stiamo parlando. Parafrasando un po' tu dici "le persone che oggi qua in Europa si dichiarano di sinistra dicono così e cosà, quindi sinistra si definisce come così e cosà; in particolare, la sinistra è fatta di pazzi pavloviani che iniziano ad abbaiare rabbiosamente appena sentono le parole 'disuguaglianza' e 'liberismo'". Questo è un modo di argomentare che va bene per il dibattito politico corrente (in verità forse sarei un pelino più ottimista, non di tanto, su come la pensa in media l'elettorato di sinistra; però sto divagando, non è questo il punto), ma che non funziona se cerchiamo di dare una definizione in termini di filosofia politica, che è quello che ho cercato di fare nel post.

Fammi fare un esempio. Anche senza fare sondaggi, spero mi concederai che l'elettorato di destra in Europa è in stragrande maggioranza ferocemente in favore del proibizionismo. Non la destra sociale-corporativa (fascista a quanto pare non si dice più), non la destra democristiana. TUTTA la destra. I quattro gatti spelacchiati della destra antiproibizionista sono addirittura meno dei Sandro Brusco sulla sinistra. Se applichiamo il tuo criterio definitorio, concludiamo quindi che il proibizionismo è di destra. È una definizione utile? Si, se guardiamo alla battaglia spicciola corrente; in particolare, se promuovere azioni immediate antiproibizioniste per te è importante, questo fatto ti suggerisce che nell'Europa di oggi gli alleati te li devi cercare soprattutto a sinistra.

Però c'è un altro senso in cui invece affermare che il proibizionismo è di destra è sbagliato. Ci basta infatti leggere Milton Friedman per trovare argomenti cristallinamenti di destra contrari al proibizionismo. Pertanto se cerchiamo una definizione più fondamentale di cosa significa essere di destra dal punto di vista della filosofia politica dobbiamo riconoscere che è almeno possibile essere di destra e antiproibizionista (stesso identico discorso ovviamente si applica ai diritti degli omosessuali o ad altre cause che sono molto malviste dal popolo della destra).

Il mio punto è semplicemente che se dobbiamo chiarirci questioni concettuali di base, non possiamo che rifarci a principi e argomentazioni astratte che prescindono da come tali principi sono più o meno bene interpretati dalle forze politiche che, in un dato periodo e paese, affermano di ispirarsi a essi.

D'altra parte, se ci mettiamo a definire i termini 'sinistra' e 'destra' in termini statistici ('essere di destra vuol dire questo e questo perché chi dice di essere di destra afferma di volere questo e questo') allora non abbiamo altra scelta che restringere drammaticamente il campo d'analisi, rinunciando a qualunque definizione di carattere generale, visto che in paesi e tempi diversi sinistre e destre hanno sostenuto politiche contraddittorie. È vero, per esempio, che gran parte della sinistra politica europea rifiuta aprioristicamente politiche che possono aumentare la disuguaglianza. Ma ovviamente è anche vero che nientepopodimeno che il partito comunista cinese ha avviato importanti liberalizzazione economiche, perfettamente cosciente che questo avrebbe aumentato la disuguaglianza nella società cinese.

Come ho detto nel post, vorrei evitare il dibattito se il liberismo è di destra e di sinistra. Ho spiegato che a mio avviso la questione è essenzialmente priva di senso. E per ribadire: come non penso che essere di sinistra debba meccanicamente significare essere contrari al liberismo, così non penso che debba necessariamente significare essere a favore.

Non prendiamo troppo sul serio il titolo del libro di Alesina e Giavazzi; i due hanno voluto lanciare un sasso in piccionaia e costringere la sinistra politica italiana a scuotersi un poco dal suo torpore e tornare a ragionare, non credo intendessero rifondare filosoficamente il liberismo o la sinistra. A prima vista non mi sembra che ci siano riusciti. Il libro è stato commentato da economisti e intellettuali vari, oltre che sui vari blog (abbastanza stupefacente la reazione rabbiosa di tanti bloggers di destra; non dovrebbero essere contenti se la sinistra diventa liberista? boh), ma non ho visto molte reazioni dei politici del centrosinistra. O forse sono solo stato poco attento?

Sandro: no, il processo logico e' il contrario. Io do la definizione "obiettivo sociale-economico di sinistra =  ridurre le disuguaglianze per ogni t", basandomi su varie fonti, dalla filosofia politica ai fenomeni culturali piu' in generale che si etichettano come "sinistra". Sostanzialmente, mi baso sulla concezione del se e perche' ci siano disuguaglianze e ingiustizie sociali, e se e come debbano essere eliminate, perche' fondamentalmente su quello si basano tutte le discussioni di tipo astratto-filosofico (compreso Rawls, che essenzialmente dice che una societa' e' ingiusta se non si occupa degli ultimi nella scala sociale). Stiamo dando una definizione diversa: tu ti basi su rawls, io mi baso su altre letture.

Dopodiche' controllo nei dati per vedere se effettivamente la mia definizione "fitta" le visioni del mondo dei cittadini. Per fare questo guardo a dati in diversi periodi, e vedo che tale riscontro e' positivo e stabile nel tempo. NON GUARDO alla politica contingente e alle proposte sul piatto, guardo alla identificazione identitaria delle persone, perche' e' la' che si sedimentano i concetti astratti di cui parli tu. Trovo che, piu' o meno, con qualche distinguo, la definizione fitta abbastanza.

Per venire al tuo esempio: ci sono delle posizioni dei cittadini su alcuni aspetti che e' difficile far rientrare nelle logiche identitarie di fondo sulle questioni economiche, molto probabilmente perche' si intrecciano altri motivi non socio-economici (religione, ecc.) che tale identita' definiscono in modo altrettanto forte. Ma qua parliamo di economia, quindi...

D'altra parte, se ci mettiamo a definire i termini 'sinistra' e

'destra' in termini statistici ('essere di destra vuol dire questo e

questo perché chi dice di essere di destra afferma di volere questo e

questo') allora non abbiamo altra scelta che restringere

drammaticamente il campo d'analisi, rinunciando a qualunque definizione

di carattere generale, visto che in paesi e tempi diversi sinistre e

destre hanno sostenuto politiche contraddittorie. È vero, per esempio,

che gran parte della sinistra politica europea rifiuta

aprioristicamente politiche che possono aumentare la disuguaglianza. Ma

ovviamente è anche vero che nientepopodimeno che il partito comunista

cinese ha avviato importanti liberalizzazione economiche, perfettamente

cosciente che questo avrebbe aumentato la disuguaglianza nella società

cinese.

Va pero' detto che il partito comunista cinese non si autodefinisce "di sinistra", dato che non e' un partito nel senso liberaldemocratico del termine (ossia espressione di una parte della societa'): in Cina, il partito si identifica con lo stato, ed e' precisamente per questo che mettere in dubbio la legittimita' del suo monopolio del potere e' considerato un atto eversivo. Il dibattito politico si svolge tutto al suo interno, e verte essenzialmente sulle scelte economiche (p.es. tradeoff tra sviluppo a manetta e stabilita' politica). I "leftists" (socialisti classici) esistono, ma sono attualmente in posizione nettamente minoritaria rispetto ai fautori del "market socialism" (liberismo economico), sia nell'accademia che tra i funzionari di partito. 

We are ready to accept almost any explanation of the present crisis of our civilization except
one: that the present state of the world may be the result of genuine error on our own part
and that the pursuit of some of our most cherished ideals has apparently produced results
utterly different from those which we expected....

 

That democratic socialism, the great utopia of the last few generations, is not only
unachievable, but that to strive for-it produces something so utterly different that few of those
who now wish it would be prepared to accept the consequences, many will not believe until
the connection has been laid bare in all its aspects.

 

Before we can progress with our main problem, an obstacle has yet to be surmounted.

A confusion largely responsible for the way in which we are drifting into things which nobody
wants must be cleared up. This confusion concerns nothing less than the concept of socialism
itself. It may mean, and is often used to describe, merely the ideals of social justice, greater
equality, and security, which are the ultimate aims of socialism. But it means also the
particular method by which most socialists hope to attain these ends and which many
competent people regard as the only methods by which they can be fully and quickly attained.
In this sense socialism means the abolition of private enterprise, of private ownership of the
means of production, and the creation of a system of "planned economy" in which the
entrepreneur working for profit is replaced by a central planning body ....

 

 

Rocco: di chi e' il pezzo? da dove e' tratto?

Faccio fatica a seguire alcune delle reazioni al post di Sandro. Mi sembra egli abbia chiarito aldila' di ogni ragionevole dubbio che non sta discutendo di cosa siano la sinistra e la destra oggi in Italia, Europa o anche mondo e nemmeno di quali siano i fondamenti ideologici dei partiti che storicamente di dichiarano di sinistra. In termini di divisione dei lavori, direi che questi temi si adattano piu' al post mio sul libro di A&G, e poco o nulla hanno a che fare con questo di Sandro (spero di non dare l'impressione di mendicare lettori ...).

Sandro sta facendo un ragionamento teorico su cio' che, a suo avviso, fonda e determina una politica "giusta" e, se leggo bene, di "sinistra". Se proprio volete parlare di politica corrente, sta proponendo una teoria sociale sulla quale (sempre secondo Sandro) la "sinistra" dovrebber fondare le proprie proposte politiche concrete. Poiche' mi sembra che di questa sua proposta Sandro vorrebbe discutere e non del fatto, abbastanza scontato, che Pecoraro Scanio, Bertinotti e tutti i loro soci sono dei piccolo-borghesi incompetenti e parassitari che odiano i poveri e la gente che lavora piu' in generale, provo a dargli una mano esprimendo alcuni dubbi.

Siccome ha messo molta carne al fuoco, in questo commento mi limito a Rawls. Il conseguenzialismo ed i teoremi d'impossibilita' alla Arrow di Sen li discutiamo un'altra volta, che sono temi ancor piu' delicati.

Accettiamo dunque la premessa che "essere di sinistra" = "essere rawlsiano" o, per lo meno, voler massimizzare una funzione di utilita' sociale in cui il benessere dei piu' poveri ha un peso molto maggiore del benessere dei piu' ricchi. Per le persone non familiari con il calcolo differenziale, questo vuol dire che, secondo tale criterio, un euro extra ottenuto dalla persona piu' povera e' importante per la societa' (politica) tanto quanto un numero molto grande (100? 1000? 1M?) di euro extra ottenuti dall'insieme delle persone piu' ricche. Tanto per fare cifra tonda prendiamo Euro 1M come valore di questo peso (nel caso "rawlsiano puro" il valore sarebbe infinito) e consideriamo una societa' composta da mille persone che, inizialmente, hanno i seguenti redditi, y(i): y(i) = 10 per i=1, e y(i) = 1000, per i =2, 3, ..., 1000. Insomma, il piu' povero ha 10, mentre tutti gli altri hanno 1000. Occorre scegliere fra la politica A e la politica B. La politica A fa crescere il reddito del piu' povero di 1 Euro mentre diminuisce quello delle altre 999 persone di 989 Euro. La politica B lascia le cose come sono. Siccome 989(x)999=988.011< 1.000.000, questo criterio implica che la politica A e' preferibile alla politica B. Ovviamente si raggiunge la stessa conclusione anche in molti altri casi; per esempio nel caso in cui la politica B, invece di lasciare le cose come sono, le cambia nel modo seguente: y(1) =9,5, y(i) = 1500, per i = 2, 3, ..., 1000.

Sandro suggerisce che tale criterio dovrebbe essere adottato dalla sinistra come metro per giudicare la bonta' o meno delle scelte politiche.

Non e' solo in questa scelta quindi, anche se a me il principio rawlsiano sembra intuitivamente suicida, credo non sia inutile provare a convincere Sandro, e le altre persone intelligenti che la pensano come lui, che il principio rawlsiano non e' solo "intuitivamente demenziale" (magari a me sembra cosi' perche' sono cattivo d'animo e non voglio bene agli sfigati) ma e' anche logicamente ed empiricamente insoddisfacente. Nel far questo mi baso sulla speranza che (almeno una) parte delle mie preferenze su quali siano le conseguenze "giuste" di scelte politiche coincidano con quelle di Sandro e di chi la pensa come lui: se tale intersezione non esiste il dialogo diventa inutile - la qual cosa spiega perche' ragionare con Bertinotti e Pecoraro Scanio non serve a nulla: le preferenze hanno intersezione vuota. Con Sandro sono invece andato qualche volta a cena ed anche al mare, quindi ho buone ragioni per pensare che con lui l'intersezione non sia vuota (prova: tifa per l'Inter ...). Per gli altri non so.

(1) Anzitutto, l'argomento svolto mi sembra solo provare che il rawlsiano non e' necessariamente egualitarista. In altre parole, l'argomento svolto suggerisce che in circostanze particolari un rawlsiano potrebbe accettare un incremento della diseguaglianza. Non prova nulla per quanto riguarda il liberismo: essendo il liberismo, nella visione suggerita, niente di piu' che uno strumento, questo sara' accettabile o meno a seconda che sia o meno strumentale all'aumento dell'utilita' del piu' debole. Quindi il rawlsiano e' sia liberista che anti-liberista, dipende. Se usiamo ora l'ipotesi (rawlsiano = sinistra) la transitivita' implica che sia il liberismo che l'antiliberismo sono di sinistra. Come fondamenti stabili andiamo malino ...

(2) L'argomento svolto suggerisce anche (la cosa si potrebbe formalizzare in modo esatto, come Sandro senz'altro sa, ma non mi sembra il caso di farlo qui a meno che non risulti necessario) che a fronte di un menu' di politiche diverse che siano pareto-efficienti e risolvano tutte il problema di massimizzare l'utilita' sociale attraverso l'investimento di una quantita' data di risorse (i vincoli di bilancio ci sono sempre, anche dinamicamente) la funzione di utilita' sociale rawlsiana ci portera' a scegliere sempre la politica piu' "egualitaria". [Nota tecnica: assumo utilita' concave e feasible sets convessi.]

(3) Il criterio rawlsiano non considera mai il vero "hic rodus hic salta" di tutti i dibattiti su giustizia, uguaglianza ed efficienza: l'endogeneita' del reddito. I redditi non cascano dal cielo come la manna (o le dotazioni) dei modelli statici ma sono il prodotto d'un equilibrio economico in cui gli agenti determinano il proprio reddito finale (meglio: il proprio vettore finale di consumi ed altre fonti di piacere, fra le quali l'assenza di sforzo o la sua presenza) scegliendo di fare delle cose (o di non farle) ed interagendo fra loro attraverso molteplici mercati ed altre istituzioni. Quindi, cosa vuol dire "essere il piu' povero", in questo contesto? La definizione non viene mai esplicitata, e questo rende il criterio rawlsiano altamente insoddisfacente ed impreciso. Detto in due parole: lo rende vuoto di rilevanza empirica a meno che non ci si voglia arrischiare di definire le nozioni di "povero" e "ricco" lungo linee biologico-naturalistiche - che secondo me era quanto Rawls aveva in mente; certo era quello a cui continuavo a pensare leggendo ATofJ qualche decennio fa. Insomma, il povero di Rawls e' l'handicappato, lo scemo, quello con il QI a temperatura ambiente (in Farenheit, non Celsius ...) o anche solo quello che e' "naturalmente" svogliato e fannullone, debole, poco orientato al lavoro ed all'intraprendeza di qualsiasi tipo ... Nel qual caso, pero', il criterio diventa comunque un casino indecifrabile perche' il "naturalmente fannullone" (che io credo esista, anche se e' meno diffuso di quanto possa sembrare dopo una visita ai ministeri italiani) e' per definizione uno che e' piu' contento a fare il nulla guadagnando poco che diventare ricco lavorando sodo. Quindi, nel caso del fannullone naturale, se volessimo massimizzare la sua utilita' (e non solo il suo reddito monetario) forse occorrerebbe accettare politiche che non lo facciano lavorare e gli permettano d'impoverirsi ... Se, a quelli fra voi che hanno qualche anno in piu', tale conclusione ricorda Ronald Reagan quando si riferiva ai senzatetto definendoli "i nostri concittadini che amano vivere all'aria aperta senza lavorare", il risultato e' quello desiderato. Che RR fosse un rawlsiano coerente?

(4) Paradossi a parte, e rimanendo nel tecnico: quando il reddito e' endogeno, le dotazioni naturali sono informazione privata e tali sono anche le azioni, il criterio di Rawls in versione "conseguenzialista" a quale conclusione porta? Non sono certo d'averci riflettuto abbastanza per dare una risposta, ma a occhio e croce se lo si applica ai vettori finali di consumo porta a moltissima redistribuzione ex-post [Per chi si stesse confondendo: il paradosso di Reagan al punto (3) e' basato su informazione completa e l'uso della felicita' totale, non dei consumi osservabili, come criterio da massimizzare]. Mi sbaglio?

(5) Vi e' un altro lato serio e difficile della questione, a cui l'osservazione precedente rimanda. Quale criterio una societa' dovrebbe adottare nei confronti di quelle persone che consideriamo comunemente "handicappate" e "non per colpa loro"? Ulteriore domanda: per qualche ragione del fannullone naturale non abbiamo alcuna pieta', mentre di quello che perde una gamba o di quello che ha un QI=92 si' ... perche'?. Con riguardo a questi individui (quelli del "non per colpa loro") Rawls ama adottare la finzione del velo d'ignoranza, eccetera. Perche' non applicarlo anche a quelli del "per colpa loro"? Uno che ha 76 di QI - mi riferisco ad un caso concreto che un collega della Law School che fa "death rows" mi descriveva tempo fa - e che ammazza la gente con le mani, che "colpa" ha? Vogliamo dibattere di questo? Non ne son certo, e' un argomento MOLTO complicato. Pero' non mi arrischierei a fondarci sopra la filosofia politica della nuova sinistra liberale ...

(6) Ultimo punto per oggi. Il criterio rawlsiano non si applica solo a tasse e cose del genere ma, come JR insiste, e' un criterio di giustizia che andrebbe applicato prima di tutto alla definizione dei diritti di proprieta'. Consideriamo quindi una situazione in cui vi siano 10 persone, 9 delle quali coltivano il grano nel campo con il sudore della propria fronte (tanto per dare loro un nome, li chiameremo "polentoni") mentre il decimo, che sempre tanto per dargli un nome chiameremo "ministeriale", ruba parte del grano prodotto dai polentoni attraverso un trucco che si e' inventato. Tanto per dare un nome al trucco lo chiameremo "trasferimenti al mezzogiorno" ed e' legale. Il valore del grano prodotto dai polentoni e di 1000, cada uno. Il ministeriale, al momento, si appropria di 50 da ognuno di essi, collezionando quindi dei trasferimenti al mezzogiorno (che sarebbe lui, di cognome fa "ministeriale" ma di nome fa "mezzogiorno") pari a 450 < 950. Insomma, pur rubacchiando a ben 9 polentoni, mezzogiorno ministeriale e' ancora il piu' povero. Viene quindi proposta una modificazione dei diritti di proprieta' esistenti che darebbe al mezzogiorno ministeriale la possibilita' di rubare legalmente 100 unita' da ognuno dei 9 polentoni ...

 

 

 

E invece si, perché siamo dei nerds e ci piace un casino discutere. Ecco la mia chilometrica risposta al chilometrico post di Michele.

Allora, finalmente si parla di qualcosa che ha relazione con il post. Grazie Michele. Come nota metodologica, propongo di lasciar perdere del tutto i termini 'destra' e 'sinistra', che qua veramente non servono proprio. Inoltre se dici di essere di sinistra (destra) poi c'è sempre qualcuno che ti mette in compagnia di Pecoraro Scanio o Bertinotti (Berlusconi o Borghezio), ossia di personaggi con cui l'unica cosa che voglio avere in comune è di essere bipede.

Fammi chiarire anzitutto che quando ho messo il titolo al mio pezzo io non scherzavo affatto. È veramente solo un pezzo di puntualizzazioni pedanti, non una proposta per riscostruire la teoria della giustizia o whatever. È stato motivato dal fatto che nel dibattito si facevano con certa disinvoltura affermazioni che sono vere solo sotto certe condizioni. In particolare ho fatto notare tre cose:

1) il fatto di essere a favore degli ultimi non è equivalente a minimizzare la varianza della distribuzione del reddito. In generale, anche se la tua funzione di social welfare è concava è ragionevole aspettarsi che il momento primo conti, e non solo il secondo.

2) Anche assumendo che si sia interessati solo alla varianza, la cosa logica da fare è guardare alla distribuzione delle utilità sul life cycle, non alla distribuzione delle utilità in ogni dato periodo. Questo, empiricamente, può essere meno impossibile di quello che sembra. Per esempio, Perri e Krueger hanno fatto notare che negli USA la varianza del consumo è cresciuta molto meno della varianza del reddito. Forse c'è qualche altra spiegazione, ma mi pare che questo deve significare che il lifetime expected income si è disperso meno di quanto le misure statiche lasciano pensare, un po' come nell'esempio del post su grad students/professori vs. camerieri.

3) Non è scontato che liberalismo e Pareto efficienza siano compatibili. Ci sono esempi, che forse sono solo pippe teoriche o forse no, in cui sono incompatibili.

Questa era veramente tutto quanto volevo dire, nessun tentativo di suggerire a nessuna parte politica o filosofica cosa fare. Semplicemente alcune osservazioni per evitare che si ripetano come ovvie cose che non lo sono affatto.

Sulle tue osservazioni faccio prima una premessa e poi discuto punto per punto. Se dovessi scrivere esattamente qual è la mia funzione del benessere sociale dovrei perdere un sacco di tempo a pensarci e non so se arriverei a qualcosa di compiuto. Ci sono problemi ancora più fondamentali di quelli che hai sollevato. Per esempio: a) Esattamente qual è l'insieme di individui da considerare, gli abitanti di una regione, di un paese, di tutto il mondo? b) Come devo considerare l'utilità di chi non è ancora nato? Purtroppo sono domande che hanno notevole rilevanza nel dibattito politico, si pensi a 'immigrazione' per a) e 'uso delle risorse naturali' per b). E, naturalmente, c'è la vecchia domanda se ha senso parlare di utilità cardinali e intercomparabili.

Lo stesso, un qualche sforzo di organizzare il modo in cui pensiamo a questioni di giustizia allocativa lo dobbiamo fare. In effetti, lo facciamo sempre implicitamente quando diciamo che un tal provvedimento è 'giusto' o 'sbagliato'. Facciamo un esempio. Giavazzi (e noi con lui) pensa che sia giusto abolire le licenze dei taxi. Perché è giusto? Il provvedimento non è un miglioramento paretiano. Alcuni (i tassisti) stanno peggio, altri (i disoccupati che possono fare i tassisti grazie all'abolizione delle licenze, i clienti attuali che pagano meno, i clienti potenziali che ora non usano il taxi ma lo useranno se i prezzi scendono) stanno meglio. Quando diciamo che il provvedimento è giusto affermiamo che è giusto danneggiare un gruppo e favorirne un altro. Giudizi di questo tipo li diamo tutti i giorni, ed è quindi opportuno perdere un po' di tempo a chiarirci cosa intendiamo per 'giusto'.

Per venire al tuo esempio: ogni volta che si decide una distribuzione delle aliquote fiscali si stanno implicitamente definendo dei trade-off tra le utilità dei diversi individui. Se siamo a favore di un sistema strettamente proporzionale, diciamo che la societa è indifferente tra levare 15 a chi guadagna 100 e levare 30 a chi guadagna 200. Se non fosse indifferente, si potrebbe aumentare il benessere sociale spostando il carico fiscale nell'una o nell'altra direzione. Se non ti piace quindi l'idea che la società diminuisca di 1M il reddito del miliardario per dare solo un euro al più povero, resta comunque definire qual è l'altro numero che esprime quello che dovrebbe essere il tradeoff giusto. E se dici che sotto nessuna circostanza bisogna trasferire reddito allora stai dicendo che alla società importa solo la ricchezza aggregata e non la sua distribuzione, che non t'importa nulla se levi l'ultimo euro al poveraccio per darlo al più ricco. Which of course is fine and logically coherent, ma lo è tanto quanto altre funzioni del benessere. Ma more on this later. Fine della lunghissima premessa, passo ai punti sollevati da Michele.

(0) Mi invento un punto zero, che è il punto in cui Michele afferma che

il principio rawlsiano non e' solo "intuitivamente demenziale" (magari a me sembra cosi' perche' sono cattivo d'animo e non voglio bene agli sfigati) ma e' anche logicamente ed empiricamente insoddisfacente.

Prima di proseguire fammi fare un'osservazione. Se accettiamo che il nostro criterio di giustizia può essere coerentemente espresso da una funzione di benessere sociale che ha come argomento le utilità degli individui, allora è bene portare a mente che molto spesso i vincoli che imponiamo al problema sono molto più importanti della funzione che scegliamo. In una società senza moral hazard e senza adverse selection qualunque funzione del benessere sociale strettamente concava produce il risultato che solo la perfetta eguaglianza è 'giusta'. Alla stessa conclusione si arriva se le funzioni di utilità individuali sono concave nel reddito e la funzione del benessere sociale è lineare (il cosidetto criterio utilitaristico, che poi è quello che usiamo correntemente quando parliamo di surplus del consumatore etc.). In un mondo di perfetta informazione, senza problemi di incentivo e in cui il pianificatore è benevolente la perfetta uguaglianza come optimal policy non è affatto demenziale; in verità, è il risultato naturale di praticamente tutte le funzioni del benessere sociale comunemente utilizzate.

Questo mondo è ovviamente un mondo finto. L'informazione non è perfetta, gli incentivi sono un grosso problema e, oh boy, il pianificatore è tutto meno che benevolente. Però il caso senza vincoli va trattato perché in primo luogo vogliamo esprimere le nostre preferenze sociali senza badare a quali sono i vincoli del problema. È un po' quello che facciamo con la teoria classica del consumatore. Prima definiamo le preferenze senza riferimento al vincolo di bilancio. Poi diciamo, caro mio, non puoi consumare quello che ti pare, i prezzi sono questi e la tua ricchezza è questa, quindi massimizza subject to il budget constraint. Ma l'esercizio di definire prima le preferenze indipendentemente dai vincoli va fatto.

(1) Questo punto non l'ho capito. Mi sembra che Rawls non c'entri nulla con la visione del liberismo come strumento. Tale visione segue necessariamente se si adotta il consequenzialismo, indipendentemente dalla funzione del benessere usata. Se il liberismo è solo uno strumento che si usa per ottenere certi risultati (e, ripeto, questa vale per qualunque approccio consequenzialista) cosa c'è di incoerente o instabile nel fatto che in alcune occasioni si reputa opportuno usare lo strumento e in altre no?

(2) Su questo ho risposto al punto zero. Di nuovo, senza vincoli ulteriori l'egualitarismo risulta praticamente da qualunque funzione del benessere sociale minimamente ragionevole, Rawls c'entra poco o nulla.

(3) Qui finalmente si colpisce the nail on the head. Di nuovo, il discorso non riguarda Rawls in particolare, quindi per sottolineare questo fatto fai conto che io dica di essere utilitarista (somma delle U_i) e che le U_i siano concave nel reddito. Quello che tu chiami 'endogeneità del reddito' io lo chiamo 'presenza di vincoli al problema di massimizzazione'. Se tasso molto il reddito da lavoro la gente più produttiva smette di lavorare, se do al pianificatore il potere di tassare questo può mettere tasse per finanziarsi la gita al GP di Monza, se non conosco la ricchezza finanziaria degli individui e provo a tassare le rendite i capitali volano all'estero...e mille altre cose. Essendo utilitarista mi piacerebbe, se unconstrained, uguagliare tutti i redditi, visto che il più ricco ha utilità marginale del reddito più bassa del più povero. Ma se lo faccio rovino gli incentivi oppure permetto a dei grassi ladroni di campare alle spalle dei poveracci. Questo non mi piace e quindi la soluzione è quella di redistribuire meno. In certe condizioni (ad esempio, istituzioni inefficienti e rapinose) zero redistribuzione può essere la scelta ottima.
Adesso veniamo alla seconda domanda. Chi sono gli sfigati? Si, ovviamente quelli con disabilità fisiche o psichiche. Però si può andare un po' più in là, e qualche contenuto empirico un po' più rilevante si può dare. La chiave, mi sembra, è che il criterio rawlsiano suggerisce che è importante dare un'uguaglianza di opportunità sostanziale. Sostanziale significa che non mi basta che ciascuno abbia gli stessi diritti di firmare contratti. Se nel ghetto il tasso di mortalità infantile è 5 volte che nei suburbs perché i bambini non hanno assicurazione medica, e se le istituzioni permettono un modicum di redistribuzione, allora il rawlsiano (ma anche l'utilitarista) dev'essere a favore di tassare i più ricchi per sussidiare l'assicurazione medica dei poveri. Discorso simile per l'istruzione (se poi il sussidio è meglio farlo con voucher o con scuole pubbliche è un discorso separato). In generale mi sembra che l'approccio di cercare di dare uguaglianza di opportunità sostanziale sia empiricamente realistico e non particolarmente controverso.

(4) Questo è facile. Se l'unico vincolo è che gli endowment sono informazione privata e non si può controllare il consumo ex post allora l'unico allocazione incentive compatible è zero redistribuzione, e la funzione del benessere sociale è irrilevante. Se provi a trasferire risorse a chi ha meno allora tutti dichiareranno di avere il minimo. Se invece puoi controllare il consumo ex post, e dire 'giovane, azzo dici che non hai niente che ti stai comprando lo ioct? mo' ti tasso per benino' allora un po' di redistribuzione diventa possibile ma sempre meno che sotto informazione completa. Di nuovo, Rawls non c'entra nulla, è semplicemente che con informazione privata sugli endowment ci sono i vincoli di compatibilità degli incentivi da soddisfare.

(5) Del fannullone naturale non abbiamo pietà quando gli vengono date opportunità uguali agli altri. Se Attivo e Passivo hanno simili capacità osservabili, diamo loro la stessa quantità di terra ugualmente fertile, uguale istruzione su come lavorarla etc. allora il rawlsiano (o l'utilitarista) può dirsi contento. Se poi Attivo lavora da mane a sera, fa fruttare la terra e si espande e diventa ricco mentre Passivo vivacchia facendo il minimo e dormendo sotto un albero most of the time, non c'è alcuna ragione per intervenire. Hanno avuto uguali risorse e le stanno usando come loro meglio aggrada. Il problema è più complicato se sospettiamo che il povero Passivo non lavori perché ha ricevuto traumi infantili or something, ossia perché le sue capacità sono inferiori a quelle di Attivo. In questo caso in principio vorremmo trasferire qualcosa a Passivo, MA è qui che incentive compatibility diventa binding. In particolare, non posso semplicemente dire 'siccome non lavora il poverino dev'essere traumatizzato, quindi prendo un po' di soldi a chi lavora e li do a lui'. Non lo posso fare perché in tal caso anche Attivo smette di lavorare. Metter su sistemi di trasferimento compatibili con gli incentivi è complicato dal punto di vista pratico, ma almeno dal punto di vista teorico siamo su sound ground.

(6) Questo punto è una variante del precedente. Al signore Ministeriale Mezzogiorno spetta un pezzo di terra, uguale a quello dei polentoni. Se non la lavora, #$%zi suoi. Il rawlsiano ha fatto il suo lavoro dando a tutti uguali risorse, la terra da lavorare. Non c'è alcun obbligo di prendere ex post il frutto del lavoro di chi ha sgobbato per darlo a chi ha dormito. In fact, uguagliare il reddito ex post significherebbe essere antirawlsiani: Ministeriale non lavora e prende lo stesso grano dei polentoni, quindi la sua utilità è superiore.

 

Buon pomeriggio a tutti, <?xml:namespace prefix = o ns = "urn:schemas-microsoft-com:office:office" /><o:p></o:p>il pezzo e' da <o:p></o:p><o:p></o:p>finimezzi<o:p></o:p>

Chiedo scusa in anticipo per la banalità della domanda, ma vorrei sapere se esistono degli studi che, su base storica, abbano accertato una riduzione, nel tempo, delle diseguaglianze tra i redditi degli estremi percentili della scala sociale.

In altri termini, se  nel Rinascimento un membro della Casa dei Medici aveva un reddito pari a N volte il reddito di un comune tessitore, oggi il reddito di Bill Gates è pari a N meno Y volte il reddito di un operaio oppure il suo reddito è N+Y volte quello di chi sta verso il basso della scala sociale ?

Ossia, circa 150/200 anni di spinta all'egualitarismo (parlando ovviamente del mondo occidentale)  hanno prodotto risultati concreti, oppure, in termini assoluti, i ricchi sono più ricchi dei più poveri più o meno sempre nella medesima proporzione ? Se così fosse, oggi i poveri (sempre parlando dell'occidente) stanno infinatamente meglio dei poveri del passato solo perchè hanno più reddito disponibile, perchè lo sviluppo tecnologico e scientifico rende accessibili beni che in passato erano inaccessibili e non certo perchè c'è più uguaglianza. Al più potrebbe dirsi che la spinta socialista e/o socialdemocratica ha migliorato le condizioni di vita sui luoghi di lavoro e consentito il riconoscimento di diritti politici e sociali  prima negati. 

Una politica di sinistra, in un mondo come il nostro in cui comunque non c'è più spazio per utopie comuniste e il gioco va giocato nel perimetro dell'economia di mercato, dovrebbe quindi essere attenta all'incremento del reddito delle classi più svantaggiate, a favorire l'istruzione e lo sviluppo tecnologico e l'eliminazione di barriere che limitano l'accesso alle opportunità, restando del tutto indifferente al fatto che contemporaneamente aumenti il reddito anche dei più ricchi.

Mi sbaglio?

 

Tony Atkinson sta lavorando, con Thomas Piketty, sull'andamento dei redditi piu alti (il top 10%): vedi qui. Non so se ci sono gia' i dati su tutti i paesi OECD che gli ho sentito presentare quest'estate. Non va pero' indietro al Rinascimento, ma fino al 1900 circa. Abbastanza. In una frase che riassume brutally cio' che ricordo, i ricchi sono stati sempre peggio (relativamente) fino al 1970 circa: da dopo hanno cominciato a stare meglio. Rimane comunque vero che relativamente, stavano meglio nel 1900 che nel 2000. Ma non parliamo di Bill Gates, il top 10% comprende tanti nostri amici. I confronti nazionali erano un po' sorprendenti: US i ricchi stanno meglio, ma in Francia stanno meglio che in UK.

Sabino, sono anch'io abbastanza ignorante sul tema ma guarda anche questo pezzo di Graziella Bertocchi e la bibliografia che mette.

per chi sia interessato

su

la7.it

(nel webpage di 8 1/2) trovate una interessante disquisizione sull'argoemnto (con appunto Alesina e Giavazzi)

 

Il titolo dell’ultimo saggio di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, “Il liberismo è di sinistra”, è riuscito nel suo intento provocatorio.

Da più parti sono giunti contributi sulla paternità “destrorsa” o “sinistrorsa” delle politiche per la meritocrazia, la razionalizzazione della spesa pubblica, la rimozione dei vincoli di accesso a professioni e mestieri, il rafforzamento dei percorsi a disposizione degli outsider per l’inserimento nel mercato del lavoro.

Se si solleva lo sguardo a livello internazionale e si ripercorre il Novecento, sia sistemi politici passati alla storia come di destra che di sinistra forniscono esempi di sclerotizzazioni della società e dell’economia a favore degli incumbent, degli insider, dei gruppi arrivati in posizioni tali da permettere l’esercizio di lobbying. Prima di definire che cosa stia a destra e che cosa a sinistra, non ci si può non domandare - parafrasando Gaber - che cos’è la Destra, che cosa la Sinistra?. E se è chiaro che non basta il riferimento alla, peraltro confusa, ripartizione dell’attuale scenario politico italiano, anche i criteri di distinzione tradizionali rischiano lo stereotipo e, non rinnovati, impediscono di affrontare le problematiche dell’oggi e del domani. Da quando la concezione patrimoniale dello Stato ha, nel corso del XIX secolo, lasciato il passo al processo di riconoscimento dei diritti dei cittadini, tante conquiste importanti sono state compiute nel mondo occidentale, e oggi quelle scelte che Alesina e Giavazzi ricomprendono nel “liberismo” sono, in realtà, punti che dovrebbero già costituire la base democratica per il confronto politico. Meritocrazia, responsabilità ed efficienza nel governo della spesa pubblica, valorizzazione del lavoro e delle capacità imprenditoriali senza vincoli delle corporazioni, apertura agli outsider sono, tutti, altrettanti principi della nostra Costituzione, obiettivi sui quali l’Antitrust è chiamato a sorvegliare e sui quali esistono già concreti coordinamenti europei. Dovremmo forse chiederci se stanno a destra o a sinistra Costituzione, Antitrust, Commissione e Consiglio UE?.

L’affermazione di Alesina-Giavazzi suona, in realtà, come una domanda retorica: sì, quelle politiche sono anche di sinistra, perché non sono (dovrebbero essere) più ragione di differenziazione politica; sono anche di sinistra perché non è vero (come da luogo comune particolarmente radicato in Italia) che nascono da un pensiero destro. Dietro questa domanda retorica ce n’è una più importante, che viene elusa: di quale nuovo ruolo deve farsi protagonista la Sinistra per distinguersi?.

Se l’aspirazione della Sinistra può essere identificata nella compensazione delle differenze nei mezzi e nella condivisione dei grandi rischi vitali, per favorire la più ampia diffusione del benessere senza discriminazioni precostituite tra cittadini, allora:

il disegno degli strumenti del welfare alla ricerca della coerenza con gli incentivi individuali,

l’universalismo selettivo di tutti i canali redistributivi (monetari e in-kind),

e il loro coordinamento organico,

sono tre punti che possono offrire nuova ragion d’essere e nuova linfa vitale. Per innestare gli istituiti del welfare system su un solido percorso di sviluppo individuale e collettivo; per riconoscere a tutti i cittadini - senza distinzione tra occupati e non e tra settori/comparti - eguale diritto a partecipare delle risorse messe in comune dalla società di cui son parte. Un obiettivo di società aperta.

A dieci anni dalla stesura della relazione finale della Commissione “Onofri”, una sua attenta rilettura da parte della Sinistra italiana offrirebbe numerosi spunti di riflessione per una maturazione verso modelli di moderna socialdemocrazia europea (http://www.astrid-online.it/Amministra/-Commissio/Comm-Onofri-Rel-Fin_28_02_1997.pdf).

 

 

O, almeno, non e' un rawlsiano coerente. Infatti, se la prende (e non da oggi, ma da quando e' presidente riportano quello che dice) con la crescita del divario fra ricchi e poveri a livello mondiale (che tra l'altro e' falso, ma non importa) ignorando che, grazie alla globalizzazione ed al capitalismo imperante centinaia di milioni di esseri umani cominciano ad essere "ex poveri". Insomma, ignorando che quanto sta succedendo nel mondo migliora le condizioni di vita anche dei piu' poveri. Lui guarda solo alla distanza fra Carlos Slim ed il piu' povero dei messicani, non che il piu' povero dei messicani sta due volte meglio di trent'anni fa.

secondo la mia definizione.

Scelgo di postare qui anche se avrei potuto benissimo farlo all’ articolo precedente di Michele Boldrin.

Con colpevole ritardo m’ imbatto casualmente nel succulento dibattito che vorrebbe specificare l’ insieme delle politiche "sinistrorse" per poi andare a vedere se là in mezzo ci stanno pure quelle di stampo liberista.

Se ho capito bene la "sinistra plurale" sono almeno tre sinistre, e ciascuna sponsorizzerebbe obiettivi differenti ma in qualche modo parenti:

  1. politiche volte ad indirizzare una maggiore eguaglianza effettiva tra i membri della società (sinistra fossile);
  2. politiche volte a contrastare quel particolare tipo di diseguaglianza che è la "povertà relativa" (sinistra moderna);
  3. Politiche MAXMIN, ovvero volte a privilegiare il benessere degli "ultimi" (sinstra rawlsiana).

Nel primo gruppo di politiche il liberismo, visto che una qualche forma di diseguaglianza la induce sempre, c' entra come i cavooli a merenda.

Nel secondo gruppo...mah. Contano molto le condizioni di partenza. Se partiamo dalle moderne democrazie occidentali tenderei ad escludere siluzioni liberiste qualora professassi simpatie  "de sinistra".

Se poi il liberismo scatena davvero quella marea montante che alza tutte le barche, allora è un buon candidato per rientrare tra le politiche che riempiono il terzo paniere. Devo dire però che trattasi di un paniere molto capiente. Tanto è vero che Rawls gira con l’ etichetta di liberale un giorno e con quella di pericoloso socialdemocratico pronto ad instradarci sulla via della schiavitù il giorno dopo.

Il dilemma resta, specie per noi italiani che abbiamo conosciuto liberisti potentemente di destra (Pareto, Mosca...), la cui allergia alle insidiose formule democratiche li spinse ad alleanze sciagurate con il fascismo. Ma, nello stesso tempo, rinveniamo nel nostro albo d' oro altrettanti fanatici del liberismo appartenenti all' eroico sindacato rivoluzionario ottocentesco. Per non parlare dei proto liberismo leopardiano. Intendo quello del Giacomo, professato in aperta rivolta al codino Monaldo.

...

A questo punto mi chiedo se i signori economisti, con le loro nozioni, possono esserci ancora utili nel tracciare un discrimine politico quale quello che separa destra e sinistra.

Formulo un’ ipotesi ispirato dall’ ultimo punto preso in esame da Sandro Brusco.

Sappiamo che il liberismo non coduce automaticamente all’ allocazione ottima delle risorse. Esistono infatti dei costi di contrattazione. Come superarli? Ebbene, è proprio il privelegio accordato ad alcune di queste strategie a connotare il pensiero conservatore.

La Destra richiede che le strategie per eludere o minimizzare i costi trasattivi siano implementate dalle parti chiamate a sopportare in modo diretto l’ onere di quei costi. Ovvero da quelle parti che non riescono a chiudere cio’ che un osservatore esterno, onniscente e razionale, considererebbe un contratto conveniente per entrambe.

Ecco alcune strategie per economizzare informazione.

  1. Centralità dell’ istituto familiare e di altri reti solidaristiche spontanee.
  2. Enfasi su concetti quali onore, reputazione, lignaggio.
  3. Common law, consuetudine, tradizione.
  4. Concorrenza istituzionale.
  5. Associazionismo sulla base di credenze etiche e religiose.

Al contrario, la sinistra, è più fiduciosa nell’ affrontare il problema dei costi transattivi mediante scorciatoie (il rischio è alto ma, se va bene, si guadagnano secoli...) che attribuiscano un ruolo centrale al Pianificatore Razionale chiamato ad imporre dall’ alto schemi relazionali pareto-efficienti.

Da quanto detto emergerebbero un paio di corollari: la destra è più sensibile alla complessità (che me ne faccio dei metodi evolutivi se non ho davanti problemi iper complessi scarsamente razionalizzabili) e ai diritti naturali (per forza, vengono privilegiati i rapporti personali facendo sfumare la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico).