La riforma del valore legale: follie dirigiste in agguato

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Si è infiammato il dibattito sul valore legale della laurea. Monti sembra intenzionato ad intervenire, ma venerdì ogni proposta di riforma è stata rinviata. L'occasione per migliorare il sistema esiste, il rischio che finisca in un nulla di fatto, o in un peggioramento della situazione attuale, pure. Ne hanno parlato, fra gli altri, Pietro Manzini su LaVoce, Andrea Garibaldi sul Corriere, Gianni Trovati su La Stampa, e, per citare una campana diversa, i kompagni dell'ANDU. Il mio parere è diverso da tutti, almeno in parte.

Cos'è il valore legale

Ho discusso del valore legale in almeno dueoccasioni, e rimando a quei post chiarimenti per chi, immancabilmente e comprensibilmente, abbia dei dubbi sul concetto, sul quale è facile fare confusione. Qui mi limito a ribadire il punto fondamentale: il valore legale corrisponde ad una certificazione da parte di una autorità competente, della qualità minima del titolo di studio. In questo senso, una qualche forma di valore legale esiste anche nei paesi anglosassoni, anche se il sistema è diverso da quello nostrano (in Italia certifica il ministero, negli USA, semplificando, certificano alcuni enti privati o organizzazioni professionali, mentre il ministero certifica i certificatori - alcuni liberali nostrani farebbero bene ad informarsi della piovra burocratica che questo sistema comporta prima di additare il sistema anglosassone come il paradiso in terra).

Nell'accezione comune del termine però il valore legale corrisponde a tutto l'insieme di norme che concorre a stabilire quanto "valga" un titolo di studio. Queste norme comprendono le regole imposte alle università private per poter rilasciare diplomi di laurea, le regole dei concorsi pubblici per l'assunzione dei laureati, le regole per la partecipazione ai concorsi per l'ammissione agli albi professionali, e così via. 

Perché il valore legale è un problema

Come hanno scritto in molti, il problema principale del valore legale è l'equiparazione delle università nelle valutazioni che si effettuano per formare le graduatorie dei concorsi pubblici. Mentre il settore privato può diversamente valutare un titolo di studio a seconda dell'università conferente, il settore pubblico non lo può fare perché ai candidati ai concorsi il titolo di studio deve conferire lo stesso punteggio indipendentemente dall'università di provenienza. Questo è un problema perché, vista la sostanziale presenza del settore pubblico nell'economia e in particolare, nel mercato del lavoro dei laureati (pensiamo a dottori, insegnanti, dirigenti pubblici), il mercado del lavoro dei laureati ne risulta notevolmente distorto. Se i concorsi pubblici non distinguono fra università eccellenti e università mediocri, sarà anche basso l'incentivo per lo studente ad acquisire un titolo di studio in una università migliore, il che riduce l'incentivo per le università ad accapparrarsi docenti e ricercatori migliori, il che appiattisce la qualità dell'università e ricerca. Il problema dunque sta principalmente non tanto nel "valore legale", inteso come certificazione di qualità, ma nei criteri di reclutamento della pubblica amministrazione. Di fatto, le proposte sul tappeto propongono alcune modifiche in questo senso. Queste alcune proposte: (1) eliminazione del vincolo del tipo di studio per l’accesso ai concorsi pubblici, (2) eliminazione del valore del voto di laurea nei concorsi pubblici, (3) valutazione differenziata della laurea a seconda della qualità della facoltà/università di provenienza, (4) eliminazione o riduzione del peso della laurea nei concorsi pubblici.

Il problema che non menziona nessuno

Un altro problema, dal punto di vista delle università private,  è spesso  evidenziato dai colleghi della Bocconi, che lo sentono sulle proprie spalle: le università statali non hanno grosso interesse a cambiare la situazione, mentre   le università private il valore legale devono guadagnarselo. Il vincolo fondamentale per le università private sembra essere l'imposizione da parte del ministero dell'assunzione di una percentuale minima di docenti tramite il meccanismo dei concorsi. In sostanza la Bocconi, per avere il valore legale, deve assumere alcuni docenti con meccanismi simili a quelli usati dalle università statali, piuttosto che assumerli direttamente con i criteri che più le aggradano. Il vincolo aggiunge una certa macchinosità e una buona dose di inefficienza al reclutamento, anche se le università private restano libere di pagare di più i propri docenti (e in parte lo fanno), di reclutare almeno un sottoinsieme di docenti senza concorso (la Bocconi lo fa e, di recente, lo fa anche qualche università Statale tramite qualche stratagemma). Però, e comprensibilmente, questi vincoli sembrano ingiustificati. Altrettanto comprensibilmente, le università private (e anche alcune università statali) vorrebbero che questi sforzi venissero premiati riconoscendo ai propri studenti nei concorsi pubblici la (presumibilmente maggiore) qualità degli studi intrapresi. 

Il rischio di fare peggio

Ecco un esempio del rischio di far peggio. In alcune proposte si sta parlando di usare l'ANVUR (l'agenzia governativa che valuta le università) per stabilire una graduatoria. Citando Trovati dal Sole 24 Ore linkato sopra:

per poter attivare i corsi, gli atenei dovranno sottoporre la propria offerta formativa all'ANVUR, che darà o negherà il via libera in base ad una valutazione complessa su sedi,  organici, strutture, ma anche su qualità della didattica e della ricerca.

Tale graduatoria dovrebbe poi essere usata nei concorsi pubblici per assegnare un diverso punteggio ai laureati di diverse università. Cito dall'articolo di Manzini su LaVoce linkato sopra l'esempio di un concorso di assunzione in una Asl:

L’Asl che bandisce un concorso attribuirà allora un certo punteggio (ad esempio, 100) alla laurea dell’università/facoltà X, prima nel ranking di riferimento, e un punteggio inferiore (ad esempio, 90) alla laurea dell’università/facoltà Y, seconda nello stesso ranking, e così via a scalare. La regola dovrebbe essere la più semplice e meno burocratica possibile. Ogni amministrazione dovrebbe poter attribuire a ciascuna università/facoltà il punteggio che vuole; si chiede semplicemente di rispettare la posizione del ranking e dunque chi precede deve necessariamente avere un punteggio superiore di chi segue.

Spero non serva commentare la follia dirigistica che tale sistema creerebbe. Un'agenzia di burocrati ministeriali, coadiuvati si presume da una commissione baronale, stabilirà una complessa graduatoria di atenei e corsi di laurea, cercando di sindacare, per esempio, se il corso di Economia bancaria dell'università di Venezia sia migliore di quello di Economia delle imprese bancarie dell'università di Padova. Tutto questo ambaradan, per poi lasciare alle singole amministrazioni libertà di ignorare o quasi la graduatoria, assegnandole un peso minimo nella valutazione concorsuale. A che pro?

Assumiamo invece che la riforma "funzioni" e che si instauri una norma informale per cui la graduatoria sia seguita e pesata in modo consistente. Si finirebbe per premiare ingiustamente gli studenti scarsi dell'ateneo giudicato migliore rispetto a quelli bravi dell'ateneo peggiore. Migliore e peggiore in base a giudizi inevitabilmente arbitrari, che arbitrariamente condizioneranno la scelta di frequenza degli studenti.

E come migliorerebbe questo sistema la competizione fra università per i migliori docenti, senza una vera liberalizzazione del mercato del lavoro universitario? Finché i docenti saranno tutti pagati lo stesso stipendio quale sarà l'incentivo di spostarsi all'ateneo migliore? Finché la progressione salariale si baserà unicamente sull'anzianità accademica, quale sarà l'incentivo a migliorare il proprio insegnamento, pur rimanendo nella stessa università?

Cosa occorre veramente fare

Se il valore legale è la certificazione della qualità minima del corso di studio, questa si consegue stabilendo con chiarezza alcuni criteri il più minimali possibile sul sistema della valutazione delle università, piuttosto che congegnando un barocco sistema che intervenga sui dettagli dell'offerta formativa, come, per esempio, sui corsi e sul loro contenuto, o sulla percentuale di insegnanti che debba essere assunto tramite concorso piuttosto che con altri criteri. 

A tale valutazione deve accompagnarsi una riforma drastica del reclutamento concorsuale nel settore pubblico che lasci libertà alle amministrazioni di valutare i candidati nel modo che più gli aggrada, ma stabilendo punizioni adeguate per i dirigenti reclutatori in caso di mancato perseguimento degli obiettivi. Andrebbe perciò introdotta  la possibilità di licenziare i dirigenti che non riescono a perseguire gli obiettivi desiderati dall'amministrazione, ed aggiunta una buona dose di flessibilità sulle progressioni salariali e di carriera che dovrebbero basarsi non tanto sulla valutazione di una laurea conseguita anni prima, ma sulle competenze e sulla produttività dell'impiegato o dirigente. 

L'obiettivo di incentivare la qualità dell'offerta didattica e della ricerca nelle università statali si persegue invece più efficacemente e direttamente intervenendo sulla concorrenza fra università cambiando drasticamente i criteri di reclutamento e compensazione dei docenti, ed i criteri di trasferimento delle risorse pubbliche alle università, per i quali certamente una valutazione da parte di un organismo competente che operi sotto il principio della peer review può essere appropriata.

Il problema principale delle università italiane non è la qualità minima, che è decente, ma la qualità massima, che non è al pari degli altri paesi avanzati. Occorre creare un vero sistema in cui le università possano competere su più dimensioni (non bisogna per forza fare ricerca ovunque), ed in cui possano emergere spontaneamente (non scelti da una commissione baronal-ministeriale) alcuni, pochi, centri di eccellenza accessibili da tutti gli studenti meritevoli indipendentemente dal reddito.

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Commenti

Ci sono 63 commenti

assolutamente condivisibile

Di solito i post sull'Università di nfA li leggo senza commentare, perchè non ho nessuna competenza (e, a differenza di altri argomenti, ne sono consapevole :-) ) .

In questo caso mi permetto di commentare che forse Monti è la persona  adatta per intraprendere una riforma come quella che auspica l'articolo ma il nodo gordiano, senza risolvere il quale ben difficilmente si potranno ottenere risultati, è questo

Andrebbe perciò introdotta  la possibilità di licenziare i dirigenti che non riescono a perseguire gli obiettivi desiderati dall'amministrazione, ed aggiunta una buona dose di flessibilità sulle progressioni salariali e di carriera che dovrebbero basarsi non tanto sulla valutazione di una laurea conseguita anni prima, ma sulle competenze e sulla produttività dell'impiegato o dirigente. 

Senza la possibilità di licenziare e/o penalizzare chi sbaglia, viene a mancare, a mio avviso, l'incentivo fondamentale al funzionamento del sistema proposto.

La cosa che mi dà generalmente ai nervi di questo tipo di proposte di riforma è che riconoscono l'esigenza di un cambiamento, ma inevitabilmente mancano il bersaglio. Se si dice che bisogna abolire il valore legale del titolo di studio (una cosa di cui si possono discutere i pro e i contro, ma con una sua logica) è perché si vuole che i criteri di valutazione NON siano legati ad automatismi burocratici.

Sostituire il valore legale, un automatismo burocratico, con un altro automatismo burocratico, significa fare le cose tanto per farle (e ciò avviene perché non si possono affrontare gli interessi che gli automatismi difendono -e non sono solo, o sempre, i baroni).

Quando parliamo di scuole, università, professioni o altri settori di interesse generale si hanno spesso spunti interessantissimi nella discussione pubblica, e anche gruppi di pressione che si fanno carico di portarli avanti. Nella composizione degli interessi opposti, però, vengono fuori dei simulacri senza spessore.

Mi viene in mente l'apologo del sarto cinese. Un inglese, sapendo che i sarti cinesi erano molto bravi, volle farsi fare un vestito nuovo, all'occidentale. Portò il suo vecchio smoking al sarto e gli disse di copiarlo pari pari. Assolutamente identico! si raccomandò

E quello rifece il vestito...identico in ogni dettaglio, compresi i buchi dietro i gomiti. 

Così sono le nostre riforme: copiano altri modelli senza capirli, e rimane solo l'immagine.

Non si abolisce il titolo legale, ma si devasta il sistema dei voti, incentivando a prendere 18...

La prima volta che sentii parlare di questo argomento facevo seconda media (a.s. 1968/69), Direi che la cosa più semplice sarebbe quella che si faceva una volta nelle botteghe artigiane, fammi vedere cosa sai fare, in base a quello ti pago (ammesso che superi la prova) e man mano che ti farai l'esperienza ne discutiamo.

Una domanda: se il livello dell'istruzione universitaria è così basso, com'è che (per quel che si legge) la maggior parte degli ingg. del politecnico di To ha praticamente un contratto ancor prima di laurearsi? E tutti quelli che emigrano e vengono accolti a braccia aperte con compensi che in Italia si sognano?

Penso che due aspetti aggiuntivi andrebbero presi in considerazione, rispettivamente su valore legale e concorrenza tra universita'.

1. Una delle conseguenze del valore legale, almeno come da quadro normativo vigente, é che il Ministero pone vincoli strettissimi (e spesso privi di fondamento didattico) alla definizione dei curricula di studio.  Questa strozzatura a monte frustra la sperimentazione di nuovi percorsi formativi e l'adattamento di corsi di laurea esistenti a nuovi obiettivi didattici. 

2. Aumentare la competizione tra universita' é condivisibile, penso pero' che i mercati coinvolti siano due: quello della didattica e quello della ricerca. I provvedimenti suggeriti  in materia di reclutamento avrebbero un effetto immediato (imho) principalmente sulla competizione per ricercatori-in-gamba.

La competizione per studenti-in-gamba non puo' prescindere (a) da una maggiore disponibilita' delle matricole alla mobilita' geografica e (b) da una loro maggiore elasticita' alla qualita' nel momento della scelta del corso di studio. 

 le università private il valore legale devono guadagnarselo

se se lo sono guadagnato queste undici università telematiche non deve essere poi così difficile

questa,  o questa o questa

Se continui a leggere trovi:

Il vincolo fondamentale per le università private sembra essere l'imposizione da parte del ministero dell'assunzione di una percentuale minima di docenti tramite il meccanismo dei concorsi.

Insomma, il problema è che sono forzate ad assumere parte dei docenti a concorso anzichè decidere autonomamente ogni assunzione.

In Italia alcune lauree sono fra loro "equipollenti", e potrebbe anche essere difficile stabilire se il laureato in Scienze Politiche della Cattolica valga più o meno  del laureato in Economia della Facoltà di Catanzaro, per questo ci sono i concorsi pubblici, la laurea è solo un pre-filtro (niente laurea, niente concorso), non capisco questa discussione "politica" (non di nFA, proprio dei politici) sul valore legale del titolo di studio, forse siamo un popolo di ignoranti/laureati (soprattutto in molte università del Sud) e si vuole evitare che posti anche delicati finiscano in mano alle capre (già lo sono), ma sarebbero sufficienti già dei pre-test di ingresso selettivi prima del concorso per evitare problemi del genere, e facendoli molto difficili, quasi come quelli sul notariato, di modo che si sa che se non sei preparato sarai pure laureato, ma non serve a niente.
Il mercato, invece, questo problema non lo ha: già riesce ad "apprezzare" le differenze fra le varie Università.

Un'aspetto fastidioso di questa proposta è la vaghezza ed il procedere per slogan ideologici da una parte e dall'altra. 

Questo post ha il merito di evidenziare alcuni aspetti concreti ma essenziali a cui gli integralisti non si abbassano, l'ho citato come fonte utile.

Ci sono ulteriori problemi rispetto a quelli citati sopra.

A) Esistono norme europee per il riconoscimento dei titoli di studio, se aboliamo il valore legale delle nostre lauree (e.g. medicina ma anche ingegneria) occorre pensare un sistema di accreditamento che permetta ai nostri laureati di partire alla pari con gli stranieri se vogliono andare a lavorare all'estero.

B) La valutazione degli atenei per ora (e temo per altri anni a venire) è fortemente centrata sulla ricerca (gli indicatori "meritocratici" sulla parte formazione misurano il volume e non la qualità). L'ANVUR ha già i suoi problemi a definire un modo per valutare la ricerca...

C) Il sistema dei concorsi si basa su una abilitazione "scientifica" nazionale, la valutazione delle capacità didattiche è lasciata (per chi lo desidera) agli atenei in fase di valutazione/concorso locale.

Relativamente alla follia dirigistica, aggiungo che nell'ipotesi di arrivare ad un ranking che non sia fasullo e che sia basato sulle prestazioni in campo di formazione: come si fa a dire che una laurea nell'ateneo X vale z volte quella nell'ateneo Y? E' un altro errore da manuale di nonna papera...

In generale per attuare una riforma di questo tipo (ammesso di trovare il modo giusto) sono necessari tempi molto lunghi per mettere in piedi un sistema di accreditamento alternativo, sicuramente oltre la primavera 2013.

Marco.

Non sono affatto sicuro che coloro che si buttano a fare un concorso pubblico, sono gli scarsoni che, pertanto, non sono stati assorbiti dal mercato. Del resto, quanti "bravi" che ora sono all'estero o sono stati assorbiti da un privato in Italia, hanno provato a superare un concorso pubblico senza riuscirci? Vuol dire che chi è entrato, era più bravo del bravo (ovviamente al netto degli sponsorizzati!). 

 

Anche nel privato, molte aziende anche importanti, non pongono un filtro sull'università di provenienza, se così fosse, tutti i laureati del sud verrebbero dopo quelli del nord (cosa non vera dato che in fase di recluiting, accade non di rado, che un laureato di Milano viene scartato a favore di un laureato del sud). La valutazione di una persona è molto complessa, se fosse così facile le selezioni le farebbe un computer, basta una tabellina con excel. 

 

E' vero che il tasso di occupati dopo 3 anni, tra  università del sud (considerate peggiori) e del nord è nettamente a favore delle seconde, ma questo è in larga parte dovuto al fatto che al sud non c'è tessuto imprenditoriale, non c'è lavoro e la stragrande maggioranza dei laureati preferisce non spostarsi, vuoi per motivi economici, affettivi, personali ecc....  Questo vale sia al nord che al sud, con la differenza che chi vive già al nord, ha molte opportunità in più.

Non condivido molto le tue impressioni....

Comunque il punto non è se nel privato pongono un filtro o meno. Il punto è che nel privato, SE VOGLIONO, sono liberi di porre quel filtro, nel pubblico, ANCHE VOLENDO, non possono. Ergo, il pubblico è maggiormente vincolato.

Prima del presente livello di disoccupazione, quando per una posizione si candidavano al massimo una decina di persone, il privato aveva il vantaggio che alla fine, dopo uno screning dell'ufficio personale, la selezione era fatta dalla persona dalla quale saebbe dipeso il nuovo assunto; in questa situazione era abbastanza agevole verificare il profilo dei candidati rispetto a ciò che sarebbe loro stato richiesto. Lo screening del personale, assimilabile ad un concorso, non dava mai un giudizio definitivo: tutti i curricula e i risultati dei test standard erano comunque consegnati a chi richiedeva l'assunzione e non era raro che un candidato scartato nei colloqui preliminari alla fine venisse preferito ad uno accettato.

Ora questo, considerato il numero dei candidati, è quasi impossibile e anche le assunzioni nel privato è come fossero fatte per concorso con il solo vantaggio di potere rifiutare un "vincitore". L'università di provenienza, a mia esperienza, garantisce solo un livello minimo dei candidati, ma non è raro il caso di potere a volte trovare profili più brillanti in persone laureate da università di provincia. Spesso chi proviene da una università prestigiosa ha grandi aspettative, non sempre giustificate, e risulta difficile impiegarlo in mansioni  che oltre a una dose di creatività richiede anche una certa quota di lavoro ripetitivo.

Quando si assume una persona non sempre bisogna scegliere il migliore: i risultati positivi si ottengono quanto più la potenzialità dell'individuo corrisponde al job che gli sarà dato sia come minimo (che garantisce che farà bene il lavoro) che come massimo (che garantisce che lo farà con la necessaria motivazione).   

Vorrei aggiungere che il valore legale dei titoli di studio crea improprie limitazioni all'accesso alle professioni e agli impieghi  da parte di non laureati e di laureati in discipline diverse da quelle rigidamente prescritte per le diverse professioni. Fino a venti anni fa i ragionieri, senza laurea, potevano fare tutto quello che possono fare i dottori commercialisti. Una leggina approvata negli anni novanta sollecitata dal collegio dei ragionieri ha imposto un diploma universitario per l'accesso al collegio. Ma ancora fino ad allora i dottori commercialisti non avevano il monopolio legale di alcuna attività. Tutto quello che potevano fare lo potevano fare anche i ragionieri e/o gli avvocati. Poi sono riusciti ad avere il monopolio sul mestiere di "revisore". Un laureato in scienze statistiche ed economiche o un laureato in inegneria gestionale potrebbe facilmente acquisire le competenze necessarie per svolgere i compiti di un dottore commercialista, ma anche se sostenesse i necessari esami in ragioneria ed economia aziendale o diritto commerciale non avrebbero la laurea giusta. Il percorso universitario che consiste di una laurea triennale in fisica ed una laurea magistrale in ingegneria nucleare sembrerebbe quello giusto per preparare un ingegnere nucleare, ma chi avesse seguito questo percorso non potrebbe iscriversi all'ordine degli ingegneri.  Non so se sia riuscito il progetto decennale dell'ordine dei giornalisti di sbarrare la strada ai non laureati. Temo di sì. Ma il fatto che i migliori giornalisti italiani erano stati a suo tempo studenti universitari falliti contribuiva a mettere in luce l'inadeguatezza delle università italiane. La proposta del ministro Profumo, bocciata dal Consiglio dei Ministri cercava di porre qualche rimedio a queste storture (ne ho parlato in un articolo pubblicato oggi da Il Riformista). Naturalmente la proposta di affidare all'ANVUR il compito di classificare le lauree aggraverebbe le storture. E' una proposta incredibilmente antiliberale ed è ben strano che sia sostenuta da chi argomenta citando   Einaudi.

Qual è il Paese degli Esami di Stato per l'accesso alle Professioni?

Gli Stati Uniti d'America, ovviamente. E' noto a tutti, tranne ai "soloni" di casa nostra. Nel caso insegnino ogni tanto al MIT, facciano un salto agli uffici di Boston dell'apposita agenzia statale.

Poichè noi non siamo ideologi, riportiamo anche un parere critico dell'Economist sull'eccessivo numero di professioni regolate, che attualmente riguardano il 30% della forza-lavoro statunitense.

RR

http://www.economist.com/node/18678963

Segnalo che la VII Commissione del Senato, che un anno fa aveva promosso una Indagine Conoscitiva "sugli effetti connessi all'eventuale abolizione del valore legale del diploma di laurea", e su cui il Servizio Studi del Senato, attivato alla bisogna, aveva prodotto un lavoro ricognitivo sostanzialmente positivo, ha ripreso a lavorare sul tema dopo le audizioni, che si erano concluse il 28 luglio 2011.

Non sappiamo se i Commissari abbiano lazzaronato, e quanti milioni ci sono costati questi ritardi, comunque adesso è pronta la proposta di documento conclusivo, che ieri è stata oggetto di breve discussione, e il seguito è stato rimandato ad oggi per il possibile voto finale.

Per gli interessati, il punto che più riassume le conclusioni "bipartisan" della Commissione, ritengo sia questo:

10) Queste considerazioni portano a ritenere che adottare oggi nel nostro Paese l’abolizione del valore legale della laurea presenterebbe, a fronte dei benefici conseguenti alla liberalizzazione del sistema universitario e alla piena autonomia delle università, vari cospicui aspetti negativi, complessivamente prevalenti: le indubbie difficoltà della realizzazione legislativa, una tempistica non congrua rispetto al recentissimo avvio dell’ANVUR, una non favorevole accettazione da parte di sindacati e ordini professionali, ma soprattutto da parte degli studenti e delle famiglie, una probabile penalizzazione delle università territorialmente svantaggiate, un probabile aumento dei costi universitari a carico degli studenti, una maggiore difficoltà di garantire il diritto allo studio degli studenti capaci e meritevoli ma sprovvisti di mezzi.

Nel complesso il PdL, che era stato quello che aveva spinto per l'indagine, sembra essersi reso conto della complessità dell'argomento (insomma hanno studiacchiato, si è visto chiaramente). Perfino il leghista Pittoni ha finito col dichiarare "di non aver mai suggerito l'abolizione completa del punteggio conseguente al titolo di studio, ma solo un suo riequilibrio a favore di prove pratiche".

Ad oggi.

RR

Segnalo che oggi la Commissione ha approvato all'unanimità il testo finale, con qualche emendamento rispetto a quello presentato nella seduta di ieri. Lo leggeremo con calma.

RR

Adesso, 1 febbraio su radio 24 a "Ore 9, la versione di Oscar". Chi non e' on-line penso possa recuperarla in podcast.

Ecco la differenza tra noi e loro sta qui. Leggete il post de LaVoce sul valore legale e comparatelo a questo nostro che state leggendo. 

Non posso credere che la posizione estrema di Manzini raccolga i consensi di tutta la redazione de LaVoce.  Manzini tuttavia, nonostante il delirio dirigista, ha il merito di dire chiaramente che cosa intende per abolizione del valore legale dei titoli di studio.  La sua proposta è chiarissima anche se più propriamente dovrebbe essere intitolata "conferma ed articolazione in più livelli del valore legale dei titoli di studio".

la proposta corrisponde esattamente ad un aumento del valore legale. Comunque non e' solo sua, era sul tappeto della discussione del consiglio dei ministri

qualcuno volesse spingere le cose di Manzini

 

Chi era? Un amico di Javazzy?

RR

Per me il valore legale è l'ultimo dei problemi, la mia idea è questa: mettere le università pubbliche in vera concorrenza tra di loro, dando le necessarie autonomie ecc, in questo modo non c'è bisogno di una vera e propria classifica, ma piuttosto di un sistema di segnali che esiste già (classifica censis, sole24ore ecc..).

Le università, uno volta messe in concorrenza, possono fare le seguenti cose (dal punto di vista degli studenti):

1) In alta classifica è possibile alzare le rette, questo perchè le tasse universitarie diventano in tal senso un vero e proprio segnale di mercato, un "prezzo". 

2) Borse di studio: una volta che un'università può migliorare l'autofinanziamento, ha bisogno di avere anche i migliori studenti italiani per mantenere alto il suo livello e quindi il suo prezzo, quindi è fortemente incentivata ad elargire borse di studio corpose per assicurarsi gli studenti migliori che non possono permettersi le rette. In sintesi: l'università può scegliersi i suoi studenti.

3) Può competere con le università private: per quanto i bocconiani possano lamentarsi, attualmente non hanno praticamente alcun concorrente diretto. Economia a Padova può anche essere la migliore facoltà italiana, ma sul confronto con i sistemi di collocamento in Bocconi non ha alcuna speranza di uscirne vincente. Tuttavia se le università pubbliche sono messe in vera concorrenza allora Padova, grazie ai sistemi 1) e 2), può competere direttamente con la Bocconi e allora che vinca il migliore.

Questo dal punto di vista degli studenti, dal punto di vista di prof e ricercatori non so, ma credo che la concorrenza possa far funzionare meglio anche quel settore, del resto se un ateneo vuole restare in fascia alta deve andare a prendersi i migliori prof e ricercatori su piazza, altrimenti perder la classifica.

Se il problema delle assunzioni via concorso è quello di assicurarsi le persone più preparate, allora il problema si risolve facendo la distinzione per ateneo. Il sistema concorrenziale, se pensato come ho scritto sopra, praticamente assicura con molta probabilità che non è possibile che un cattivo studente provenga da un ateneo prestigioso e viceversa. 

Ovviamente non sto dicendo niente di nuovo me ne rendo conto.

Intervengo di nuovo per una domanda banale: visto che ci siamo, non sarebbe il caso di cominciare a dire che i concorsi sono una forma di reclutamento arcaica?

Per uno straniero, anche al netto di tutti i giochini sottobanco, l'idea di dover fare una prova su tutto lo scibile relativo ad una disciplina per tentare un dottorato è semplicemente fuori dal mondo, o quasi. Tra l'altro, sarà da ridere valutare le università straniere in base alle valutazioni Anvur...

Sono una forma di reclutamento modernissima.

Ma poi tu confondi la forma del concorso - regole e procedure - con il concetto. E' anche questo, purtroppo, uno dei tanti misunderstanding del dibattito italiano.

RR

Posso anche accettare di ridefinire il concetto, ma prego, illustra il misunderstanding.

Per parte mia, quando ho deciso di fare un PhD, ho parlato con una serie di professori in diverse università inglesi, ho inviato la documentazione e le diverse proposte di ricerca, e poi alla fine ho potuto addirittura scegliere chi mi offriva la sistemazione migliore.

In Italia avrei dovuto fare cinque diversi scritti, cinque diversi orali, rimettermi sui libri come per la maturità (magari per studiare la preistoria greca quando a me interessavano vicende di mille anni più tardi -non sai mai che traccia può uscire!), salvo poi magari scoprire che non potevo essere in cinque luoghi diversi contemporaneamente o quasi per fare la prova.

No grazie.

quando ho deciso di fare un PhD, ho parlato con una serie di professori in diverse università inglesi, ho inviato la documentazione e le diverse proposte di ricerca, e poi alla fine ho potuto addirittura scegliere chi mi offriva la sistemazione migliore

Suggerisco, tanto per cominciare, questa interpretazione: non stavi facendo nessun concorso, in nessuno dei 5 casi. Infatti l'ammissione ai Dottorati inglesi non è, tipicamente (e oserei dire mai), vincolata a numeri "chiusi", fissati. Quindi non stavi concorrendo con nessun altro, ma solo con i criteri di ammissione, sulle tue competenze, che le varie sedi erano eventualmente tenute a rispettare. Erano quindi valutazioni non comparative. E per effettuare tali valutazioni, le sedi si basavano solo sul tuo curriculum anzichè utilizzare, a complemento, altre prove d'esame, utili alla bisogna. Pura scelta, pura tradizione.

RR

Non si accorge che è la stessa cosa, sono solo due criteri di scelta lievemente diversi. Da una parte un concorso con commissione che definisce in base all'esito il requisito minimo di ingresso, dall'altra degli standard che definiscono il requisito minimo di ingresso e in più la discrezionalità del professore che avrà il dottorando con se negli anni a seguire. Succede anche in Italia per certi dottorati in collaborazioni con fondazioni ed enti di ricerca esterni che parte del punteggio per l'ingresso sia a discrezioni dei futuri relatori, non ci vedo niente di strano.

Stessa cosa che? Da una parte c'è un concorso, una gara, dall'altra una scelta individuale sì/no. Lei quando ha ottenuto la patente di guida ha fatto un concorso?

In generale in UK, in USA tutto è a concorso - in Italia anche dove la legge ti impone di farlo riescono spesso a truccarlo.

RR

In Italia un Consiglio dei Ministri voleva fissare astrattamente l'"attenuazione" o la "modifica" del valore legale (?) della laurea.


In un tipico Stato Americano, il Michigan, se ne impippano di Einaudi, e classificano ogni posizione lavorativa in base alle funzioni da svolgere, e alle competenze richieste, con i corrispondenti requisiti in termini di titoli di studio. Non sono certo pagati dai loro elettori per fare le cose a caso.

Segnalo due bei commenti appparsi in questi giorni su altri blog, e che precisano i termini della questione in modo de-ideologizzato:

Bernardo Giorgio Mattarella su "nelMerito", e Giliberto Capano su "laVoce".

RR