Quanta flessibilità è necessaria?

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Pare che entro il 23 marzo, la riforma del mercato del lavoro sarà pronta sul tavolo del Governo. Una riforma sicuramente necessaria vista la gamma di problemi associata all’attuale mercato del lavoro. Gli obiettivi dell'attuale riforma ricalcano quelli alla base di precedenti interventi legislativi (e.g., legge Treu, legge Biagi). Andrà questa riforma nella giusta direzione?

La situazione attuale

Guardando ai numeri dell'attuale mercato del lavoro italiano, parrebbe che una riforma sia veramente necessaria e che debba essere implementata in tempi brevi:

  • Un tasso di disoccupazione giovanile al 30%.
  • Tra i disoccupati quasi il 50% sono di lunga durata (ossia disoccupati da più di un anno).
  • Una crescente percentuale di lavoratori scoraggiati (in aumento del 50% dal 2004)
  • 24% di giovani compresi tra i 19 e i 29 anni che non partecipano alla forza lavoro, non seguono corsi di formazione, non studiano e non lavorano (cosiddetti NEET, ''not in education, employment or training''.)
  • Una partecipazione femminile alla forza lavoro ancora molto bassa (51%) e decisamente inferiore alla media europea (66%)
  • Una fuga di cervelli in aumento (7% dei dottorati italiani).
  • Una percentuale di economia sommersa stimata pari al 16-17% del Pil.
  • Costi del lavoro molto elevati e burocrazia complicata.
  • Una media salariale del 35% inferiore alla media europea.
  • Un mercato del lavoro segmentato costituito da protetti (insiders) e non protetti (outsiders) con limitata interazione tra le parti.
  • Un sistema di ammortizzatori sociali non efficiente e non efficace nel creare un reale supporto economico per i disoccupati.
  • Una produttività del lavoro bassa e stagnante.

Come siamo arrivati qui?

Il passaggio è stato piuttosto semplice. La regolazione dei contratti a tempo determinato è avvenuta a partire da metà degli anni 90 in parallelo al mantenimento di un sistema esistente piuttosto rigido, caratterizzato da contratti di natura permanente, a cui son associati elevati costi di licenziamento (stiamo parlando non solo dell'art. 18, ma come evidenziato dal Prof. Brunello, anche delle tempistiche dei processi civili).  Di conseguenza, solo i nuovi entrati sul mercato del lavoro, sono stati direttamente influenzati dalla nuova legislazione, che apporta vantaggi per le imprese in quanto introduce flessibilità e riduce i costi di turnover. Questa flessibilità necessariamente “al margine”, che lascia invariate le condizioni e i benefici dei lavoratori permanenti e che colpisce direttamente i lavoratori “precari”, ha generato una forte segmentazione interna e ha reso la comunicazione tra i due poli sempre più difficile.

Le riforme più importanti in questa direzione sono state la legge Treu (1997) che disciplina il contratto a tempo determinato, il decreto legislativo 368/2001 che consente l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo e la legge Biagi (2003) che disciplina nuove tipologie di lavoro a tempo determinato quali i contratti di lavoro a chiamata, temporaneo, coordinato e continuativo, occasionale, accessorio e a prestazioni ripartite. Gli obiettivi di queste riforme erano quelli di incrementare le occasioni di lavoro e garantire a tutti un equo accesso a una occupazione regolare e di qualità e di contrastare i fattori di debolezza strutturale della nostra economia quali la disoccupazione giovanile, la disoccupazione di lunga durata, la concentrazione della disoccupazione nel Mezzogiorno, il modesto tasso di partecipazione delle donne e degli anziani al mercato del lavoro.

Studi teorici ed empirici, come ad esempio il lavoro di Tealdi (2011), dimostrano che i lavoratori temporanei sono sopratutto donne e giovani, con poca o nessuna esperienza lavorativa. Quando entrano nel mercato del lavoro con un contratto temporaneo, sono spesso destinati ad affrontare cicli di contratti temporanei o cicli alternati di occupazione temporanea e disoccupazione prima di poter approdare a un contratto permanente. Alcuni di loro, scoraggiati, escono dal mercato del lavoro, perlomeno quello regolare (Contini e Grand (2011)), altri soprattutto se con un alto livello di educazione lasciano l’Italia e si dirigono verso paesi che offrono migliori opportunita’ (“7 per cento dei dottori di ricerca è emigrato all’estero”, Istat 2011). Altri persistono, ma vedono il loro benessere notevolmente ridotto rispetto a persone con profilo professionale simile entrate nel mercato del lavoro prima delle riforme. (Tealdi (2011)). In principio le imprese possono usare i contratti temporanei per identificare i lavoratori più produttivi oppure per tagliare i costi (avendo la flessibilità di aggiustare la forza di lavoro in caso di crisi economica o aziendale a costo zero). Lo studio di Berton et al (2009) sembra dimostrare che nonostante le due anime coesistano, il taglio dei costi rappresenta la motivazione principale, alla luce del fatto che i tempi per accedere a un contratto permanente sono lunghi.

La flessibilità è un male da evitare?

La flessibilità è un elemento necessario per la crescita di un’economia moderna come quella italiana, se introdotta e regolata in modo da far fronte alle esigenze delle aziende e dei lavoratori. Non solo le imprese, ma anche i lavoratori possono beneficiare in diversi modi della presenza di un mercato del lavoro (più) flessibile. Ma la riforma del mercato del lavoro non può essere limitata esclusivamente all’art.18, che rappresenta solo parte del problema. E soprattutto non può essere limitata solo ai nuovi entrati sul mercato del lavoro. Se alle imprese viene concessa l’opzione della flessibilità per alcuni dipendenti (i nuovi assunti), ma viene mantenuta una forte rigidità per altri (con lunga esperienza lavorativa), i primi saranno coloro che pagheranno il costo della flessibilità e che saranno facilmente licenziabili in caso di crisi economiche, settoriali, aziendali, indipendentemente dalla loro produttività. l punti essenziali sono dunque

  • il superamento del mercato duale;
  • la semplificazione della disciplina contrattuale (Istat conta attualmente 46 diverse tipologie di contratti);
  • la riduzione dei costi del lavoro;
  • la presenza di incentivi alla produttività;

Due sono le proposte di riforme presentate e valutate sinora.

La proposta Ichino prevede l'introduzione di contratto unico che permetta alle aziende di licenziare in caso di necessità, pagando un costo proporzionale all'anzianità lavorativa. Questo verrebbe accompagnato da una riforma degli ammortizzatori sociali che costituisca una reale rete di protezione per coloro che vengono licenziati. Con questo tipo di  riforma il problema del mercato duale potrebbe essere effettivamente superato e la possibilità di licenziare con costi crescenti potrebbe essere un buon compromesso tra flessibilità per l'impresa e sicurezza per il lavoratore. Tuttavia, tre sono i possibili rischi: 1. se i benefici per i disoccupati non vengono saldamente subordinati alla ricerca attiva di una nuova occupazione, si potrebbe generare un aumento della disoccupazione, anche di lungo periodo; 2. se i costi di licenziamento sono eccessivamente alti (soprattutto per i lavoratori più anziani), la rigidità attuale potrebbe rimanere di fatto invariata; 3. potrebbe sorgere un problema di sostenibilità nel medio/lungo periodo. Tuttavia se, come nei paesi nordici, il sostegno ai disoccupati è limitato nel tempo e subordinato alla partecipazione a (efficaci) politiche attive, se le risorse finanziare vengono individuate senza l'aumento delle aliquote contributive (già molto alte!) e se i costi di licenziamento crescono in maniera graduale in funzione dell'anzianità (e magari anche della produttività), questa riforma potrebbe davvero andare nella giusta direzione.

La proposta Boeri-Garibaldi prevede l'introduzione di un contratto unico flessibile che dura fino a un massimo di tre anni, e diventerà permanente e tutelato (anche dall'art.18) successivamente. Durante i primi tre anni licenziare è proporzionalmente costoso, ma la reintegrazione del lavoratore in azienda non è prevista. Si tratta quindi di introdurre la possibilità per le imprese di estendere l'attuale periodo di prova del contratto permanente da sei mesi a tre anni. Sebbene questo tipo di riforma introduca una positiva flessibilità iniziale, tuttavia mantenendo successivamente una forte rigidità, potrebbe non risolvere il problema della dualità. La presenza di una discontinuità (dopo i primi tre anni) potrebbe generare disincentivi per l'impresa. I nuovi assunti, indipendentemente dalla loro produttività, potrebbero essere licenziati prima della soglia dei tre anni e potrebbero ancora una volta essere utilizzati come “buffer”. L'introduzione di costi del lavoro progressivamente crescenti potrebbe favorire il superamento di questo problema. Inoltre, come per la legislazione attuale in materia di lavoro permanente, questa riforma manca di incentivi alla produttività, che potrebbero essere introdotti per aumentare l'efficienza del mercato del lavoro.

Rimane inoltre il problema dell'elevata contribuzione. La riforma ora sul tavolo delle trattative sembra anche prevedere un aumento delle aliquote. Con una percentuale di sommerso già molto elevata, un ulteriore incremento dei costi di contribuzione non potrebbe che inasprire la grave situazione attuale. La recente crisi economica e finanziaria ha chiaramente dimostrato che il nostro paese è ancora molto indietro sulla via della competitività. Nell'era della crescente e globale mobilità del lavoro, dell'abbondanza di forza lavoro indiana e cinese qualificata e a basso costo e del facile outsourcing, la riforma del mercato del lavoro non può non avere come obiettivo la competitività non solo per il presente, ma soprattutto per garantire un futuro di crescita e sviluppo.

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Commenti

Ci sono 132 commenti

In che cosa questa norma incide sulla (in)capacità dei nostri impresari di fare impresa competitiva sul mercato globale, anzichè gli affari loro?

RR

Non mi e' mai risultato chiaro (i) perche' vadano semplificate le tipologie contrattuali (ii) perche' il contratto unico dovrebbe, da solo, ridurre la dualita'. A rigor di teoria, piu' aumenta la flessibilita' contrattuale, piu' posti di lavoro si creano. Piu' si inseriscono rigidita' piu' si aumenta il dualismo (quello piu' grave che tutti ignorano, fra chi il lavoro ce l'ha e chi non ce l'ha). 

Nel momento in cui si permette la risoluzione del contratto (a fronte di ammortizzatori flexsecurity-style), che senso ha ridurre la flessibilita' e la capacita di imprenditori e lavoratori di introdurre nuove figure contrattuali?

... lo stesso Pietro Ichino fa notare che le forme contrattuali sono molte meno rispetto a  quanto viene comunemente sostenuto, non risultando superiori alle 15.

Posso capire che l' idea del contratto unico sia politicamente vendibile, visto che sicuramente riduce la dualità percepita (tutti assunti con lo stesso contratto, la differenza si vedrà quando alcuni sono licenziati per non raggiungere la soglia di rigidità) ma credo sia controproducente limitare la libertà contrattuale oltre l' imposizione di certi standard minimi.

Soprattutto, non capisco dove sarebbe il danno per i lavoratori nell' esistenza di 5000 figure contrattuali rispetto a 5.

Io credo che la massima flessibiltà teorizzabile è un (o addirittura più di uno) contratti di lavoro per dipendente. Lo spirito di andrea credo sia: lasciamo decidera alle parti no?

La questione del contratto unico credo dipenda dal vincolo esistente in italia di dover far riferimento obbligatoriamente ad un contratto tipo (poi potendo fare modifiche). Per es mi pare che Accenture avesse quello dei metalmeccanici, mentre so che le società di consulenza tipo Makinsey e Oliver Wyman usano quello del commercio.

Dunque se devi far riferimento necessariamente ad un contratto tipo è più semplice che ce ne sia uno solo di riferimento piuttosto che tanti.
 

Secondo me ci dovrebbe essere solo uno schema di riferimento obbligatorio (tipo non lavorare come schiavo o in condizioni nocive per la salute) e poi i dettagli entro i limiti ragionevoli individuati dallo schema standard  lasciati all'accordo tra le parti.

sia alquanto diversa dalle due proposte. Ambedue hanno una logica. Il risultato della trattativa, a quanto si legge sui giornali, sembra essere una serie di aggiunte e modfiche al sistema esistente, senza molta logica salvo quella di strappare un assenso ai sindacati per evitare un problema al PD

Penso che la riforma Ichino possa, con un piccolo ritocco, risolvere il problema ai punti 1 e 2. Infatti essa già prevede la creazione di un sistema di Enti, da parte delle imprese (da sole o assieme ai sindacati) che adottano il contratto unico, che servono proprio a trovare un altro lavoro a chi viene licenziato. La buona riuscita del sistema è assicurata dal fatto che le imprese hanno un forte incentivo a far funzionare bene questi Enti, perchè prima l'Ente riesce a trovare un altro lavoro ad un licenziato, prima l'impresa che lo ha licenziato può smettere di pagargli il sussidio (che secondo il meccanismo della riforma può arrivare ad essere molto corposo).  E siccome le imprese in un modo o nell'altro gestiscono questi Enti (da sole o in gruppi di imprese, con o senza la partecipazione dei sindacati) hanno anche le leve per far sì che i ricollocamenti avvengano il prima possibile. Questo in parte risolve anche il problema dei costi di licenziamento, perchè la minaccia di alti costi se la disoccupazione persiste spinge le imprese a farla durare il meno possibile, per minimizzare i sussidi erogati. E qui viene il ritocco che proporrei, perchè invece l'altra parte, cioè il lavoratore licenziato, non ha invece un incentivo chiaro a collaborare con l'Ente. Una parte dei lavoratori potrebbe trovare più conveniente non lavorare e prendere il sussidio, finchè dura, e solo successivamente impegnarsi a trovare un altro impiego.  Questo perchè nella legge non è prevista in modo esplicito una parte di "activation" delle politiche di ricollocamento, cioè in parole povere delle regole che introducano dei controlli dell'effettivo impegno a collaborare e sanzionino il lavoratore che non collabora (fatta salva naturalmente la possibilità opt-out di non collaborare con l'Ente, rinunciando però al sussidio). Emendando la legge e inserendo una previsione esplicita di politiche di activation, il problema si risolverebbe (esattamente com'è successo in Danimarca, dove prima di introdurre l'activation il sistema non stava dando risultati così buoni). 

Certamente rimane il problema dell'alto costo di licenziamento per i lavoratori più anziani, almeno fra quelli cd. "non qualificati", perchè avrebbero le maggiori difficoltà ad essere ricollocati e contemporaneamente avrebbero i sussidi più alti, vista l'elevata anzianità. E' anche vero però che se la soglia che definisce un lavoratore come "anziano" fosse abbastanza alta, un disincentivo a licenziare i più anziani (o una parte di essi, quella  grandi linee meno ricollocabile) forse sarebbe anche "giusto" da un punto di vista sociale (l'efficienza è importante ma non è nemmeno tutto, ad esempio un operaio può trovarsi ad essere licenziato ad un'età in cui è troppo vecchio e troppo poco qualificato per trovare un altro posto, troppo giovane per andare già in pensione, e troppo lontano dalla pensione per essere mantenuto dallo Stato o dalla famiglia così a lungo; un esito che sarebbe meglio evitare, e visto che le imprese già hanno un qualche incentivo a preferire il licenziamento di anziani (perchè in generale costano di più e sono meno produttivi), mettere un contrappeso sopra una certa soglia di anzianità può essere desiderabile).

Sul punto 3 invece chiederei qualche specificazione in più, con sostenibilità intendete quella finanziaria (costi del sistema che esplodono)? In questo caso più che di medio lungo periodo, io parlerei di sostenibilità in caso di crisi, nel senso che il rischio insito nel sistema è che in periodi di acuta recessione il meccanismo di ricollocazione si inceppi perchè non c'è sufficiente domanda di lavoro, mentre a causa della crisi vengono contemporaneamente licenziati molti lavoratori. A quel punto avremmo una situazione in cui ci sono tanti licenziati che prendono il sussidio, e pochi che riescono a trovare lavoro, quindi le imprese vedrebbero i loro costi gonfiarsi a causa dei tanti sussidi erogati, e questo aggraverebbe la loro condizione già precaria a causa della recessione. Se questo aggravio supera il beneficio che le imprese ottengono dal poter licenziare, e quindi poter riorganizzare l'azienda per cercare appunto di superare la crisi... beh a quel punto suppongo che tornerebbe la cassa integrazione, con tutti i suoi limiti che ben conosciamo.

Buongiorno, articolo interessante. Mi permetto di farle due domande:

 

1. Per meglio chiarire gli eventuali rapporti di causa ed effetto tra la situazione del mercato del lavoro Italiano e la vigente normativa del lavoro sarebbe utile analizzare anche la situazione di Francia e Germania. Naturalmente non sono un esperto, ma per frequentazione diretta (ho vissuto in entrambi i paesi) mi sembra che i mercati del lavoro francese e tedesco godano di un livello di protezione del lavoro simile a quello Italiano a fronte, ad esempio, di ammortizzatori sociali e retribuzioni molto più' elevate (sia a livello netto che per costo del lavoro complessivo) di quelle italiane. I dati OECD relativi all'Employment protection, ad esempio sembrano confermare quest'impressione. Qui e qui, anche se per un profano e' difficile capire esattamente cosa si celi dietro un indicatore sintetico. 

 

2. Lei, come molti altri commentatori, nota come una certa parte dei costi di licenziamento non siano dovuti direttamente alla legislatura, ma piuttosto all'esasperante lentezza del proccesso civile in Italia. Alla luce di questo fatto, non sarebbe meglio considerare piuttosto una riforma del processo civile e della magistratura mirato ad avvicinare i tempi alla media europea? Anche perché' e' noto come lo stato della giustizia italiana rappresenti uno dei primi deterrenti per gli investitori stranieri.

Premessa: a me la storia dell'articolo 18 sembra una grossa presa in giro e che serva solo a fare girare dei soldi sottobanco.

Quello che io vedo accadere, in presenza di un dipendente che deve essere licenziato ((che ci sia un giustificato motivo o meno, non conta, tanto in tribunale il dipendente avra' sempre ragione a dispetto di ogni logica) il datore di lavoro inizia una trattativa economica, a volte con l'intervento di un sindacalista e sborsa una "paccata" (pare sia in voga questo termine) di soldi, molti dei quali in nero, che vengono intascati dal dipendente in cambio di un licenziamento "non contrastato", se non addirittura volontario. Ho saputo di cifre che variano dai 30.000 ai 50.000 euro sborsate per licenziare un dipendente con cui si era rotto il rapporto di fiducia. Mi pare che le proposte sul tavolo non modifichino granche' la situazione, se non istituzionalizzandola, quindi facendo girare meno soldi in nero, nero che ho il forte sospetto che venga utilizzato per pagare sottobanco l'assistenza ricevuta dai vari consulenti interpellati.

Che senso ha, allora, tutto questo casino sull'articolo 18, se si continua col sistema attuale di pagare per poter licenziare un dipendente? Capirei se le riforme non costringessero a sborsare dei soldi per licenziare, ma se comunque si devono mettere fuori dei soldi, dov'e' la "riforma" e perche' tutto 'sto bailamme?

Qualcuno mi puo' spiegare se non ho capito nulla (ma i licenziamenti in cambio di denaro so per certo che esistono anche in presenza di giuste cause, la cui definizione giudiziaria costerrebbe molti soldi e tempo alle imprese) o se veramente si sta facendo un gran casino per partorire il nulla?

Grazie.

una cosa e' fare il licenziamento con pagamento sottobanco, un altro e' farlo rispettando la legge. Nel primo caso deve essere d'accordo il lavoratore, c'e' una notevole incertezza sull'esito, ci sono poi rischi che la cosa venga scoperta. Insomma tutti costi aggiuntivi che rendono piu' difficile la creazione di posti di lavoro.

Propone di intervenire anche sui contratti esistenti o solo sui nuovi? 

Io avevo capito che anche lui voleva lasciare intoccato il pregresso.

E ti sei fatto pure il convegno a Roma! -)
Ichino propone un contratto da applicare a tutti, cominciandolo a sperimentare a partire dai neo assunti. Per Ichino la sperimentazione è fondamentale (ma pare che nessuno lo abbia capito).

Si, nella legge è specificato che la regola vale solo per i nuovi contratti (infatti il nome stesso della legge parla di "transizione"). Quindi il passaggio sarebbe graduale.

E' quello che fanno finta di non sapere i sindacati quando affermano che con la riforma Ichino ci sarebbero migliaia di licenziamenti, mentre semplicemente non è vero.

Lo svantaggio della transizione naturalmente è il fatto che la rigidità ci mette un po' di tempo a diminuire, mano a mano che ogni anno qualcuno va in pensione e sparisce una parte dei contratti rigidi. Il vantaggio però è che i giovani vedono sparire in fretta il fenomeno del precariato, perchè appena scadono gli ultimi contratti precari, possono essere rinnovati solo come contratti unici, flessibili ma a tempo indeterminato (e questo è già un quick win). Poi c'è il vantaggio insito nel cominciare con un "progetto pilota": finchè la scala è piccola, quando emergono degli errori o dei dettagli da perfezionare, lo si può ancora fare senza che si sia manifestato un grosso danno. Così che quando la legge va a pieno regime, è già ben "rodata".

Io Ichino lo seguo e lo leggo...da quel che ho capito, la sua idea sarebbe di lasciare intatto il pregresso per evitare che si dica che vuole togliere diritti a chi ce li ha...il vecchio sistema morirebbe naturalmente con il pensionamento dei lavoratori cui si applica.

Come per le penzioni??

'Sti stronzoni...

RR

Cosa dicevo? Il nuovo regime si applicherebbe solo ai nuovi assunti...

'Sti stronzoni.

RR

Grazie del testo, che costituisce un ottimo punto della situazione.

 So che piu' un settore è vasto è piu' sono complesse le soluzioni tuttavia credo che quando non si trova la quadratura (per esempio mancano risorse) all'interno di un settore se debba affrontare il problema da un punto di vista piu' ampio. La società è un insieme di componenti tra loro collegati e mi sembra un po' riduttivo, anche se è la via piu' semplice, operare solo in singoli settori, separatamente. L'esperto (o il tecnico) procede cosi', perché è competente in un settore e meno in altri ma si rischia di non ottenere i risultati sperati oppure di creare problemi in altri sottosistemi.

 Parlando di flessibilità, per esempio, se il mercato del lavoro diventa piu' flessibile ma il resto rimane rigido, non mi illudo che ci saranno grandi cambiamenti: se fuori nulla si muove anche il mercato del lavoro rimane congelato. Flessibilità: non c'è solo quella del mercato del lavoro ma anche quella nel mercato dell'abitazione. Se le persone non si spostano perché sono tutte proprietarie (grazie a quella genialata dell'equo canone che ha distrutto il mercato dell'alloggio in affitto) e cercano lavoro solo vicino a casa, non aspettiamoci grandi vantaggi dalla accresciuta flessibilità del lavoro. Per l'abitazione ormai la frittata è fatta ma si potrebbero rendere piu' fluidi gli spostamenti interni alla nazione: in presenza di un serio federalismo (anche fiscale) in cui ogni luogo ha le sue aliquote fiscali, per le persone fisiche e quelle giuridiche, si verrebbe a creare la convenienza per aziende e persone fisiche a trasferirsi nelle zone con minore pressione fiscale. Mancano le risorse? Si trovano, localmente, se ogni luogo inizia ad aliminare burocrazia, corruzione, sprechi. E prima lo fa, prima puo' abbassare le aliquote ed attirare attività che altrmenti andrebbero in Serbia. Sempre a proposito di risorse mancanti, ricordo che qui su NfA avevo presentato una proposta di riforma del sistema di rimborso dei costi del SSN e che il passaggio da un sistema Beveridge ad uno Bismark, come Francia e Germania, consente di eliminare l'IRAP dando cosi' consistenti risorse alle imprese, anche le micro e le piccole, che sono quelle piu' in difficiltà in caso di inasprimento di aliquote per finanziare i nuovi ammortizzatori.

 



 

Articolo interessante sia per la descrizione della situazione attuale, che per la rassegna delle soluzioni.

Riprendendo quanto leggo in vari post mi domando se la flessibilità non sia il solo problema del mercato del lavoro oggi.

Il fatto che in quel mercato non si affaccino abbastanza operatori dipende solo dalla disponibilità di un prodotto "poco flessibile"?

Mi pare che sul fatto, ad esempio, che nelle aziende italiane sia generalizzata la confusione fra gestione ed amministrazione del personale sia sintomatico che il livello di complessità fiscale, retributiva, contributiva e della soluzione delle controversie sia insostenibile.

Eliminare parte di questa complessità cozza con una serie di interessi di determinati "agenti" di quel mercato.

23 marzo 2012 L’URLO DELLA SCUOLA Nonostante tutto la SCUOLA PUBBLICA FUNZIONA, ma è ora di far sentire la voce di chi quotidianamente fa in modo che questo accada. E’ bene che tutti sappiano che … Negli ultimi dieci anni ci hanno tagliato, in modo continuo e costante, le risorse umane ed economiche, diminuendo notevolmente il numero dei nostri docenti, dei collaboratori e del personale di segreteria… Con l’accorpamento alla scuola media Parini-Merello perderemo ancora altro personale, soprattutto tra i collaboratori scolastici, a scapito della pulizia, della sorveglianza, della gestione quotidiana della mensa e di tutte quelle piccole emergenze tipiche di una realtà fatta di BAMBINI…inoltre un istituto comprensivo di 1500 alunni chi lo gestirà? Superman?! Non riceviamo arredi decenti e dignitosi da almeno 10 anni, nonostante le annuali richieste al Comune e piove dalle nostre finestre (dalle quali entra acqua ad ogni temporale) perché, pur avendo rifatto le facciate delle nostre scuole, nessuno ha messo in conto che anche gli infissi fossero da cambiare… Non abbiamo più compresenze e gli insegnanti saltano da una classe all’altra per garantire a tutti i bambini il prescelto tempo-scuola, a scapito delle attività laboratoriali, in piccolo gruppo, a sostegno di chi è più in difficoltà… Siamo costretti a chiedere un contributo volontario ai genitori, per spese che dovrebbero essere sostenute dallo Stato, che invece devolve i nostri denari alla scuola privata… Non esiste la possibilità per gli insegnanti di avanzare in carriera per merito…non viene riconosciuto il diritto allo studio dei docenti che pagano di tasca propria la loro formazione continua, senza alcun rimborso, mai!... Il maestro unico è stata una trovata politica per “risparmiare” sulla pelle dei vostri bambini, una restaurazione in nome di un insegnante ideale che non è mai esistito, mentre con la formula dell’organizzazione modulare (tre insegnanti su due classi) la scuola elementare italiana aveva raggiunto un livello tale di eccellenza da essere copiata all’estero… Insegnanti e bambini con le ultime riforme sono diventati numeri, ore, tempo-scuola e non più obiettivi d’investimento…ma certo, con la cultura non si mangia!!! La scuola pubblica, la nostra scuola si regge quotidianamente sulla buona volontà dei suoi operatori, che non vedono il rinnovo del proprio contratto dal 2009…che vengono derisi dall’opinione pubblica come quelli con “i due mesi di ferie”…ma hanno mai chiesto ai lavoratori della scuola se preferissero i due mesi di ferie o uno stipendio decoroso con un orario adeguato alle cose che ormai la scuola richiede di fare ogni giorno? Se quantificassimo il monte ore di straordinario (non pagato) di tutti gli insegnanti italiani, non basterebbe una finanziaria a saldarlo. Nonostante tutto, ogni mattina entriamo a scuola con il sorriso, lavoriamo con i vostri bambini cercando di dare loro sempre il meglio, aiutandoli a crescere e ad acquisire gli strumenti culturali che un giorno potranno usare per raddrizzare le cose storte del nostro, il loro, Paese. Gli insegnanti e i collaboratori della Scuola xxx (Genova) (A loro insaputa, pubblicato da me)

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http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002948.html

In sintesi, la mia idea, parzialmente supportata nel link segnalato, è che vi sia una cattiva volontà di selezionare persone di talento, mascherata spesso da mille scuse, che è tra le cause principali (oltre a quelle segnalate per es. da Ginelli) della scarsà produttività italiana. Ciò non si limita al pubblico, ma è ben presente anche nel privato.

I sedicenti imprenditori italiani vogliono persone abili e competenti... purché siano segnalate da persone fidate, magari parenti, auspicabilmente facenti parti del "giro" giusto, parlanti lo stesso dialetto, soprattutto coscienti di dovere il proprio lavoro ad una adozione di cui essere grati e non al fatto di essere le persone giuste al posto giusto.

Può anche essere vero, ma la discriminazione nei confronti dei lavoratori non "raccomandati" può basarsi solo su problemi preesistenti, ad esempio posizioni di rendita e distorsioni nel mercato del lavoro.  Se esistesse la possibilità per nuovi attori di entrare nel mercato italiano a condizioni eque, essi avrebbero tutto l'interesse ad impiegare il personale più capace e produttivo.  La raccomandazione non è il problema in sé (infatti è usanza comune negli Stati Uniti), ma il suo essere fondata su ragioni discriminatorie.

 

I sedicenti imprenditori italiani vogliono persone abili e competenti... purché

 

Spiegami quindi perché un imprenditore che non è sedicente non li spazza via dal mercato, a questi sedicenti.

La mia risposta ad oggi è che è il sistema a favorire i sedicenti, anzi, a produrli.

Se il sistema favorisce i sedicenti, anche quelli non sedicenti, se sono intelligenti, o lo diventano o se ne vanno.

Se vuoi favorire o selezionare i non sedicenti, devi cambiare il sistema che favorisce i sedicenti.

Commenti come questo sono deprimenti, soprattutto su un sito come questo dove si cerca di evitare la chiacchiera da bar. Ho già risposto a un altro commentatore che dovreste essere contenti che gli imprenditori italiani siano dei totali incapaci, vuol dire che si aprono prospettive interessanti per persone indubbiamente capaci come voi. Se invece vogliamo rimuovere questa "ipotesi di incapacità", uno potrebbe provare a pensare che il sistema di segnali in Italia è tutto sballato, con un'educazione superiore di scarsa qualità, poco selettiva e che tende ad appiattire i valori ed un'istruzione universitaria di livello medio-basso e generalmente poco vicina all'impresa. In un contesto simile voi chi assumereste? Lasciando perdere i figli che tanto in un modo e nell'altro finiscono a carico, non vedo cosa ci sia di stupefacente nel fatto che si usi la "segnalazione". Tra l'altro riduce notevolmente i costi di transazione, non vedo perché in un momento di crisi uno debba regalare soldi agli head hunter.

Secondo il sole 24 ore (qui) la proposta Fornero distingue nei fatti 4 casi di licenziamento:

 - Licenziamento discriminatorio → scatta la nullità dell'atto;
 - Licenziamento disciplinare ingiustificato → a scelta del giudice reintegro o indennizzo tra 15 e 27 mensilità;
 - Licenziamento economico ingiustificato → indennizzo tra 15 e 27 mensilità;
 - Licenziamento giustificato, sia esso disciplinare o economico → niente

Inoltre, i nuovi ammortizzatori sociali scatterebbero (forse, ma ne dubito)) nel 2017, non prima. Ora, mi sorgono tre domande:

1) Ma una soluzione di questo tipo non disincentiverà affatto il ricorso al giudice da parte dei lavoratori nei casi "dubbi": in fondo la scelta tra zero e 15-27 è abbastanza facile.

2) In questo schema, che senso ha mantenere il reintegro per motivi disciplinari ingiustificati? In fondo, significa solo che il datore di lavoro perdente e costretto al reintegro, lo licenzia istantaneamente per motivi economici...Anzi, prevedo che, tranne nei casi più evidenti, i licenziamenti disciplinari spariranno, visto che dal punto di vista del datore di lavoro il licenziamento disciplinare è "dominato" (non so se è il termine sia tecnicamente corretto) da quello economico.

3) Se non si accompagna una simile "rivoluzione" con una riforma altrettanto profonda degli ammortizzatori sociali universali, non si rischia di causare un effetto sociale ed economico devastante, tanto da rischiare una controriforma a breve?

 

non si rischia di causare un effetto sociale ed economico devastante, tanto da rischiare una controriforma a breve?

 

secondo alcuni il fine, anzi l'obiettivo indicibile  è proprio quello, abbassare i salari reali:

 

E veniamo alla nostra "riforma". Al di là degli escamotage che saranno inventati dai sindacati per salvare la faccia, l'articolo 18 sarà reso completamente inefficace. Dal momento che è ormai scontato che il licenziamento potrà essere motivato da ragioni "economiche o organizzative", nessun imprenditore sarà così sprovveduto da attuare licenziamenti discriminatori o persino disciplinari: un problema organizzativo  -  con la necessità di ristrutturazione che hanno tutte le aziende in questa fase  -  si trova molto facilmente. E allora, con i licenziamenti praticamente liberi, succederà una di queste due cose, o meglio tutt'e due. In parte verrà posta la scelta tra riduzioni di salario o un certo numero di licenziamenti; in parte ci si libererà di una parte di lavoratori più anziani per sostituirli, a minor costo, con giovani che nel migliore dei casi entreranno con il contratto di apprendistato, tre anni  -  estendibili a cinque  -  a salario ridotto e con la possibilità di esser mandati via. Ci saranno un po' di ammortizzatori sociali, ma con una durata inferiore agli attuali e con meno gente che avrà la possibilità di passare  -  alla loro scadenza  -  alla pensione, visto che l'età è stata aumentata. Un meccanismo poco appropriato, ma che finora aveva sostituito, anche se non per tutti i lavoratori, le carenze delle protezioni dalla disoccupazione.

 

oppure ( e parliamo di un liberista come Seminerio...)

http://phastidio.net/2012/03/19/monti-la-fiat-e-la-transizione-italiana-verso-la-poverta/

 

 

Il problema è che non siamo affatto certi che l’Italia uscirà da questa stagione di riforme (vere e presunte) con maggiore attrattività internazionale. Siamo un paese vecchio, già questo basterebbe a metterci a pesante handicap sulla strada del rinnovamento e del dinamismo. Non abbiamo punti di forza effettivi per la localizzazione di imprese internazionali: non sufficiente tutela dei diritti di proprietà né una pubblica amministrazione funzionante. Forse passeremo attraverso un profondo impoverimento che scardinerà definitivamente ogni residuo sistema di protezione sociale o di diritti, in un processo di “vietnamizzazione”. A quel punto, potremmo pure essere diventati attraenti per realizzare degli “impianti-cacciavite” di produttori manifatturieri esteri, magari costruttori di auto. Ma saremo tutti molto più poveri di oggi.

 

 

 

 

 

 

 

Ci sono diversi elementi della riforma riguardo ai quali vorrei avere maggiori informazioni e dettagli tecnici:

1. il tempo determinato. Rimarra' e le imprese saranno chiamate a pagare un 1.4% in piu' che verra' utilizzato per finanziare in parte gli ammortizzatori sociali. E' vero che si vuol chiedere all'impresa di pagare un prezzo per la flessibilita', ma non dovrebbero anche i lavoratori a tempo determinato ricevere un premio per accettare la flessibilita'?

2. l'ASPI. Verra' estesa a tutti. Durera' 12 mesi e vale il 75% della retribuzione lorda fino a 1.150 euro, e il 25% per la quota superiore a questa cifra, con un tetto di 1.119 euro lordi. Non dovrebbero questi sussidi essere subordinati alla partecipazione a politiche attive? Quali saranno queste politiche attive? Sara' sostenibile l'Aspi nel medio/lungo periodo?

3. i licenziamenti. Pensavo si sarebbe andati verso un costo di licenziamento crescente rispetto all'anzianita' lavorativa. Inoltre vorrei avere dettagli sull'effettiva applicazione di queste norme: chi definisce se il licenziamento e' discriminatorio? oppure ingiustificato? Se lo decide il giudice, allora non credo ci saranno grosse differenze rispetto alla situazione attuale.


Aspetto di avere piu' infomazioni per poter esprimere un parere.

Non credo che un datore di lavoro si svegli la mattina chiedendosi "chi licenzio oggi ...  e che scusa invento?". Se ha difficiltà economiche queste non possono che aumentare se non diminuisce il personale o non rinnova le qualifiche di cui ha bisogno, migliorando la produttività. Il rischio, ancora piu' devastante, è una serie di fallimenti e/o di delocalizzazioni.  Naturalmente puo' sempre chiedere se licenziare il 10% del personale o diminuire a tutti del 10% lo stipendio.  Secondo voi i dipendenti cosa potrebbero (o dovrebbero) decidere?

Volevo condividere le vostre opinioni in merito a questa riforma e alle possibili situazioni di licenziamento per chi ha più di cinquanta anni. Parliamoci chiaro, molte persone che hanno superato questa età percepiscono un discreto stipendio, tuttavia non fanno un lavoro così qualificato. Detto in modo brutale, è possibile assumere un trentenne, pagarlo un trenta per cento in meno e nel giro di tre/sei mesi avere la stessa produttività.

 

Che fare?

della fantascienza? :-)

 

http://en.wikipedia.org/wiki/Pebble_in_the_Sky

 

 

anyone who is unable to work is legally required to be euthanized. The people of the Earth must also be executed when they reach the age of sixty, a procedure known as "The Sixty," with very few exceptions; mainly for people who have made significant contributions to society

 

ridurgli lo stipendio.

Cito rispettivamente dal sito della CGIL e di Avvenire:

“Il Presidente del Consiglio Monti, che ha partecipato per pochi minuti all'incontro, ha tenuto a precisare che non si sarebbe tornati sulla discussione dell'articolo 18, considerata chiusa, e che è impegno del governo formulare il testo in modo tale che non si determinino abusi sui licenziamenti economici. La CGIL ribadisce che l’unico modo per evitare abusi sui licenziamenti è il reintegro nei posti di lavoro, altrimenti confermiamo il fatto che siamo in presenza di un provvedimento teso a rendere i licenziamenti più facili”.

Commento: infatti si vogliono rendere i licenziamenti più facili nel senso di attribuire loro un costo certo... che scoperte! Oggi si fanno ugualmente ma si deve trattare di caso in caso – oppure correre dei rischi. Non mi pare necessariamente un peggioramento...

monsignor Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso-Bojano e presidente della Commissione lavoro, giustizia e pace della Conferenza episcopale italiana, commentando l'attuale progetto di riforma del mercato del lavoro: "Bisogna chiedersi - ha detto il vescovo in un'intervista al settimanale Famiglia cristiana - davanti alla questione dei licenziamenti, chiamati elegantemente, con un eufemismo, 'flessibilità in uscita', se il lavoratore è persona o merce. È la grande istanza dell'enciclica sociale Rerum Novarum". “La questione di fondo: il lavoratore non è una merce. Non lo si può trattare - dice Bregantini - come un prodotto da dismettere, da eliminare per motivi di bilancio, perchè resta invenduto in magazzino.”


Commento: ma merce lo è il lavoro, e quindi – per definizione – il lavoratore ossia colui che si definisce tale in quanto produttore di lavoro. Se vogliamo de-mercificare il lavoratore (ed io sono d’accordo) bisogna sapere che c’è un doppio prezzo da pagare, ossia devono esistere difese interne (ammortizzatori sociali, cassa integrazione, sovvenzioni di stato alle aziende, divieto di licenziamento, tutte queste cose rientrano nelle opzioni possibili) ed esterne (il protezionismo – in qualche grado - diventa una necessità, almeno in un mondo dove esistono nazioni diverse con regole diverse).

 

Se vogliamo de-mercificare il lavoratore (ed io sono d’accordo) bisogna sapere che c’è un doppio prezzo da pagare, ossia devono esistere difese interne (ammortizzatori sociali, cassa integrazione, sovvenzioni di stato alle aziende, divieto di licenziamento, tutte queste cose rientrano nelle opzioni possibili) ed esterne (il protezionismo – in qualche grado - diventa una necessità, almeno in un mondo dove esistono nazioni diverse con regole diverse).

 

Quindi tu desideri un paese semi-feudale, abitato perlopiù da morti di fame che cercano di scappare altrove?

Tanto per dire, ma chi lo decide a quali azienda dare le sovvenzioni, e a quali no? E quelli che il lavoro non ce l'hanno, come vengono aiutati dal divieto di licenziamento?

Commento: ma merce lo è il lavoro, e quindi – per definizione – il lavoratore ossia colui che si definisce tale in quanto produttore di lavoro. Se vogliamo de-mercificare il lavoratore (ed io sono d’accordo) bisogna sapere che c’è un doppio prezzo da pagare,

Non è detto che sia così.  A rigor di logica, l'obiettivo di "demercificare" il lavoratore nel senso di rispondere alle istanze di dignità dei lavoratori richiamate da Bregantini (e già esposte nell'enciclica Rerum novarum) spetta al sistema di assicurazione sociale.  Un sistema supportato da politiche attive per l'impiego, come quello proposto da Ichino sul modello danese, può tranquillamente fare fronte a tale esigenza.  Di fatto, il progetto di riforma annunciato dal Governo sembra aver completamente trascurato l'impianto delle due proposte (Ichino e Boeri-Garibaldi) di cui finora si era discusso, a parte aspetti secondari quali il disincentivare e limitare l'applicabilità dei contratti flessibili.

 

La novità del nuovo testo è che l'inesistenza del giustificato motivo oggettivo, accertata dal giudice, determina solo il pagamento di un'indennità tra le 15 e le 27 mensilità e non più il reintegro. Prima del licenziamento è prevista una procedura di conciliazione in cui il lavoratore è assistito dai sindacati. Se la conciliazione produce la risoluzione consensuale del rapporto, il lavoratore sarà aiutato nel ricollocamento. In caso contrario si andrà dal giudice con le conseguenze già dette. La Cisl e la Uil hanno chiesto che nel testo venga specificato che se nel processo emergono motivi diversi da quello economico, cioè «discriminazioni, abusi, irregolarità nelle procedure o motivi disciplinari», il giudice annulli il licenziamento. Il governo sembra orientato a accettare la formulazione che, qualora il licenziamento rientri sotto la fattispecie disciplinare o discriminatoria, se ne applichi la relativa discliplina

 

se è come detto sopra la nuova legge non cambia nulla anche per i licenziamenti per motivi economici (tranne forse che si parla solo di criteri economici oggettivi e non c'è menzione di quelli soggettivi quali inidoneità sopravvenuta alla mansione, scarso rendimento, eccetera); e la condizione:

 

qualora il licenziamento rientri sotto la fattispecie disciplinare o discriminatoria, se ne applichi la relativa discliplina

 

 

dovrebbe essere a mio avviso automatica in quanto se non si ravvisa la motivazione economica questa serviva solo a nascondere un fine discriminatorio (ci sarà pure una ragione per il licenziamento?) Non fosse così per sfuggire all'obbligo di reintegro basterebbe giustificare ogni licenziamento con motivi economici.

Pertanto non cambierà nulla: infatti se il motivo economico sarà riconosciuto dal licenziato o dal giudice il licenziamento sarà ritenuto valido ed al lavoratore sarà corrisposta un'indennità maggiore (da 15 a 17 mesi invece che da 2,5 a 10 di prima)

Se il motivo invece non sarà riconosciuto il licenziamento non potrà che essere discriminatorio (gli eventuali motivi disciplinari avrebbero dovuto costituire la motivazione da subito, mentre solo quelli discriminatori sono inconfessabili e devono per forza scaturire dall'analisi dei motivi addotti); diverrebbe  irrilevante chi ha l'onere della prova, per cui ci sarà il reintegro (con ampliamento dei motivi che determinano discriminazione )

Non cambia, nulla quindi se non in meglio per i lavoratori, e la durata dell'iter giudiziario, e quindi dell'incertezza, rimane immutato.

Chiedo ad avvocati e giudici di Nfa dove sbaglio e sbaglio di sicuro poichè questi grandi professori non possono essere così naif.

Aspettiamo in ogni modo il testo definitivo.

Credo che alcune affermazioni che fai non siano corrette, almeno per come io ho capito il testo pubblicato sul Corriere della Sera. Ad es. tu dici che "se non si ravvisa la motivazione economica questa serviva solo a nascondere un fine discriminatorio"; sara' anche cosi', ma la conseguenza che ne trai, e cioe' il reintegro, non e' per niente scontata perche' a quel punto l'onere di dimostrare che ci sia stata una discriminazione spetta al lavoratore e non mi sembra che ci sia un automatismo in tal senso. Se non sei un sindacalista, una donna incinta, di colore, ebreo, gay, ecc. non e' sicuro che il giudice ritenga si tratti di disciminazione. A quel punto vieni indennizzato ma perdi il posto, una bella differenza rispetto a prima quando il giudice aveva a disposizione il reintegro. Anche a proposito della durata dell'iter giudiziaro nel testo pubblicato si dice una cosa diversa da quella che dici tu, e cioe' che verra' istituito un canale preferenziale; ovviamente sei libero di non crederci, neanche io ci credo, pero' bisogna dare almeno il beneficio del dubbio. Come gia' detto da qualcuno in un commento precedente credo poi che praticamente spariranno i licenziamenti disciplinari perche' l'azienda non vorra' rischiare il reintegro che in questo caso e' ancora previsto. Alessandro.

Rissumendo: nella proposta del governo non e' rimasto nulla della felxisecurity auspicata da molti.

Niente security, visto che confindustria non vuole metterci i soldi.

Niente assegno di disoccupazione per i precari, la cui condizione non viene migliorata da questa riforma.

Un assegno di disocupazione di entita' miserevole previsto per i soli dipendenti piu' gli apprendisti, limitato ad un solo anno di durata. Che pure andra' a regime solo dal 2017.

Liberta' di licenziamento per motivi economici ingiustificati senza possibilita' di reintegro. Ed e' ovvio che un motivo economico ingiustificato nulla a che fare con la flessibilita'. Questa norma e' solo un grimaldello per abbassare ulteriormente il costo del lavoro, liberandosi dei contratti piu' onerosi e per tornare agli anni '50, quelli delle discriminazioni verso i sindacalisti  e dei reparti confino nella FIAT di Valletta.

 

Qualcuno sa dirmi cosa mira ad ottenere questa riforma oltre che cercare di rilanciare la produttivita' abbassando ulteriormente il costo del lavoro? Ovvero esclusivamente a spesa dei lavoratori dipendenti?

Nulla di cosi' sorprendente, se si pensa che gia' ora una buona parte dei contratti precari vengono utilizzati per abbassare il costo del lavoro e non per aumentarne la flessibilita'.

Davvero abbiamo bisogno di questa flessibilita'?

E che gioco sta giocando Monti quando annuncia che il tempo della concertazione con le categorie e' finito mentre proprio in questi giorni il suo governo deve piegarsi alle richieste di Banche e ordini professionali?