Le rendite da pubblico impiego, la solidarietà e la casta

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Nei commenti a un recente articolo scritto da uno di noi su insegnamento gratuito e rendite da pubblico impiego sono state poste varie domande e contestate alcune affermazioni. Dato che la risposta a tali domande richiede una certa articolazione, abbiamo deciso di porla in forma di nuovo post (addirittura un Ex Kathedra), anziché affidarci ai commenti.

In questo articolo cerchiamo in primo luogo di fornire una stima un po' più precisa delle rendite da pubblico impiego e della loro variazione territoriale. Cerchiamo inoltre di spiegare in dettaglio perché riteniamo che l'eliminazione di tali rendite sia importante, e sia l'unica soluzione praticabile per una seria ripresa delle crescita economica in Italia. Cercheremo infine di spiegare perché tale eliminazione non contraddice i principi di solidarietà verso i più bisognosi; al contrario, la loro eliminazione è necessaria se si vuole seriamente aiutare coloro che stanno peggio.

In un commento al post Marco Boninu chiede di spiegare meglio come si potrebbero ridurre le rendite da pubblico impiego. Dato che la rendita è la differenza tra l'utilità dell'impiego pubblico e l'utilità della migliore alternativa (impiego in altro settore o emigrazione), la sua riduzione richiede la riduzione del primo termine e/o l'aumento del secondo.

Cominciamo innanzitutto a quantificare l'entità di queste rendite. Purtroppo l'ISTAT ha smesso dal 2004 di pubblicare i dati riguardanti i redditi nella sua indagine sulle forze di lavoro, disponibile peraltro solo a pagamento. La promessa di rendere note le variabili dei redditi in un prossimo futuro non si è purtroppo ancora materializzata. Per fortuna rimane disponibile l'indagine sui bilanci delle famiglie italiane della Banca d'Italia, i cui dati sono liberamente disponibili sul sito. La numerosità del campione non è enorme, ma qualche calcolo non completamente impreciso lo si può fare.

Abbiamo innanzitutto calcolato, usando i dati dell'ultima indagine pubblicata (relativa al 2006), la media dei redditi da lavoro dipendente nel settore pubblico e quella dei redditi da lavoro dipendente nel settore privato. Ci limitiamo ai redditi da lavoro dipendente perché non riteniamo i redditi da lavoro autonomo riportati in questa indagine molto attendibili, oltre al fatto che una parte dei redditi da lavoro autonomo vengono dal settore pubblico (consulenze, contratti, piccole forniture, eccetera) ma l'inchiesta non permette determinare quali essi possano essere.

La seguente tabella raffigura i livelli di tali redditi (annuali, netti, in euro) disaggregati per aree geografiche

AreaPubblicoPrivatoRapporto
Nord18545158611.17
Centro20285164631.23
Sud e Isole16963122571.38

È interessante notare l'"effetto Roma" nei dati del Centro, effetto che richiederebbe commenti visto che segnala un altro tipo di rendita ma, per oggi, occupiamoci di quella iniziale. La tabella ci dice che, al Sud, un lavoratore del settore pubblico guadagna in media quasi il 40% in più di un lavoratore dipendente nel settore privato, mentre al Nord "solo" il 17% circa in più. Questo dato è però ancora troppo grezzo. La differenza di remunerazione tra pubblico e privato può infatti dipendere, anziché da una reale differenza nelle compensazioni, dalla diversa composizione (per esperienza, livello di istruzione o altri fattori) dell'insieme dei lavoratori. Per fare un esempio ultrasemplificato, supponiamo che nel privato ci siano operai e impiegati, e che nel pubblico ci siano solo insegnanti. Supponiamo inoltre che un insegnante venga pagato 138 euro, un impiegato 118 e un operaio 100. Infine, supponiamo che operai, impiegati e insegnanti vengano pagati lo stesso su tutto il territorio nazionale, ma che nel settore privato ci siano solo impiegati al Nord e solo operai al Sud. Allora i numeri che vedremmo sarebbero esattamente quelli della tabella, anche se in realtà la situazione salariale è omogenea a livello nazionale.

Occorre quindi tener conto della composizione della forza lavoro così come di altri fattori. È possibile tenere conto di questi fattori usando alcune tecniche statistiche piuttosto semplici ma che non spieghiamo per non tediare il lettore. I risultati dicono che a parità di età e livello di istruzione, al Nord essere dipendente del settore pubblico ha un effetto leggermente negativo sul salario (-2%) (questo dato si riconcilia con quello della tabella considerando che il settore pubblico ha dipendenti più educati e più anziani che il settore privato). Al Sud invece essere dipendenti del settore pubblico aumenta il salario del 22% circa, sempre a parità di età e di istruzione (nota per i secchioni: il coefficiente per il Nord non è statisticamente significativo, quello per il Sud ha uno standard error del 4%).

Limitiamo ora l'analisi alle persone istruite. Purtroppo la numerosità del campione non ci consente di focalizzarci sui laureati. Possiamo però limitarci ai lavoratori che hanno almeno un diploma di istruzione superiore, e calcolare quale sia la rendita da lavoro pubblico per persone con almeno un diploma, quindi la rendita per le persone con un minimo di istruzione. L'effetto rimane sostanziale: -5% al Nord, e +12% al Sud (per i secchioni: standard error del 4% in entrambi i casi). Insomma un differenziale medio del 18% per i diplomati fra Sud e Nord.

Ma il fatto interessante è che lo stesso calcolo, ripetuto con i dati del 1993, fornisce un effetto sostanzialmente nullo sia al Nord che al Sud. In altre parole, le rendite da lavoro pubblico per le persone con almeno un diploma erano praticamente nulle nel 1993, e sono da allora rimaste sostanzialmente nulle al nord, ma sono aumentate al sud.

La seguente tabella spiega il tutto in maggiore dettaglio, per i soliti secchioni. Per gli altri, basti sapere che i numeri, moltiplicati per 100, sono interpretabili come la differenza percentuale di stipendio percepita dai dipendenti pubblici.

AnnoNordSud
1993-0.03 (0.04)0.03 (0.06)
1995-0.08 (0.03)0.11 (0.06)
1998-0.06 (0.03)0.22 (0.06)
2000-0.11 (0.03)-0.02 (0.08)
2002-0.04 (0.04)0.10 (0.05)
20040.04 (0.03)0.04 (0.06)
2006-0.05 (0.04)0.12 (0.04)
Lavoratori con almeno diploma di scuola superiore.
Coefficienti della variabile "dipendente pubblico"
di una regressione log-lineare del reddito da lavoro dipendente
su: eta, eta^2, dip. pubblico (deviazione standard fra parentesi)

Abbiamo usato tutti gli anni in cui, nell'indagine sui redditi familiari della Banca d'Italia, è possibile distinguere i lavoratori delle pubbliche amministrazioni dagli altri lavoratori. Come si può vedere i coefficienti sono un po' ballerini, per cui gli esatti valori quantitativi vanno presi un po' con le pinze, ma il messaggio è inequivocabile. Il coefficiente è sempre positivo al Sud (tranne che per un anno). Al Nord è sempre negativo (tranne che nel 2004) anche se non di molto (tranne che nel 2000, quando è fortemente negativo). La differenza tra i coefficienti è sempre non negativa, e va da un minimo di 0 nel 2004 a un massimo 0.28 nel 1998. Di fronte a questi differenziali, non stupiscono le scelte di tanti aspiranti insegnanti meridionali che accettano le forche caudine dell'insegnamento gratuito nella scuola privata per accedere alla scuola pubblica.

Torniamo ora alla questione originaria: cosa fare per ridurre le rendite da pubblico impiego? La prima e ovvia cosa da fare è, come minimo, far si che per un po' i salari pubblici crescano meno dei salari pagati nel settore privato. Notare che questo si ottiene anche quando i salari nel privato crescono molto, non solo bloccando quelli pubblici. È anche necessario decentrare la contrattazione. Non esiste nessuna buona ragione di equità o di efficienza per cui i salari nominali dei dipendenti pubblici debbano essere determinati in modo uniforme a livello centrale, senza tener conto del costo della vita e delle condizioni del mercato del lavoro locali. Ovviamente però una simile riforma non servirebbe a nulla se non si attuasse al contempo un federalismo serio, in cui gli enti locali diventano responsabili per il reperimento, mediante tassazione, delle risorse con cui i dipendenti pubblici vengono pagati

Una cosa un po' meno ovvia è invece la riorganizzazione del lavoro e della struttura della retribuzione nel settore scolastico. Al di là dei livelli salariali medi esiste la questione dei criteri di assunzione e del legame tra retribuzione e risultati. È un argomento complesso sul quale non siamo esperti, e quindi non ci addentriamo. Osserviamiamo solo, per rispondere in parte all'osservazione di marcospx, che non appare molto plausibile che ci siano forti effetti di selezione avversa legati al livello della retribuzione salariale. Sospettiamo invece che possano esistere effetti negativi di selezione avversa legati più alla struttura della compensazione che al livello. Una retribuzione rigida, indipendente dalla performance e che dipende solo dall'anzianità non tende ad attrarre le persone più dinamiche. Una retribuzione più sensibile ai risultati (cosa complicata da fare perché misurare i risultati non è banale, ma nemmeno impossibile se la si vuol fare sul serio) potrebbe probabilmente aumentare la qualità del corpo docente. Però questo è un tema complesso che lasciamo per riflessione futura.

Aumentare l'utilità che si ottiene nelle occupazioni alternative, è ovviamente assai più difficile. Richiede, puramente e semplicemente, che riparta il processo di crescita nel mezzogiorno. Per ragioni che cercheremo di spiegare più sotto (ma che potete trovare anche in questo articolo di Michele) la crescita può ripartire solo se si eliminano le rendite pubbliche e quindi il ferreo controllo che la casta politica esercita sulla società.

Veniamo ora allo ''sparare su Bambi'', espressione con la quale crediamo si intenda che l'eliminazione delle rendite da impiego pubblico finirebbe per colpire le parti più deboli e bisognose di protezione della società. L'espressione viene introdotta in questo commento di si-culo, che ringraziamo per le utili informazioni che riporta. Concetti simili vengo espressi in un commento di Cipangu. Da quel che ci è dato capire, i commenti non contestano la correttezza dell'analisi, ossia l'esistenza di rendite pubbliche come fonte del fenomeno considerato. Contestano invece la soluzione, ossia l'eliminazione delle rendite. In realtà siamo convinti che posizioni simili siano estremamente diffuse tra tantissime persone decenti e in buona fede. Siamo anche convinti che se non si inizia a capire quali sono le conseguenze nefaste di tali posizioni non c'è alcuna speranza di attivare un processo di crescita del Mezzogiorno, per cui spenderemo un po' di tempo per discuterle.

Cominciamo intanto con lo sbarazzare la piazza da un equivoco. Cipangu ci dice che ''dall'Amerika è facile dimenticarsi un po' come vanno le cose a Caserta'', un'accusa un po' simile a quella che ci mosse la sciura Marcegaglia ai tempi della polemica Alitalia (professori d'oltreoceano che non hanno chiare le cose, o qualcosa del genere). No, non ce lo dimentichiamo affatto. Lo sappiamo che la situazione a Caserta è grave; solo che non è grave per caso. Lo sappiamo che il settore privato offre scarse o nulle opportunità, e quelle poche a basso salario. Lo sappiamo che quando si parla per un giovane laureato casertano di ''miglior possibile alternativa all'impiego pubblico'' si parla quasi sempre di emigrazione. E sappiamo anche che l'emigrazione implica costi psicologici e materiali non trascurabili, possiamo assicurare che questo lo sappiamo molto bene.

Non ci illudiamo che la riduzione delle rendite pubbliche possa avvenire senza imporre costi, anche alti, a tante persone. Ma la domanda che poniamo è: qual è l'alternativa? Quali sono i costi che implica il mantenimento dello status quo?

Crediamo che la parte finale del commento di Cipangu sia un buon punto di partenza per la discussione. Si afferma

 

Certo nessuno è letteralmente obbligato a fare questa scelta, e se vogliamo ha le sue responsabilità etiche. Potrebbe provare a emigrare per esempio, ma se uno ha poche ambizioni o magari problemi personali il costo è certamente superiore al vantaggio - anche i romeni mica emigrano tutti, scusa. Poi possiamo anche discutere di come mai il mercato del lavoro sia così anemico, e perché ci siano tante persone laureate poco spendibili su questo mercato, ma questa è un'altra storia.

Ecco: non è un'altra storia. Il motivo per cui così tante persone laureate sono poco spendibili nel mercato è che la presenza di rendite da impiego pubblico rende conveniente disegnare il proprio percorso di carriera al fine del perseguimento di tali rendite, piuttosto che per produrre e commercializzare beni e servizi che qualcun altro scelga volontariamente di comprare. Il motivo per cui il mercato del lavoro è così anemico è che una quantità impressionante di energie ed intelligenza nella società meridionale (e anche quella settentrionale, purtroppo, per quanto in misura relativamente inferiore) va nel perseguimento di rendite pubbliche e nel tentativo di appropriarsi di ricchezza creata altrove, piuttosto che alla creazione di ricchezza.

Questa è la questione centrale che vogliamo porre, che tanta gente di buona volontà che si fa incantare dalla sirena della ''solidarietà verso le regioni più povere'' sembra rifiutarsi di capire. L'equilibrio politico-economico che si è venuto a creare nel paese ha riservato una triste sorte al meridione. In tale equilibrio una casta famelica, mediocre e incapace di politicanti meridionali riceve risorse aggiuntive dallo stato centrale, usa tali risorse per creare rendite e distribuisce tali rendite per rinsaldare e perpetuare il consenso che si crea intorno ad essa. Il meccanismo non è certo limitato alla scuola e ha infinite ramificazioni. Il peccato originario è la creazione delle rendite, non il particolare meccanismo con cui vengono distribuite. La vicenda delle scuole private che sfruttano i giovani insegnanti è emblematica. La decisione di far valere i punti acquisiti con l'insegnamento nella scuola privata fu ovviamente una decisione politica, decisione con la quale si permise a una particolare clientela (le scuole private) di azzannare una fetta della torta. Ma veramente si pensa che eliminando questo meccanismo non salterebbe fuori qualcos'altro? Per esempio corsi di dottorato fantasma che permetterebbero ad astuti e ben immanicati baroni universitari di azzannare a loro volta una fetta della torta? O qualche altra furbata? Ovunque esistono rendite da appropriare ci sarà gente che si ingegna per ottenerle e politici che si ingegnano a distribuirle. Come abbiamo detto, il peccato originario è la creazione di rendite e la loro ripartizione per criteri politici. L'unica soluzione seria è l'eliminazione di tali rendite.

Chi finisce per pagare l'eliminazione delle rendite? Veramente questo significherebbe ''sparare su Bambi''? Abbiamo i nostri dubbi. Anche qui, la vicenda della scuola è emblematica. Si, certo, può sembrare un buon affare per il quindicenne casertano di classe media che si creino posti ben pagati da insegnante nel settore pubblico. Questo, si pensa, gli darà qualche possibilità in più, gli permetterà di evitare l'emigrazione. E qualche briciola alla fine dovrà toccare pure a lui in effetti, altrimenti se ne andrebbe e non parteciperebbe al giochino. Ma di briciole si tratta. Il grosso della torta va altrove. Va agli astuti presidi delle scuole private che hanno trovato il modo di ottenere lavoro semigratuito. Va ai politici che hanno facilitato questo sistema e che, manco a dirlo, si fregeranno del titolo di difensori della scuola, sia privata sia pubblica. Non sono forse tali politici, immancabilmente, in favore dell'aumento dei salari degli insegnanti? Per avere un'idea di quale sia la dimensione del problema, date un'occhiata alla seguente figura tratta dall'indagine sui bilanci familiari della Banca d'Italia

 

Sono numeri impressionanti. Al Nord il 72,3% dei giovani tra 20 e 30 anni percepisce un reddito, mentre al Sud tale percentuale è del 38,8%, poco più della metà. Questo è quello che il sistema di creazione delle rendite pubbliche è riuscito a creare per i giovani meridionali. Questi sono i risultati della scellerata politica attuale, in cui ''aiuto al Sud'' è sinonimo di creazione di rendite pubbliche che poi, come tutti i beni razionati, vengono ottenute mediante una lunga ed estenuante attesa. Veramente pensiamo che si possa continuare così? Veramente pensiamo che questo sia bene per la società meridionale? È sicuramente bene per la casta che la controlla, ma per gli altri?

Andiamo un passo più in là, proviamo a pensare ad altri percettori di rendite, magari al Nord.

Pensiamo al giovane padre di famiglia che fa il tassista a Milano, e che si è appena comprato per decine di migliaia di euro una licenza. Si tratta di persona decente e normale, gente tranquilla che lavora. Ha speso tutti questi soldi per comprare la licenza nella legittima aspettativa che servisse ad assicurare alla sua famiglia un avvenire dignitoso. È giusto liberalizzare ed eliminare le licenze? È giusto sparare su Bambi?

Pensiamo alla ragazza figlia di negozianti, che non è andata a scuola perché doveva aiutare i genitori, nella legittima aspettativa di ereditare il negozio per lavorarci e vivere dignitosamente. Immaginiamo che ora un supermercato voglia aprire in una zona vicina, o voglia stare aperto la domenica fregandole i clienti. È giusto permetterlo? È giusto sparare su Bambi?

Si possono fare infiniti esempi di questo tipo. Il tassista, la negoziante, non sembrano meno bisognosi o meritevoli di protezione del ragazzo casertano di classe media che non ha voglia di emigrare. A loro volta tutti questi casi non ci sembrano, in tutta onestà, i più gravi. L'Italia è un paese in cui vaste fette della popolazione non godono di alcun ammortizzatore sociale in caso di disoccupazione. Se si vuole essere solidali bisogna esserlo sul serio. Primo, chiedendosi chi riceve aiuto dall'intervento pubblico, e se è vero che chi lo riceve è veramente il più bisognoso. Secondo, chiedendosi se le forme di aiuto che si adottano sono veramente le più efficaci per promuovere lo sviluppo economico e per far si che le situazioni di sofferenza spariscano.

A costo di apparire dei sanguinari la nostra risposta è si, bisogna sparare su Bambi o almeno provarci. Ossia, bisogna far entrare nel discorso politico generale l'idea che la soluzione ai problemi economici del paese passa per l'eliminazione delle rendite, non per la loro difesa e perpetuazione. Poi certo, in un mondo perfetto occorrerebbe predisporre ammortizzatori sociali, aiutare le persone le cui legittime aspettative sono state disattese e così via. Siamo a favore, ci mancherebbe. Ma c'è una differenza cruciale tra una politica che elimina le rendite, magari compensando parzialmente quelli che vengono colpiti, e una politica che tende a perpetuarle. La prima favorisce lo sviluppo e la mobilità sociale, la seconda uccide entrambi, oltre che la speranza.

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Commenti

Ci sono 85 commenti

devo dire che l'articolo teorico di sandro mi aveva molto convinto, pero' guardando i numeri sono un po' perplesso. Guardando la tavola della regressione, dei 7 anni che avete calcolato, al sud, in 3 c'e' un effetto positivo , sicuramente (per gli standard di tutti) statisticamente significativo (1998,2002,2006), in 3 l'effetto e' indistinguibile da zero (1993,2000,2004) e nel 1995 boh (com'e' 1.83?). Anche includendo quest'ultimo, siamo 4 a 3. Con questi numeri, forse buona parte della rendita (se c'e') deriva dalla stabilita' del posto, piu' che dal salario. O sto mancando qualcosa?

Parte della variabilità è probabilmente dovuta alle date del rinnovo dei contratti.

Capisco la tua titubanza, io però guarderei un po' meno agli standard errors e un po' più alla dinamica e alle differenze. Se togli il 2004, che mi sembra oggettivamente un anno anomalo, mi pare che si possa affermare che le differenze dei coefficienti fra nord e sud sono sempre notevoli, ad eccezione del 1993. 

Nel 2004 i coefficienti nella tabella sono entrambi pari a 0.04 solo grazie ad approssimazione, ma, guarda caso, il coefficiente è pari a 0.036 al Nord e 0.043 al Sud. In quell'anno la differenza grossa riguarda i diplomati della scuola media o inferiore (coefficienti rispettivamente pari a 0.01 (0.05) e 0.38 (0.07)). 

Concordo con l'analisi presentata: l'Italia funziona proprio come descritto secondo me.  Tuttavia ci sono una serie di elementi che rendono l'analisi quantitativa difficile, come ad es. l'evasione fiscale.  Come sono stati ottenuti i redditi? La stima tiene conto dell'evasione fiscale? Questa riguarda sia i redditi privati che quelli pubblici. Uno dei "vantaggi" dell'impiego pubblico e' che spesso consente parziali o totali "evasioni". DIversi dipendenti pubblici vengono pagati per non far nulla (ad es. gli spazzini stipendiato dalla regione Campania che non lavorano perche' mancano gli autocarri) oppure svolgono attivita' senza reali controlli, e possono uscire a fare la spesa in orario d'uffiicio, oppure possono sacrificare la loro attivita' pubblica per svolgere seconde attivita' necessariamente o volontariamente in nero: ad es. visite mediche private, lezioni private.  Il sistema italiano e' particolarmente opaco e viziato da illegalita' diffusa, per cui a meno di non fare un'analisi impegnativa e a vasto raggio forse la stima piu' accurata e omnicomprensiva della rendita da impiego pubblico si puo' fare - per alcuni casi specifici - per es. quantizzando l'investimento consistente nell'insegnamento (semi-)gratuito nelle scuole private.

Bellissimo articolo. Solo un piccolo appunto: l'ultimo dato sui giovani percettori del sud potrebbe essere viziato negativamente dalla maggior diffusione del lavoro nero. Non che questo sia un bene, chiaro.

L'ipotesi di differenziare gli stipendi degli insegnanti, pagandoli di meno al sud, mi sembra molto  lontana dalle possibilità concrete di realizzazione. Vale la pena di discuterne (se non come esercizio intellettuale)? Penso invece che recenti provvedimenti del governo abbiano reso più vicina una soluzione parziale del problema che mi sta più a cuore: come consentire ai laureati bravi, che lo desiderino, ma che sono in grado anche di trovare un altro lavoro, di accedere alla professione di insegnante senza le lunghe attese e i potenziali sfruttamenti, cui si sottomettono solo i laureati che non hanno altre possibilità di impiego. Il Governo ha fatto qualche passo nella direzione giusta: ha deciso di bloccare (non sopprimere, perché politicamente impossibile) tutte le "graduatorie" di abilitati che consentono l'accesso all'impiego come insegnante a tempo indeterminato. Ha deciso di sopprimere le SSIS, che erano fabbriche di abilitati all'insegnamento, potenzialmente in grado di ottenere l'accesso ad una graduatoria. Ora non dovrebbe essere piu' possibile entrare in una graduatoria di aventi diritto alla assunzione. I "punti" acquisiti con l'insegnamento nelle scuole private o con il dottorato, od altro, non dovrebbero contare più.  Si tratta, a questo punto, di disegnare uno strumento rapido di formazione degli insegnanti (non più di cinque anni universitari in tutto) ed una selezione affidata alle singole scuole per le assunzioni a tempo indeterminato. Questa sembra essere l'intenzione del Ministro. Forse non ce la farà, ma dovremmo incoraggiarla. 

Gli esercizi intellettuali qualcuno li deve pur fare. Pienamente d'accordo con te che per l'establishment politico-sindacale italiano la vacca sacra del salario nominale uniforme nazionale (ossia, del salario reale difforme) sia e resti intoccabile. Ma, come diceva il buon Abbie Hoffman, sacred cows make the tastiest hamburger. Quindi, ci divertiamo a proporre l'improponibile.

Più seriamente, noi riteniamo che il nostro dovere sia quello di fare analisi serie e cercare di spiegare le cose come stanno. Forse, con il tempo, le buone idee inizieranno a circolare. Ragionare su ciò che è fattibile e su quali sono le strategie politiche contingenti più opportune per migliorare l'attuale situazione è un compito diverso, importante ma diverso.

 

Ha deciso di sopprimere le SSIS, che erano fabbriche di abilitati all'insegnamento, potenzialmente in grado di ottenere l'accesso ad una graduatoria. [...]  Si tratta, a questo punto, di disegnare uno strumento rapido di formazione degli insegnanti (non più di cinque anni universitari in tutto) ed una selezione affidata alle singole scuole per le assunzioni a tempo indeterminato. Questa sembra essere l'intenzione del Ministro. Forse non ce la farà, ma dovremmo incoraggiarla. 

Non mi è chiaro il nesso: le SISS erano già uno strumento rapido di formazione degli insegnanti (il teacher training esiste in tutto il mondo). Intendi che si debbano abolire le "graduatorie" e lasciare solo la formazione specialistica, conducente ad una idoneità - e poi lasciare totale libertà di assumere? Questo comunque non inficia il concetto di SISS, che invece era stato in origine pensato in modo "ragionevole".

RR

Pagare per fare qualcosa di inutile tout-court al fine di "far girare" l'economia.  Dov'e' la profonda differenza con il pagare di piu' qualcosa che invece dovrebbe essere retribuito meno?

Visione ottimistica per visione ottimistica, la mia paura (anzi, certezza) e' che a un'analisi attenta e piena di buona volonta' questo differenziale, questa "rendita da pubblico impiego", in un ambiente filokeynesiano come quello italiano possa portare a dire "ok, almeno per questo siamo sulla buona strada".  E sto parlando di persone seriamente interessate a risolvere la questione.

Insomma, non se ne esce.

Però, se veramente si vuole usare seriamente l'argomento keynesiano, si dovrebbe anche osservare che la propensione al consumo è più alta per le classi più povere. Quindi, se proprio si vogliono distribuire dindini così a gratis ignorando problemi di incentivo e quant'altro, meglio dare un sussidio di disoccupazione a chi non ce l'ha piuttosto che aumentare il salario dei dipendenti pubblici.

Per qualche ragione (si era partiti da insegnanti disponibili a prestare servizio sottopagato presso scuole private pur di far punteggio, ma ora ci si allarga a tutto il settore pubblico e privato) gli autori assumono che vi sia una rendita da pubblico impiego e che questa sia maggiore al Sud. La loro definizione di rendita è basata sul reddito: i redditi dei dipendenti pubblici sono più elevati di quelli dei dipendenti privati, pertanto vanno ridotti gli stipendi pubblici (o fatti crescere meno) o aumentati quelli privati (o fatti crescere più velocemente) in particolare al Sud dove la rendita è più elevata. La loro intuizione trova conferma in una indagine campionaria che stima la ricchezza delle famiglie. Il sospetto viene che si stiano misurando pere con mele, cioè impiegati pubblici con operai di piccole imprese, ma per considerare questo effetto ecco che si offre una soluzione: confrontare i redditi di coloro che hanno almeno un diploma di scuola superiore. L’intuizione trova ancora conferma.


Questa rappresentazione della realtà rimane problematica e fuorviante. Ho delle critiche che si possono dividere in più gruppi.

I dati.
L’indagine campionaria utilizzata non è finalizzata al confronto territoriale dei redditi tra lavoro dipendente pubblico e privato, quindi i dati vanno presi colle pinze. I dipendenti pubblici per la gran parte sono ascrivibili al comparto scuola (circa un terzo), alla sanità (circa un quinto), alle forze di sicurezza (oltre un ottavo). Enti di ricerca e università rappresentano poco meno del 4 per cento. Ad eccezione dei comparti sicurezza, la gran parte è personale laureato. Dall’altro abbiamo il settore privato, che è caratterizzato dalla piccole impresa (le retribuzioni tendono a salire con l’aumentare della dimensione d’impresa) e in cui compaiono gli operai, figura quasi assente nel comparto dei dipendenti pubblici. Questo potrebbe giustificare la c.d. rendita? Il ministero della Funzione nel suo rapporto per il 2007 (relazione al parlamento sullo stato della pubblica amministrazione anno 2007 due volumi) ha fatto un tale confronto, cercando di confrontare le retribuzioni dei dipendenti delle grandi imprese (comparabili quindi con la PA) con quelle del settore pubblico, tenendo conto dei settori industria e servizi, della retribuzione impiegatizia (escludendo quindi gli operai) e di quella totale per gli anni 2000 e 2005 (grafico 48 del rapporto). Il risultato è che nel 2005 (fatto 100 la retribuzione lorda del 2000 del settore industria) le retribuzioni della P.A. sono di 30 punti percentuali inferiori a quelle impiegatizie dell’industria e 16 punti inferiori a quelle impiegatizie nei servizi. Quindi se si confrontano lavori paragonabili, la rendita sembra essere negativa per l'impiegato pubblico a livello nazionale e non positiva come indicato dagli autori. Magari sarà meno negativa al Sud o forse di più.

Contrattazione

 Non esiste nessuna buona ragione di equità o di efficienza per cui i salari nominali dei dipendenti pubblici debbano essere determinati in modo uniforme a livello centrale, senza tener conto del costo della vita e delle condizioni del mercato del lavoro locali.


Infatti, si potrebbe definire una contrattazione che tenga conto del costo della vita, delle condizioni del mercato del lavoro locali, certamente. Ma allora si dovrebbe tener conto anche della qualità dei servizi locali (asili, scuole, trasporti, ospedali etc.), della qualità della vita, dell’inquinamento (città vs campagna) e così all’infinito. Insomma, la contrattazione diventerebbe un processo più lungo e forse anche più costoso. Ma su questo ci vorrebbe una ulteriore indagine.

Management e incentivi

Sospettiamo invece che possano esistere effetti negativi di selezione avversa legati più alla struttura della compensazione che al livello. Una retribuzione rigida, indipendente dalla performance e che dipende solo dall'anzianità non tende ad attrarre le persone più dinamiche.


Livello e struttura sono interdipendenti e questi attirano persone più talentuose, ma se il livello stipendiale fosse correlato alla performance, avremmo ciò per cui paghiamo: persone motivate dall’incentivo economico. Ora niente di male, ma lavori come quello dell’insegnante, dell’infermiere e altri, attirerebbero forse le persone meno vocate e più opportuniste e abili a catturare i vantaggi di carriere. Su questo forse bisognerebbe riflettere. Dov'è l'evidenza che suggerisce che incentivi economici favoriscono la performance dell'insegnante? Struttura o livello?

Stipendi degli insegnanti.

Ma gli stipendi degli insegnanti sono più bassi rispetto a omologhi internazionali, e la conclusione che si trae dal post e quello precedente è che si debba ulteriormente aumentare lo svantaggio, specie al Sud. Non capisco.

 

 

I dati. L’indagine campionaria utilizzata non è finalizzata al confronto territoriale dei redditi tra lavoro dipendente pubblico e privato, quindi i dati vanno presi colle pinze.

L'indagine, se vogliamo credere a Bankitalia, riguarda un campione casuale rappresentativo della popolazione italiana, quindi è esattamente quello che vogliamo per effettuare un confronto di questo tipo. I dati vanno presi per le pinze per un altro motivo: l'indagine è alquanto limitata e non consente una disaggregazione che ci permetta di guardare ai soli laureati, per esempio. Prendiamocela quindi con l'ISTAT che si rifiuta di pubblicare e mettere disposizione GRATIS SU INTERNET i dati sui redditi, oltre a tutte le altre indagini che dovrebbero essere a libera disposizione. Noi riportiamo i dati che abbiamo. Se qualcuno ne ha di migliori che ci contraddicono, si faccia avanti. 

 

Il ministero della Funzione nel suo rapporto per il 2007 (relazione al parlamento sullo stato della pubblica amministrazione anno 2007 due volumi) ha fatto un tale confronto, cercando di confrontare le retribuzioni dei dipendenti delle grandi imprese (comparabili quindi con la PA)

 

Questa invece è l'indagine che NON vogliamo usare. Perche vorremmo confrontare i dipendenti pubblici con quelli delle grandi imprese, che sono protetti quasi quanto i dipendenti pubblici? Occorre confrontare invece l'alternativa al settore pubblico, che è fatta sì da un lavoro in una grande impresa, ma anche e soprattutto dal lavoro in una PMI. Questo perché:

 

le retribuzioni tendono a salire con l’aumentare della dimensione d’impresa)

 

Quanto al resto del commento,

 

I dipendenti pubblici ... ad eccezione dei comparti sicurezza, la gran parte è personale laureato. Dall’altro abbiamo il settore privato, che è caratterizzato dalla piccole impresa ( e in cui compaiono gli operai, figura quasi assente nel comparto dei dipendenti pubblici. Questo potrebbe giustificare la c.d. rendita? 

 

No, perché anche nel settore pubblico ci sono bidelli, uscieri, netturbini, giardinieri, etc...Con i dati che abbiamo, considerando i soli  lavoratori con istruzione media ed inferiore, la rendita da settore pubblico è alta tanto quanto se non più di quella dei più istruiti

 

Stipendi degli insegnanti. Ma gli stipendi degli insegnanti sono più bassi rispetto a omologhi internazionali, e la conclusione che si trae dal post e quello precedente è che si debba ulteriormente aumentare lo svantaggio, specie al Sud. Non capisco.

Lo so che l'idea è difficile da digerire. Anche mio papà non capisce che il mio collega nell'ufficio di fianco possa prendere la metà  (o il doppio) del sottoscritto. Il problema non è aumentare i livelli, ma aumentare la varianza e cambiare il reclutamento e la governance per permettere di attirare i bravi e di allontanare le schiappe. Aumentare gli stipendi in una situazione di eccesso di offerta di lavoro come quella attuale non cambia di un epsilon la qualità degli assunti: viene assunto chi ha voglia di stare in coda più a lungo. E sai chi sono? Quelli che hanno meno opportunità di successo nell'abbandonare la coda, e cioé i meno capaci. 

 

 

 

Francesco, credo Andrea abbia risposto alle tue domande sui dati. Da parte mia voglio solo fare un commento su questa tua osservazione.

 

Ma gli stipendi degli insegnanti sono più bassi rispetto a omologhi internazionali, e la conclusione che si trae dal post e quello precedente è che si debba ulteriormente aumentare lo svantaggio, specie al Sud. Non capisco.

 

Non sono purtroppo solo gli stipendi degli insegnanti a essere più bassi, il problema caratterizza tante categorie di lavoratori. Ossia, i salari italiani sono cresciuti poco ultimamente, e la ragione immediata e principale (prima che a qualcuno venga in mente di aumentarli per decreto) è stata la scarsa crescita della produttività.

Se si intervenisse esclusivamente sui salari degli insegnanti, o più in generale su quelli del settore pubblico, il problema si aggraverebbe. I fenomeni di rent seeking diventerebbero più acuti, la tassazione dovrebbe aumentare e la produttività scenderebbe ancora di più. A nostro avviso l'unico modo serio di affrontare il problema è far ripartire la crescita. Secondo noi questo si può fare solo mediante eliminazione delle rendite, meno spesa pubblica e meno tasse. Qualcuno ha un'idea differente che sia coerente e sensata su come risolvere il problema? Sarei felice di sentirla.

 

 

Ma gli stipendi degli insegnanti sono più bassi rispetto a omologhi internazionali, e la conclusione che si trae dal post e quello precedente è che si debba ulteriormente aumentare lo svantaggio, specie al Sud.

 

L'associazione  treellle ha realizzato interessanti approfondimenti sulla scuola italiana e documenta nel suo rapporto "Scuola italiana, scuola europea?" che tenendo conto di svariati elementi si puo' concludere che i salari degli insegnanti italiani nel confronto europeo sono commisurati al loro carico di lavoro, benefici previdenziali, numerose garanzie e convenienze. In un seminario piu' recente del rapporto, il presidente Attilio Oliva ha detto che, in rapporto al carico di lavoro e ai benefici, i salari degli insegnanti italiani sono paragonabili alla media europea.

Riporto quanto contenuto nel quaderno della Treelle:

 

• Confrontare il trattamento economico e normativo degli insegnanti italiani
con quello dei colleghi di altri Paesi è materia complessa perché bisogna
tenere conto di importanti variabili in gioco, ad esempio il titolo di studio
e gli anni di formazione e tirocinio necessari per potere insegnare, la progressione
salariale connessa agli anni di insegnamento maturati, il numero di ore di
insegnamento, gli schemi di pensionamento (l’età minima e il valore della pensione
in percentuale sull’ultimo stipendio), e più in generale del trattamento
economico degli altri dipendenti pubblici.
• Inoltre, solo da pochi anni l’idoneità all’insegnamento prevede per legge non
solo una formazione universitaria ma anche un master di specializzazione. Per
lungo tempo e fino ad oggi, per decisioni politiche condivise tra maggioranza e
opposizione, si è invece proceduto ad aggirare l’obbligo di indire concorsi selettivi
(l. 270/82) per procedere a “sanatorie” che hanno inserito nella scuola aree
di precariato non necessariamente qualificato: non più di un 40% dei circa
800 mila insegnanti italiani è entrato in ruolo con regolare concorso per
titoli ed esami e la percentuale è marcatamente più alta nella secondaria.
• Gli stipendi degli insegnanti italiani sono inferiori alla media dell’UE,
sulla base dei dati OCSE del 1999 (Figura 20). Va peraltro sottolineato che nell’ultimo
contratto (1999-2000) lo stipendio base dei nostri insegnanti è aumentato
più del doppio del PIL ed è probabile che, nei confronti internazionali, il
posizionamento degli insegnanti italiani sia già migliorato.
• Tuttavia un rapporto sulla scuola italiana commissionato all’OCSE dal
Ministero dell’Istruzione evidenzia che “il carico di lavoro degli insegnanti
italiani è significativamente inferiore alla media… tra il 9 e il 20% in meno a
seconda dei livelli e dei settori. (...); in molti casi gli insegnanti non lavorano che
la mattina… e possono usufruire con molto anticipo di una pensione assai vantaggiosa.
Essi hanno dunque uno stipendio più modesto che in alcuni altri
Paesi ma dignitoso se si tiene conto delle loro condizioni di servizio”5
(Tabella 7). Gli insegnanti italiani godono, ad esempio, di una pensione pari al
95% dell’ultimo stipendio, contro un indice attorno al 70% della maggior parte
degli altri Paesi europei.
• Secondo il XXIX Rapporto CENSIS, “l’esistenza di numerose garanzie e
convenienze fa pendant alla bassa remunerazione e all’assenza di carriere e di
incentivi”. Non stupisce quindi quanto rilevato dalla Prima Indagine IARD
che “tre insegnanti su quattro dichiarino che, se potessero tornare indietro, rifarebbero
la scelta dell’insegnamento e una quota consistente non esiterebbe a
consigliare questa scelta al figlio (ma soprattutto alla figlia) di un amico”.
• Il basso livello degli stipendi degli insegnanti in rapporto all’elevato costo dell’istruzione
per studente è spiegato sia dal basso numero di studenti per insegnante
sia dal numero elevato di ore di istruzione previste per gli studenti combinato con un orario d’insegnamento degli insegnanti inferiore alla media internazionale.
• Tuttavia, anche tenendo conto del fatto che le ore di lezione degli insegnanti
(748 ore annue nella scuola elementare e 612 nella scuola secondaria) è inferiore
alle medie europee (812 ore nella scuola primaria, 696 nella secondaria inferiore
e 661 nella secondaria superiore), la posizione dei loro stipendi nel quadro
internazionale si colloca agli ultimi posti della scala, anche se è analogo a quello
di altri Paesi europei (Figura 21): nella scuola primaria è simile a quello di
Francia, Grecia, Portogallo, Svezia, Belgio; nella secondaria inferiore è simile a
quello di Grecia, Portogallo, Paesi Bassi, Belgio, Scozia, Finlandia, Austria;
nella secondaria superiore è maggiore solo rispetto a quello di Grecia e Scozia
mentre è inferiore rispetto a quello degli altri Paesi.

 

 

 

risultato è che nel 2005 (fatto 100 la retribuzione lorda del 2000 del settore industria) le retribuzioni della P.A. sono di 30 punti percentuali inferiori a quelle impiegatizie dell’industria e 16 punti inferiori a quelle impiegatizie nei servizi. Quindi se si confrontano lavori paragonabili, la rendita sembra essere negativa per l'impiegato pubblico a livello nazionale e non positiva come indicato dagli autori. Magari sarà meno negativa al Sud o forse di più.

 

Sarebbe stupefacente allora che esistano giovani laureati campani disposti a lavorare (semi-) gratuitamente nelle scuole private all'unico scopo di appropriarsi di un posto pubblico.  Io ho l'impressione che quel fenomeno, come anche le richieste di trasferimento a Sud degli impiegati pubblici in numero molto maggiore di quelle in direzione opposta, siano tutti indicatori a favore dell'esistenza di una rendita legata al posto pubblico e anche del fatto che tale rendita sia superiore al Sud rispetto al Nord come mi sembra difficile negare sia il caso.

 

Contrattazione

Non esiste nessuna buona ragione di equità o di efficienza per cui i salari nominali dei dipendenti pubblici debbano essere determinati in modo uniforme a livello centrale, senza tener conto del costo della vita e delle condizioni del mercato del lavoro locali.

Infatti, si potrebbe definire una contrattazione che tenga conto del costo della vita, delle condizioni del mercato del lavoro locali, certamente. Ma allora si dovrebbe tener conto anche della qualità dei servizi locali (asili, scuole, trasporti, ospedali etc.), della qualità della vita, dell’inquinamento (città vs campagna) e così all’infinito. Insomma, la contrattazione diventerebbe un processo più lungo e forse anche più costoso. Ma su questo ci vorrebbe una ulteriore indagine.

 

La contrattazione e' per sua natura laboriosa ma cio' non dovrebbe essere una scusa per non farla.  Ma anche evitando la contrattazione lo Stato potrebbe rendere piu' equi i salari reali fissando compensi differenziati in base al costo della vita, come fanno molti paesi civili (e piu' progrediti dell'Italia) come l'Inghilterra con la "London allowance" e la Germania con i salari differenziati all'Est. Probabilmente la soluzione migliore sarebbe regionalizzare i dipendenti statali nel comparto istruzione: in Svizzera e USA hanno anche universita' di ottimo livello che sono regionali (o private).

Avevo messo un commento più lungo ed alquanto più cattivo. L'ho tolto, più che altro perché so di non avere il tempo per poter poi contribuire al dibattito che avrebbe potuto creare.

Però due cose sole, da quel commento, lascio, chiedendoti/vi di pensarci un attimo sopra

 

Come si possono fare affermazioni comiche (visto il sito dove vengono scritte) come la seguente, e pensare che si sta guardando ai fatti obiettivamente?

 

Dov'è l'evidenza che suggerisce che incentivi economici favoriscono la performance dell'insegnante? Struttura o livello?

 

Ed una, fra le mille possibili, citazione d'un vecchio meridionalista:

 

ogni professionisa disoccupato o aspirante a impieghi cerca di diventare impiegato municipale. (Gaetano Salvemini, Scritti sulla QM, p. 46)

 


Vorrei fare alcune domande, concentrandomi sul punto che ho colto meglio: quello di Bambi...spero che leggendo non sgranerete gli occhi come faceva l'amabile cerbiatto.

Dico bambi per intendere appunto il peso negativo che dovrà essere prevedibilmente sopportato per la fine dei trasferimenti di spesa pubblica verso il Sud. Ecco le domande:

1) Ma si è poi capito perchè in Italia non esistono ammortizzatori sociali che retribuiscano il dipendente che perde il lavoro? Voglio dire: quando è che si avuta consapevolezza che gli altri paesi europei si dotavano di strumenti del genere, mentre l'Italia usava solo la cassa-integrazione? La mia spiegazione, quella che riesco a pensare, è che si sia in parte demandato alle famiglie di provvedere al sostegno di chi perdeva il lavoro e dall'altro che sia i sindacati che la classe dirigente hanno compreso che una gestione discrezionale degli ammortizzatori sociali (vedi concessione o meno della CIG) o addirittura la loro assenza potevano accrescere il loro potere di ricatto sull'elettorato..comunque già nell'ottica del clientelismo do ut des. Anche se in tutto questo gioco non mi è chiaro il ruolo degli imprenditori: perchè loro almeno non promuovono un sistema di welfare credibile per tutti quelli che perderebbero il lavoro? Non sarebbe un modo efficace di togliere spazio ai sindacati, privandoli della discrezionalità di cui ho detto?

2) Il debito pubblico attuale, a condizione di un suo controllo, è davvero un vincolo insormontabile per la creazione di un sistema di ammortizzatori sociali che non dipendano dalla sfibrante concertazione tra sindacati e imprese e governo ma siano conseguenti la dichiarazione di fallimento di una azienda? Perchè ogni volta che si parla di questa cosa degli ammortizzatori sociali, subito si chiarisce che abbiamo il debito pubblico fra i più grandi del mondo...(alle volte si omette addirittura il partitivo e abbiamo il più grande del mondo).

3) Che lasso temporale sarebbe prevedibile attendersi fra la drastica riduzione della spesa pubblica al sud e la ripresa della crescita al punto da creare condizioni di redditto almeno pari a quelle pregresse garantite dai trasferimenti pubblici? Ci sono paesi che abbiano fatto qualcosa di analogo? (Su questa domanda, mi sento più cappuccetto rosso che bambi: mi aspetto risposte tipo "ma hai idea di quello che stai chiedendo?"...no forse no, ma visto che siete qui a fare i maestri Manzi alle serali di economia agli ignoranti come me, beccatevi le domande cretine :-). La mia domanda nasce dalla considerazione che se si mostrasse all'elettorato che c'è un percorso chiaro da seguire per risanare la situazione, non è detto che non si possa creare consenso intorno alle misure di riduzione della spesa. Anche se, psicologicamente, questa cosa della fine della spesa pubblica "dall'oggi al domani" mi sembra una cosa percepita dalla stragrande maggioranza dei meridionali come uno tsunami, una cosa che uno non saprebbe come fare; come se a un primitivo, finita l'età della pietra, gli dicessero: è iniziata l'età del bronzo! E lui a non sapesse nemmeno cos'è, il bronzo.

 

Ma si è poi capito perchè in Italia non esistono ammortizzatori sociali che retribuiscano il dipendente che perde il lavoro?[...] il ruolo degli imprenditori: perchè loro almeno non promuovono un sistema di welfare credibile per tutti quelli che perderebbero il lavoro?

 

Buona domanda. Credo ci siano diverse ragioni. Gli imprenditori piu' grandi, da sempre collusi con lo Stato, hanno ritenuto preferibile accordarsi con questo e coi sindacati per risolvere i problemi di esuberi con cassa integrazione speciale, scivoli e prepensionamenti assortiti probabilmente perche' pensano di addossare il costo di questi provvedimenti di favore per se' su altri diversi da loro. Un secondo motivo dipende dal livello molto diseguale dello sviluppo economico tra Nord e Sud, aggravato e mantenuto da stupide politiche statali, che ha storicamente indotto livelli abnormi di disoccupazione (meglio, assenza di occupazione legale) al Sud. In presenta di un numero abnorme di iscritti alle liste di disoccupazione al Sud, provvedere sussidi generalizzati sarebbe andato contro gli interessi dei grandi imprenditori, che avrebbero visto gran parte delle risorse sprecate in un'area dove non erano presenti, e che era comunque condannata senza appello a non avere industrie che non fossero statali e/o sussidiate e in perdita.

 

Il debito pubblico attuale, a condizione di un suo controllo, è davvero un vincolo insormontabile per la creazione di un sistema di ammortizzatori sociali che non dipendano dalla sfibrante concertazione tra sindacati e imprese e governo ma siano conseguenti la dichiarazione di fallimento di una azienda?

 

Il debito indubbiamente riduce le risorse a disposizione della spesa pubblica.  Probabilmente sarebbe comunque possibile distribuire meglio la spesa pubblica assistenziale, e soprattutto assegnarla in base a principi generali piuttosto che discrezionali e quindi favorendo clientele e collusioni. Ma si ricade sul problema di prima: al Sud 2/3 dell'economia privata e' in nero e gran parte degli addetti, piu' i disoccupati veri, sarebbero in fila per cumulare il sussidio alla retribuzione da lavoro nero.

 

Che lasso temporale sarebbe prevedibile attendersi fra la drastica riduzione della spesa pubblica al sud e la ripresa della crescita al punto da creare condizioni di redditto almeno pari a quelle pregresse garantite dai trasferimenti pubblici? Ci sono paesi che abbiano fatto qualcosa di analogo?

 

Credo non esistano esempi comparabili, la situazione del Sud Italia e dell'Italia in generale e' veramente abnorme. Forse l'esempio piu' vicino e' quello del Belgio: li' sono riusciti ad avviare un'efficace riduzione del debito. Non conosco pero' i dettagli su come siano evoluti i trasferimenti dalle Fiandre alla Vallonia, ne' conosco come sia evoluta la situazione economica della Vallonia. Tuttavia li' tuttto sembra piu' o meno a posto, rimane un paese progredito e civile, molto superiore all'Italia come indice di sviluppo umano. il Belgio francese e' sostanzialmente non confrontabile col Sud Italia: e' un'area storicamente avanzata, dove la rivoluzione industriale si e' verificata in anticipo rispetto a gran parte dell'Europa continentale, e' un'area un tempo ricca e produttiva e meta di moltitudini di immigrati.  Il Sud e' un'area periferica e arretrata da secoli, con immigrazione zero fino all'immigrazione molto recente dal Terzo Mondo.

In termini di schock economico credo che bloccare completamente l'intervento statale italiano nel Sud avrebbe un effetto comparabile alla fine del comunismo in Russia, cioe' conseguenze serie e pluriennali. Per questo sarebbe fortemente opportuno avviare una riduzione graduale, ma non mi sembra che si possa sperare che le classi dirigenti italiane ne siano capaci.

Marco, provo a rispondere al punto 3). Tu chiedi: se ci fosse un big bang con riduzione drastica delle rendire da impiego pubblio, quanto ci vorrebbe per avviare la crescita? Non ho numeri su quanto bisognerebbe aspettare perché non sono esperto della cosa, faccio l'economista teorico (e mi chiedo perché mi sono fatto tirare in questa discussione) ma se i numeri li dovessi cercare andrei a guardare l'esperienza dei paesi ex socialisti.  Se qualcuno mi torcesse il braccio e mi costringesse a dire comunque qualcosa direi è che le esperienze sono state difformi ma che l'attivazione del processo di crescita ha richiesto in media tra 5 e 10 anni. Felicissimo di essere smentito e corretto da qualcuno che ha studiato la cosa più di quanto abbia fatto io.

Due osservazioni ulteriori.

1) Un enorme problema pratico nell'avviare questi processi di riforma è quello di convincere la popolazione che si fa sul serio, che le riforme sono permanenti e che le cose non cambieranno in futuro. Gli effetti pratici si possono iniziare a vedere solo quando la gente cambia i comportamenti, ossia decide di fare scelte occupazionali orientate  al mercato e non alla ricerca di rendite. Anche una politica di drastica e immediata riduzione delle rendite avrebbe poco effetto se non modificasse stabilmente le aspettative sul futuro. Questa, tra l'altro, rischia di diventare una self-fulfilling prophecy: la gente non crede che le riforme vengano mantenute, quindi non parte il processo di crescita, quindi dopo un po' monta la pressione politica per eliminare le riforme (perché pagare il dazio dell'eliminazione delle rendite se poi manco si cresce?). L'esperienza istituzionale italiana induce al pessimismo. Pensa per esempio a come, dopo aver teoricamente dato alle regioni la responsabilità della spesa sanitaria, lo stato centrale sia intervenuto ex post per ripianare i deficit. Ovvio che se le regioni si aspettano l'intervento ex post non modificheranno il comportamento di spesa ex ante. Lo stesso dicasi per i vari interventi di salvataggio dei comuni, Roma e Catania in testa.

2) Direi che l'unica speranza, per flebile che sia, è che riparta la crescita a livello globale (ossia per cause esogene alla situazione italiana). A quel punto, se ci fosse una classe politica desiderosa di introdurre riforme (non costa niente sognare) si potrebbe ottenere qualcosa. Immagina per esempio che i salari reali crescano del 2.5% annuale e i salari pubblici dell'1%. In 10 anni, applicando capitalizzazione composta, la crescita dei salari privati sarebbe del 28% e quella dei salari pubblici il 10.5%. Questo sarebbe probabilmente sufficiente a eliminare grossa parte delle distorsioni. Non sarebbe nemmeno una cura da cavallo, in fondo una crescita reale dell'1% annuale non è male. Resterebbe il problema di convincere la gente che le cose non ''torneranno alla normalità'' (ossia al ripristino delle rendite) in futuro, ma forse 10 anni in cui si vedono i salari pubblici crescere meno di quelli privati sarebbero sufficienti.

La ragione principale per cui questo scenario è implausibile non è che adesso c'è la crisi e l'economia va male. Stiamo parlando di scenari di lungo periodo, e prima o poi l'economia a livello mondiale ripartirà. No, la ragione principale è che quando l'economia ripartirà non ci sarà nessuno pronto a sfruttare l'occasione. Finora né il centrodestra né il centrosinistra hanno mostrato di avere la minima coscienza della gravità del problema e/o la minima volontà di affrontarlo.

La cultura della rendita è un fenomeno largamente diffuso al Sud, non soltanto tra coloro che ambiscono al "posto sicuro" nella P.A. Le ragioni come discusso altre volte su questo sito sono di carattere storico e sociale, il cambiamento al Sud non si può attuare colpendo idiscriminatamente chi lavora nella P.A.E' molto semplice fare proposte "shock" quando a gestire la "posizione" dovrebbero essere gli altri. Il rinnovamento, o meglio ancora la costiuzione di una nuova"ruling class", deve essere il primo obiettivo per raggiungere il cambiamento.

 

il cambiamento al Sud non si può attuare colpendo idiscriminatamente chi lavora nella P.A

 

Non c'e' bisogno di bastonare nessuno, ma c'e' piuttosto bisogno di intervenire con gradualita' ma con chiarezza soprattutto di prospettiva sul pubblico impiego, specie nel Sud Italia. Il livello dei salari pubblici, gli insensati privilegi esistenti di fatto distruggono ogni realistica possibilita' di sviluppo meridionale, perche' la frazione piu' istruita dei meridionali viene attratta e catturata in posizioni di rendita improduttiva del posto pubblico, in cambio di consenso politico al potere statale centrale e alle sue diramazioni locali clientelari.

[Scrivo un altro commento perché non riesco mai a capire dove piazzare le repliche]

Due cose:

  1. Onorato che la "citazione" disneyana sia assurta a cifra, urge una precisazione
  2. Anche in questo ragionamento mi sfugge un passaggio

1. La formula, che Boldrin ha definito giaculatoria [perché?], era strettamente legata al contesto, e in particolare ai meccanismi di selezione e reclutamento degli insegnanti. La c.d. "parte più debole" della società è oggetto di discussione politica, sociale ed economica almeno dal XVIII secolo e non mi sogno minimamente di potere avvicinare il problema. Nè, tantomeno, era mia intenzione fare del buonismo d'accatto per la salvaguardia dei "poverini" emarginati dai meccanismi del mercato e della concorrenza: i massimi sistemi un'altra volta.

Provo dunque a riformulare per esplicitare il senso: è venuta fuori, negli ultimi 7 anni, una generazione di insegnanti che ha seguito processi formativi e di avviamento professionale molto diversi da quelli delle generazioni precedenti. Quando costoro non hanno la fortuna di un "aggancio" presso una qualche scuola privata, si vedono scavalcati da studenti peggiori ma meglio "ammanicati". Il meccanismo è talmente perverso che anche chi non vorrebbe lavorare a 300 euro al mese ma vuole fare l'insegnante è costretto ad accettare quel posto, perché sennò qualcun altro, sotto di lui, lo accetterà e, conseguentemente, lo scavalcherà. Tutto ciò per i semplici motivi che

  1. il peso relativo di 1 anno di insegnamento è superiore allo scarto tra il punteggio minimo e massimo assegnato in relazione al voto di promozione della SISS (e mi scuso per non avere presentato questo dato in precedenza);
  2. gli abilitati delle SISS sono sempre un po' di più delle persone che vanno in pensione, quindi non tutti vengono chiamati nelle scuole pubbliche e solo alcuni tra i non chiamati fanno un altro lavoro (perché se fai un altro lavoro poi non puoi accettare la supplenza che, ad es., vien fuori a dicembre, quindi è sempre un dilemma e un "rinuncio alla professione di insegnante?" giacché, oramai è chiaro, rinunciare un anno è rinunciare per sempre);
  3. una scellerata scelta di Fioroni ha bloccato i trasferimenti di provincia dei precari (sissini) per agevolare la programmazione degli ex-provveditorati [...] con il risultato che le liste di precari si allungano nei centri urbani, che attraggono i docenti di ruolo che possono chiedere trasferimento, e si assottigliano nelle province meno "attraenti" (tipo tutta la Sardegna), dove arrivano ad insegnare anche i non abilitati (qualcuno da questa semplice cosa si fa un'idea del perché le scuole del cosentino e del nuorese non siano propriamente eccellenti?). Le scuole private sono di più nei centri popolosi, non certo nei dintorni di Macomer o nel materese. Non a caso l'articolo del Corriere riguardava la regione più densamente popolata d'Italia.

Ora, come si esplicita qui e come era chiaro (almeno a me) anche prima, la RPI (rendita pubbl imp...) si elimina aut contraendo i salari degli insegnanti della scuola pubblica, aut facendo crescere più rapidamente quelli della scuola privata (e quindi correlativamente, immagino, facendone crescere la qualità). Ora, io da chi scrive in questo blog mi aspetterei idee su come si mette in atto la seconda di queste due soluzioni, volta appunto a migliorare il sistema della formazione privata [che a me segnatamente non me ne frega, ma tant'è]. Siccome obbligare le scuole private a stipendi minimi è una cosa che non oso neppure menzionare, ché ho presentimento delle geremiadi, mi pare di capire (e forse qui ho sbagliato nell'interpretare, eppure ancora una volta Boldrin mi convince del contrario) che la soluzione sia ridurre gli stipendi dei docenti del Sud o, per lo meno, farli crescere più lentamente che altrove. Dunque, io tiro a campare con poco più di 500 euro al mese e, ovviamente, la mia condizione di under25 senza figli a carico né coniuge me lo consente, ma non mi pare che, in qualsiasi angolo del paese, circa 1100 euro al mese siano sto granché, tantopiù che l'infinito precariato dei docenti significa sì 1100 euro (circa) da ottobre a giugno, ma non una lira quando non hanno un incarico (luglio, agosto, talvolta settembre e persino ottobre), nessuna quattordicesima o affini, nessun aumento legato all'anzianità. Quindi fanno al netto circa 11K€/anno, cui aggiungere i sempre tardivi contributi disoccupazione. Per uno che ha la responsabilità formativa di 50/250 persone non è tanto, neanche se insegni a Canicattì.

Ecco, secondo me farli diventare diciamo 950, renderli ancora meno stabili e magari con un incremento del carico lavorativo sarebbe, appunto, sparare su Bambi, ovvero lasciare che si scarichi su di loro un'accumulazione di colpe che loro non è. Che poi siano un segmento debole è decisamente un altro paio di maniche.

[Nota: non discuto della "stabilità" della professione come se si trattasse di un fattore di RPI perché essa è legata alla continuità didattica, che è un fattore pedagogico; oggi come oggi poi, per chi entra nel mondo della scuola, è anche un miraggio]

2. Questa è breve:

 

Limitiamo ora l'analisi alle persone istruite. Purtroppo la numerosità del campione non ci consente di focalizzarci sui laureati. Possiamo però limitarci ai lavoratori che hanno almeno un diploma di istruzione superiore, e calcolare quale sia la rendita da lavoro pubblico per persone con almeno un diploma, quindi la rendita per le persone con un minimo di istruzione.

 

Abbiamo messo nello stesso paniere diplomati e laureati. Questo, esattamente, come legittima conclusioni specifiche su quella porzione di paniere che sono gli insegnanti (laureati, sui quali non ci possiamo focalizzare)? Perché, visto lo stato in cui versa la sanità, non si fa così con i medici (che, percependo molto di più, ne risentirebbero molto di meno)? Non lo si fa, certo, per ragioni "di potere". Ma non lo si fa, forse, perché, per quanto possa risultare positivo per il bene comune, il correttivo economico/salariale a delle storture e a delle colpe che sono state prima di tutto amministrative pare profondamente ingiusto se non colpisce prima di tutto gli amministratori. Ché tanto della necessità di cure da cavallo ormai sappiamo (no, non "ne siamo convinti", ma proprio "sappiamo"). Il problema, però, è quale chiappa infilzare con il punturone.

Ora però la smetto: il mio coinquilino mi ha portato il volume con il mio primo saggio stampato su carta, quindi vado a gongolare :D , ma spero di potere contribuire alla discussione con maggiore costanza.

Ciao si-culo, oggi è un giorno un po' impegnato quindi devi pazientare un po' per una risposta più esaustiva a tutti i temi che sollevi, però volevo dirti che una cosa l'hai capita male.  Non abbiamo assolutamente in mente i salari della scuola privata quando parliamo di ''migliore alternativa''. Se ti devo dire la verità io personalmente ho un sacco di sospetti verso le scuole private, almeno in Italia. Quando parliamo di ''migliori alternative'' pensiamo a qualsiasi altro lavoro che un laureato possa fare, nel posto in cui risiede o emigrando. Il commento di Figà Talamanca fornisce un'idea. Quindi il modo di far descrescere la RPI (la sigla è pericolosamente vicina a RIP...:)) è quello di far crescere l'economia e quindi far crescere i redditi del settore privato.

Sono di sfuggita, commento solo un dettaglio:

 

Siccome obbligare le scuole private a stipendi minimi è una cosa che non oso neppure menzionare

 

Sono già obbligate per legge, solo che aggirano l'obbligo d'accordo coi dipendenti.

 

Ciao di nuovo si-culo, ho riletto attentamente il tuo commento e, almeno per la prima parte, mi pare che aggiunga informazioni interessanti ma nulla di particolarmente nuovo alla discussione. Tu chiarisci bene il guazzabuglio normativo che ha permesso alle scuole private di appropriarsi di una parte consistente delle rendite da impiego pubblico. Niente da dire al riguardo.

Il mio punto era un altro, ossia che a) queste rendite esistono, altrimenti non si spiega perché la gente accetti di farsi schiavizzare volontariamente dai presidi per anni b) l'unico modo serio per eliminare il problema è eliminare la rendita. Il primo punto onestamente mi sembra difficilmente discutibile, e infatti non ho sentito nessun argomento in contro (l'unico serio possibile mi sembra che il fenomeno non è vero e che l'evidenza empirica di supporto è debole, solo le tre interviste del corriere; ma nessuno invece sembra dubitare che il fenomeno sia vero). Sul secondo punto uno può dire che in un mondo ideale si potrebbero approntare meccanismi che distribuiscono le rendite in modo più equanime e meno distrorsivo, per esempio senza farle finire in tasca ai presidi delle scuole private. A questa obiezione risponderei: good luck with that, ma ricordatevi che il presidente della regione Sicilia è Raffaele Lombardo e quello del consiglio è Silvio Berlusconi. La scarsa qualità e la rapacità della classe politica italiana non cambierà nel breve periodo, quindi mi aspetto che se si leva la rendita a una clientela si troverà il modo di darla a un'altra. Per questo ritengo che eliminare le rendite sia l'unica soluzione sensata.

Hai detto che vuoi evitare la discussione sui massimi sistemi ma ti chiederei di ripensarci perché qua la questione è centrale. La domanda è molto semplice: è giusto usare gli stipendi pubblici come forma di welfare e supporto dei redditi? La mia risposta è no. Gli stipendi pubblici vanno determinati in base alle condizioni del mercato del lavoro locale e non c'è ragione per cui debbano essere più alti che per occupazioni simili, con condizioni di lavoro simili, nel settore privato. Mi va benissimo che ci sia un sistema di welfare che aiuti in modo vario i più poveri, siano essi dipendenti pubblici o privati. Non riesco a però a trovare nessuna giustificazione morale (oltre che economica) a un sistema che garantisce supporto del reddito ai dipendenti pubblici e nulla a chi non ha avuto la fortuna di vincere la lotteria dell'impiego pubblico. Voglio dire, al momento attuale se hai trentacinque anni, sei disoccupato e hai un figlio di 4 anni non ti danno nemmeno i 40 euro della social card (solo se il figlio ha meno di tre anni. Perché? Perché si). Le due cose non sono indipendenti. Le risorse sono limitate, e se le usiamo per pagare più del necessario i dipendenti pubblici poi non ne restano per altre forme di welfare. Ti prego di pensarci, perché questo è veramente un punto importante.

Sull'ultima cosa che dici. Non ce l'ho particolarmente con gli insegnanti e non penso che, nell'ambito del settore pubblico, gli insegnanti siano trattati meglio di altri (semplicemente non lo so, bisognerebbe guardare i dati). Nemmeno penso che gli stipendi degli insegnanti vanno bloccati prima o più a lungo di altri dipendenti pubblici. La discussione è nata da un articolo del corriere che parlava degli insegnanti, ma ho pochi dubbi che la maggiore desiderabilità del posto pubblico rispetto a quello privato, e quindi l'esistenza di rendite, sia una caratterisca assai estesa, che riguarda tutti gli ambiti occupazionali. Quindi, quando parliamo di ridurre le rendite, parliamo di tutto il settore pubblico, non certo solo (e nemmeno prioritariamente) del comparto scuola.

 

Oggi piove e salto la mia ora e mezza quotidiana di corsa, e nell’attesa provo a rispondere con le scarpette ai piedi alla questione dei dati di Brusco e Moro. Se viene il sole lascio.


Premetto che nei post precedenti non avevo avanzato tesi, ma critiche e dubbi che speravo utili, e come si dice costruttivi, ma che invece hanno sollevato ironie varie, e purtroppo nessuna risposta tecnica degna. La questione degli incentivi monetari agli insegnanti la riprenderò magari in un altro momento, se avrò tempo, ora mi concentro sulla questione dei dati.


Avevo  messo in guardia Brusco e Moro sul fatto che i dati che loro utilizzavano nell’articolo andavano “presi colle pinze” (si badi bene non buttati), in quanto l’obiettivo dell’indagine era un altro, e loro avevano sfruttato dei dati aggiuntivi sul reddito e i titoli di studio che quella ricerca conteneva per capire se vi era una rendita da pubblico impiego. E loro trovano una rendita, ma solo al sud. Quindi un ricercatore scettico si sarebbe posto sull’avviso, avrebbe trovato delle motivazioni valide per utilizzare comunque quei dati e sarebbe andato avanti, pur sapendo che le conclusioni derivate dipendono dalla validità dei dati, non proprio robusti. Poi ho voluto essere propositivo e ho suggerito di guardare anche i dati utilizzati dal ministero della Funzione pubblica nel suo rapporto al parlamento sul 2007, in cui vengono utilizzati dati istat rilevati proprio per calcolare le retribuzioni. Quindi in teoria migliori.  I dati Istat utilizzati dal governo dicono invece ESATTAMENTE IL CONTRARIO di quanto “scoperto” da Brusco e Moro, e cioè che gli impiegati pubblici guadagnano sensibilmente meno degli impiegati nelle grandi imprese sia nell'industria che nei servizi. Ci si sarebbe aspettato una maggiore prudenza nel trarre conclusioni di policy, magari un ringraziamento per aver fatto notare che le loro conclusioni non sono iron cast e che quindi un supplmento di indagine era magari necessario. Invece niente.  Moro mi dà del cattocomunista (anche se per altre ragioni, ma lo stile è stile) e dice che i dati ISTAT non li volevano utilizzare perché a) sono a pagamento, b) il rapporto 2007 del ministero funzione pubblica al parlamento fa un confronto tra impiegati pubblici e impiegati delle grandi imprese,  e che invece loro preferiscono (in realtà non lo dicono) fare il confronto tra laureati e diplomati impiegati nel settore pubblico  e laureati/diplomati impiegati nel settore privato come dipendenti (quindi includendo anche le piccole imprese e gli artigiani).  Dicono che non bisogna limitarsi al paragone tra pubblico impiego e grande impresa, perchè anche i privati della grande impresa godono di rendite ma che loro preferivano considerare oltre ai diplomanti anche quei laureati in filosofia o matematica (scusate l’ironia) o i laureati in legge che lavorano nelle piccole imprese, magari come operai, ma escludendo il lavoro autonomo (assumono evidentemente che il lavoratore autonomo mente quando intervistato per l’indagine, mentre l’impiegato pubblico o privato no, oppure che il lavoro autonomo non sia una valida alternativa per un diplomato/laureato, non lo specificano). In ogni caso, la prova regina (ma anche plebea) di una rendita da impiego pubblico andrebbe ancora trovata, ma questo non esclude che ci sia o non ci sia, solo che considerando i dati utlizzati da Brusco e Moro e quelli utilizzati dal governo emergono contraddizioni forti.

La mia osservazione neutra è stata attaccata con le chiacchiere e questo può pur andare. Ma trarre conclusioni che parlano di massimi sistemi da dati incerti, forse è troppo per me. Ma probabilmente non per tutti.

Francesco, sperando che il sole non sia ancora spuntato ti faccio una domanda rapida rapida che ho già posto altrove ed è finora senza risposta.

Seconde te, esiste una spiegazione plausibile al fatto che dei giovani laureati si facciano schiavizzare volontariamente per anni da avidi presidi e che non implichi l'esistenza di una consistente rendita da impiego pubblico? Se si, qual è? Perché persone ragionevoli accettano di lavorare semigratuitamente per anni solo per far aumentare la probabilità di ottenere un impiego pubblico, se nel settore privato possono ottenere condizioni analoghe?

 

gli impiegati pubblici guadagnano sensibilmente meno degli impiegati nelle grandi imprese sia nell'industria che nei servizi.

 

Questo dato che ricavi dall'ISTAT convive con il fatto che in Campania molti laureati lavorano semi-gratis per anni nelle scuole private solamente per acquisire titoli per essere assunti come dipendente pubblico nella Scuola.  Probabilmente le due osservazioni possono essere compatibile ipotizzando (ed eventualmente verificando sui dati) che in certe regioni del Sud le posizioni disponibili nelle grandi imprese siano poche o assenti rispetto al numero di posti di impiegato pubblico, particolarmente per i laureati in discipline "morbide" come lettere, psicologia, eccetera. Inoltre il semplice confronto numerico delle retribuzioni non include tutti i benefici e le garanzie offerte dal posto pubblico: stabilita' della posizione, orario di lavoro ridotto e/o facilmente riducibile mediante permessi e certificati medici "facili", assenza di stress dovuto a superiori interessati a che qualcosa venga prodotto in cambio dello stipendio, e cosi' via.  Insomma e' probabile che a conti fatti un insegnante che si limita ad insegnare male per 18-22 ore di 50 minuti alla settimana (circa 17 ore medie reali) e impieghi le altre 23 ore a fare lezioni private in nero abbia retribuzione reale attesa significativamente superiore ad un quadro medio-basso di grande impresa privata che lavora (sul serio) per 40 ore la settimana.

Caro Francesco, siamo stati noi per primi a mettere in guarda che i dati avevano qualche problema, ma la soluzione non e' certo fare il confronto dei dati dell'ISTAT che citi tu, questo dovresti cercare di ammetterlo. Quante grandi imprese esistono al sud? E anche se ce ne fossero tante, resta il fatto che vanno comparate le alternative. Il fatto che abbiamo escluso i dati sugli autonomi va a tuo favore: aggiungendoli il differenziale di rendita AUMENTA, come e' ovvio se ci pensi: la produttivita' e' maggiore al nord, e quindi il settore privato rende di piu' li'. Mi azzardo a dire che questo e' ancora piu' vero se avessimo dati attendibili, cosa che non sara' possibile nemmeno con i dati dell'ISTAT. 

Sono d'accordo che aggiungere i diplomati e' ardito ma non c'era altra scelta, i dati dei laureati erano troppo pochi. I dati dell'ISTAT li ho ordinati, via EUROSTAT, arrivano fra 10 settimane, se tutto va bene. 

PS L'appellativo di "cattocomunista" te lo sei preso non per la questione dei dati, ma per l'affermazione che la soluzione dovrebbe essere quella di cercare i motivati e volonterosi.

 

 

[sermone su come fare bene il ricercatore, omesso] ... I dati Istat utilizzati dal governo dicono invece ESATTAMENTE IL CONTRARIO di quanto “scoperto” da Brusco e Moro, e cioè che gli impiegati pubblici guadagnano sensibilmente meno degli impiegati nelle grandi imprese sia nell'industria che nei servizi.

 

Guarda FLV, te l'han detto in tutte le salse, ma tu proprio sembri non voler capire. E cambi argomento ogni due e due; te ne tirano giù uno e te ne inventi uno nuovo. L'obiettivo non ho capito cosa sia, a parte sostenere che gli stipendi dei dipendenti pubblici (non è che magari sei un dipendente pubblico?) sono troppo bassi.

Comunque, provo persino io, che sono il più ben educato, tollerante e paziente di tutti. Prova a leggermi vah, se hai un attimino. Pronto?

MACHISENEFOTTE SEI LA MEDIA NAZIONALE DEI SALARI DEGLI IMPIEGATI PRIVATI DELLE GRANDI IMPRESE È MAGGIORE DI QUELLA DEGLI IMPIEGATI PUBBLICI? CIO' CHE CONTA È IL RAPPORTO RELATIVO FRA NORD E SUD!

Non hai capito che il punto è sul DIFFERENZIALE del rapporto privato/pubblico tra Sud e Nord? Anche se nella media di TUTTI i salari il privato fosse maggiore del pubblico, occorrerebbe comunque guardare al differenziale dei due rapporti, quello del Nord e quello del Sud! Si chiama "diff-in-diff", Lo Vecchio, diffindiff! O senso comune, se proprio vuoi!

P.S. La qual cosa non toglie che, comunque, sia INSENSATO prendere i salari degli IMPIEGATI della grande industria per fare il confronto con i pubblici. Anzi, è una porcheria da non credere. Per mille ragioni:

1. Perché siamo interessati al costo opportunità del dipendente pubblico (fosse pure laureato, che fra gli impiegati del pubblico valanghe di diplomati ci sono) e quel costo opportunità sarà determinato dalla media dei salari dei laureati nelle altre occupazioni, non solo nella grande industria che (vado a memoria) occuperà si e no il 10% dei lavoratori dipendenti italiani!

2. Perché, come ti hanno già fatto osservare, QUEL campione è territorialmente distorto visto che la grande industria al Sud quasi non c'è. Quindi, per il punto 1., al Sud i salari della grande industria sono il costo opportunità di qualcuno, se lo sono, solo se è disposto ad emigrare! Lo capisci, o no?

3. Perché, anche se 1. e 2. non fossero vere, comunque la classificazione "impiegati" è fonte di distorsioni, visto che nel ruolo di "impiegati", nella grande industria, ci sono mansioni semi-dirigenziali che trovano ben poco riscontro nel settore pubblico (dove si diventa "dirigenti" appena ti assegnano una scrivania con i cassetti ... così lo stipendietto sale).

Ora pensaci, Lo Vecchio, pensaci per favore prima di inventartene un'altra. Davvero, lo dico per te, io comunque ho imparato quello che dovevo imparare e con questa discussione ho chiuso.

Siccome non capisco niente di economia, torno a descrivere fenomeni concreti visibili ad occhio nudo. Nessuno dubita che i dipendenti pubblici preferiscano vivere nel sud. La pressione per un trasferimento "a casa" produce, attraverso raccomandazioni, un eccesso di impiegati negli uffici del sud e spesso una carenza a nord (ad esempio nelle agenzie delle entrate, gli ultimi dati che ho visto erano in uno studio di S.Cassese di molti anni fa, ma non credo che le cose siano cambiate). I carabinieri che hanno mantenuto la tradizione della assoluta trasferibilità dei loro dipendenti, hanno risolto il problema offrendo abitazioni di servizio ad affitto molto contenuto. Poiché il differenziale del costo della vita tra nord e sud è fortemente influenzato dal costo dell'abitazione, in questo modo di fatto si pagano di più i dipenenti quando lavorano al nord. Negli anni cinquanta qualcosa di simile avveniva per tutto l'impiego pubblico statale. Esisteva un ente che si chiamava INCIS (Istituto Nazionale Case Impiegati dello Stato) che costruiva e affittava case agli impiegati pubblici ad un costo moderato. Queste case sono state tute "riscattate" e credo che lo INCIS non esista più (o forse esiste come ente inutile). Forse una diversificazione degli stipendi degli impiegati pubblici tra nord e sud potrebbe avvenire attraverso uno strumento simile. Forse lo strumento potrebbe essere affidato a privati, attraverso una convenzione. Il privato godrebbe del vantaggio di avere affittuari appartenenti al ceto piccolo borghese, il cui affitto è direttamente prelevato dallo stipendio. Questo vantaggio potrebbe addirittura compensare l'imposizione di un canone che non possa superare, ad esempio, il 25% dello stipendio netto del dipendente.

Non mi infilo nella discussione sui dati, perchè, a naso, mi sembrano poco contestabili: qui al Sud il dipendente pubblico è decsiamente meglio pagato di quello privato, sia pure per un semplice, banalissimo sostantivo: mercato. Se io cerco, ad esempio, un operaio addetto per macchina CNC, ne trovo a tonnellate (ormai soprattutto cinquantenni espulsi dal mercato del lavoro), per cui, senza essere particolarmente cattivo, gli offro 1.000 euro/mese, quello mi bacia la mano e si dichiara disposto a seguirmi fin sulla luna. Poi prendo un laureato in filosofia/storia/scienzepolitiche senza nè arte nè parte, e gli dico: il tuo obiettivo è di lavorare gratis per due anni, poi scali la graduatoria, e con qualche spintarella ti ritroverai in 4/5 anni a guadagnare 1.200 euro/mese, senza seguire nessuno sulla luna, secondo voi quello che fa ?

E ora veniamo a JMK, citato troppe volte senza rendergli grazie. E' fuori discussione che è meglio un prof pagato 1.200 euro/mese con una discreta propensione al consumo, piuttosto che dare tanti dindini gratis in giro, questo perchè (JMK dixit), anche se il vostro reddito è zero, il vostro consumo non è mai zero. Per questo la social card di GT non è una politica Keynesiana, ma solo carità. E allora? A livello di pensiero ricordo che JMK non ha mai contestato il mercato, ha detto solo che in alcuni "momenti" andava un pò aiutato. Quindi lasciamolo stare e vediamo i fatti: al Sud un dipendente pubblico se la cava meglio di uno privato, e questo è vero soprattutto quando il suo skill non è vendibile sul mercato del lavoro. Un mercato della clientela politica alimenta questo circuito, per cui non esistono disincentivi per certi skill, siano essi obsoleti, sorpassati, o semplicemente inadeguati, per cui un laureato in Storia con 70/110 può benissimo fare lo spazzino a Nocera Inferiore, o il guardaboschi in Aspromonte: è il mercato politico, bellezza!

Se ne esce? Certo, e qui hanno ragione gli autori, se ne esce solo con un forte disincentivo alla creazione di rendite di posizione, di profili lavorativi sostanzialmente inutili , con la fine del parassitismo.

Concludo con un ricordo accademico sugli incentivi monetari e di altra natura, se non ricordo male era Economia Comparata, in cui analizzando il sistema sovietico (ebbene sì!) l'autore o gli autori riportavano la discussione in atto in Unione Sovietica sul sistema di incentivi (sembra che il sistema sovietico avesse dei problemini -)), in cui si parlava di un sistema di incentivi per i direttori di stabilimento, chiamato "sistema Karkov" (potrei sbagliare, ma se mi contestate il nome tiro fuori il libro dalla naftalina e divento preciso). Incentivo monetario... e non dico altro...

Fossero tutti come te, i "keynesiani" nostrani!

Arrivo in ritardo con questo commento, ma vorrei osservare che non sono solo le scuole private ad appropriarsi delle "rendite" dell'impiego come insegnante della scuola pubblica. Se ne sono appropriati anche i professori universitari che hanno imposto (in competizione tra loro) un percorso di almeno otto anni di studi universitari per conseguire l'abilitazione all'insegnamento e quindi per entrare nelle famigerate "graduatorie". Ci volevano infatti 5 anni di laurea magistrale, un anno di attesa, a meno di non laurearsi entro settembre del quinto anno, e due anni di SSIS. I professori SSISini insistevano che non era loro responsabiltà questa eccessiva lunghezza perché a parer loro si dovevano ammettere i laureati triennali alla SSIS, i professori delle facoltà (in gran parte di lettere) attribuivano invece le colpe della lunghezza dei percorsi alla inutile formazione pedagogica della SSIS. Tutti d'accordo dunque per appropriarsi delle rendite sotto forma di uditorio coatto che giustificava la loro esistenza o espansione. Di fronte a questi fenomeni ha senso diminuire selettivamente gli stipendi per evitare rendite? A me sembra che sia più semplice ed efficace rendere meno oneroso in termini di attese (e quindi più selettivo) l'accesso alla professione di insegnante. In questo modo la rendita, cioè l'offerta di uno stipendio superiore a quello che sarebbe dettato dal mercato, può tradursi nella possibilità di reclutare personale più competente e preparato. Naturalmente questa mia opinione svela un mio pregiudizio contro il valore della esperienza acquisita con più o meno brevi supplenze e  della competenza acquisita da lunghi studi universitari. A proposito di rendite devo dire che anche le School of Education americane riescono ad appropriarsi di un bel po' di rendita non tanto, credo, in relazione ai compensi dei docenti di scuola secondaria, ma piuttosto in relazione ai compensi dei burocrati forniti di titoli di Doctor of Education, che popolano le scuole secondarie americane. Ma la mia esperienza risale a molti anni fa, quando i miei figli hanno sperimentato le scuole secondarie americane, ad una età che hanno adesso i miei nipoti. Può essere quindi che tutto sia cambiato in meglio. 

Il Corriere della Sera di oggi pubblica un fatto aneddotico che fornisce una stima indicativa della rendita associata ad un posto pubblico nella ASL di Roma:

Un dipendente del Centro per l'impiego di Roma è stato arrestato dagli agenti della squadra mobile con l'accusa di estorsione aggravata.

SESSO PER UN POSTO DI LAVORO ALLA ASL - L'uomo, un romano di 56 anni, sposato, aveva preso di mira una donna di 46 anni [...] la donna ottiene, grazie all'uomo, un contratto presso una Asl. L'atteggiamento del dipendente pubblico muta drasticamente: inviti a cena, messaggi telefonici e infine una minaccia: «Mi devi 20 mila euro per non rischiare di perdere il lavoro». Una cifra che la donna, secondo il piano stabilito dall'arrestato, poteva «scalare» accettando di andando a letto con lui: ad ogni rapporto la cifra scendeva di 250 euro.

[...]il dipendente è stato bloccato mentre prendeva dei soldi dalla donna. Nella sua abitazione sono stati trovati nominativi e pratiche di altre donne, il che fa pensare agli inquirenti che l'uomo ne minacciasse altre.