Siamo andati a sentire Epifani

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Una decina di giorni addietro abbiamo presenziato ad un incontro di Guglielmo Epifani con un estratto della comunità italiana a New York. L'evento si è tenuto nella elegante cornice della Casa Italiana Zerilli-Marimò, alla New York University.

Prima di addentrarci nella cronaca ed analisi dell'incontro, vorremmo menzionare un semplice fatto di costume che a nostro avviso esemplifica differenze di fondo importanti tra italiani e americani. L'evento si teneva nella piccola biblioteca dell'istituto. Epifani e Gaggi, il giornalista del Corriere che si è gentilmente prestato a fare da moderatore, sedevano ad un lato del tavolo che occupa buona parte della stanza. Ebbene, coloro che sono arrivati tra i primi hanno occupato tutte le sedie appoggiate alle pareti e agli scaffali, lasciando le sedie attorno al tavolo ai ritardatari. Se gli astanti fossero stati americani, si sarebbe verificato l'esatto opposto. I primi si sarebbero seduti nei posti che avrebbero dato loro una maggiore visibilità dell'ospite, una maggiore facilità di ascolto, e infine una maggiore chance di prendere la parola. Che si tratti di deferenza e/o diffidenza per il potere, più o meno costituito? O che altro?

Sindacato in difficoltà. L'unica parte dell'incontro in cui Epifani ha fornito un'analisi lucida è stata quella dedicata alle difficoltà che il sindacato incontra a seguito dei processi che Epifani e molti altri chiamano globalizzazione e finanziarizzazione. Entrambi i neologismi ci paiono particolarmente fastidiosi, ma non ci soffermiamo sul perché in questa sede.

La globalizzazione è un problema per due motivi. Venute a cadere molte delle barriere all'investimento diretto all'estero, il sindacato si trova spesso in posizioni negoziali molto deboli di fronte ad imprese che minacciano di portare la produzione all'estero. Al buon Epifani e ai suoi colleghi non è sfuggito che il problema non sarebbe così grave se i sindacati delle varie nazioni facessero fronte unito di fronte alle imprese. L'obiettivo principale del suo viaggio a New York era la partecipazione a un incontro che gettasse le basi di una sorta di internazionale del sindacato. A noi pare ovvio che il tentativo cadrà nel vuoto, perché i sindacati europei non riusciranno mai a convincere i colleghi dei paesi in via di sviluppo a osteggiare i flussi di foreigndirect investment che provengono dai paesi ricchi. L'altro problema dovuto alla globalizzazione consiste nel fatto che molte delle normative osteggiate dai sindacati non hanno origine a Roma, bensì a Bruxelles e in consessi extra-europei come la World Trade Organization. Al sindacato viene a mancare quello che consideravano il referente naturale, ossia il governo.

Secondo Epifani, la finanziarizzazione, che non è altro che il frazionamento della proprietà delle imprese, sarebbe un problema perché, a differenza del padrone, il management non ha un forte attaccamento al territorio ed è portatore di interessi che spesso sono assai più difficili da comprendere e prevedere. Una delle perle di saggezza di Epifani a questo proposito è stata che gli hedgefunds inducono scelte d'investimento discutibili da parte delle aziende. Quale sia il modello o ragionamento che generi questo risultato, non è dato sapere.

Dirigismo. Ciò che ci ha provocato particolare raccapriccio è stato il continuo riferimento al ruolo, secondo il Nostro irrinunciabile, che lo Stato, il Sindacato, e addirittura le organizzazioni sovra-nazionali dovrebbero giocare nell'organizzazione della vita dei cittadini. Si lamenta il declino dei mirabili distretti industriali italiani? Ebbene, lo Stato (ovviamente in consultazione con il Sindacato) dovrebbe far crescere nuovi distretti. La contrattazione che porta ai contratti nazionali di lavoro dovrebbe essere coordinata a livello europeo, non solo nazionale. E addirittura le fluttuazioni nei corsi di cambio fra valute dovrebbero essere governate da una regolazione "pluralistica" e sovranazionale dei mercati di cambio. Tra le varie espressioni che Epifani ha usato per indicare questo ruolo, una che ci ha colpiti è il "governo dei sistemi complessi." Secondo il sindacalista, lo stato deprecabile sia dei trasporti che delle università italiane sarebbe dovuto alla supposta incapacità italiana di governare sistemi che, come appunto i trasporti e l'università, sono complessi. Cosa esattamente intendesse con 'sistemi complessi', non è dato sapere. Ci pare una di quelle locuzioni fumose usate dagli esperti di economia aziendale quando si accorgono che non hanno proprio nulla da dire. Sappiamo però molto bene cosa intendesse quando parlava di "governo" di quei sistemi. Intendeva: regolazione, regolamentazione, e molto più spesso fornitura diretta di servizi da parte dello Stato. In questa sede, limitiamoci a considerare le università, che conosciamo bene sia da studenti che da docenti. È noto a tutti che i Paesi in cui le Università producono migliore ricerca e migliore educazione sono quelle in cui il ruolo del governo è inferiore. Quale il movente, dunque, che porta gente come Epifani ad invocare lo Stato? Cecità intellettuale di matrice ideologica, o più semplicemente brama di potere? Una brama molto più facile da soddisfare quando si tiene il guinzaglio ben stretto nella mano? Quando si accenna alla casta dominante italiana (politici, sindacalisti, capitani e tenentelli d'industria), siamo spesso convinti che l'ideologia c'entri ben poco. Ne fa testo il continuo rimescolarsi delle alleanze politico-economico-finanziarie. Nel caso di Epifani, però, siamo propensi a ipotizzare che l'ideologia abbia avuto un ruolo determinante nella crescita di quelle spesse fettine di prosciutto che non gli permettono di vedere poco più in là del proprio naso.

Precariato. Ovviamente, il Nostro non ha mancato l'occasione di propinarci una tirata sul precariato. La stabilità del posto di lavoro è la stella cometa non solo del nostro relatore, ma di tutta la sinistra italiana. A questo proposito, Gian Luca ha avuto la possibilità di porre una domanda, semplice semplice. Si è limitato a chiedere ad Epifani perché fosse così ossessionato dalla stabilità del posto, piuttosto che dalla stabilità (o, meglio, prevedibilità) dei consumi. Negli Stati Uniti, la maggior parte dei lavoratori è licenziabile 'atwill', cioe' senza pre-avviso e senza motivazione. Perché gli americani, sebbene questa spada di Damocle sia sempre in agguato, riescono a dormire? Perché non fanno processioni a Washington, modello Piazza San Giovanni? Per una serie di buone ragioni: 1) il mercato del lavoro è molto più flessibile, sicché perdere il posto non significa essere condannati a mesi, se non anni di disoccupazione 2) c'è un sistema di assicurazione pubblica contro i licenziamenti, noto come unemploymentinsurance e 3) ci sono mercati finanziari che, permettendo accesso al credito al consumo, consentono ai più di mantenere stabili i livelli di spesa anche in periodi di disoccupazione. Allo stesso tempo, la flessibilità del sistema fa sì che vi sia una continua riallocazione di risorse umane tra imprese. Tale flessibilità gioca un ruolo chiave in termini di crescita della produttività. Purtroppo Epifani non ha risposto. Si è limitato a contro-battere che la mobilità dei lavoratori nel settore privato è molto forte, che il volume di riallocazione in Italia è paragonabile a quello degli Stati Uniti, e che il problema non è l'articolo 18. Tempo medio allocato da Epifani alle altre risposte: 15 minuti. Tempo utilizzato per rispondere a Gian Luca: 15 secondi.

Pensioni. In materia di pensioni, Epifani ci ha sorpresi. Non ha proposto alcuna soluzione, ma ha perlomeno ammesso, cosa non da poco, che la dinamica demografica pone un problema di difficile soluzione. Alcuni suoi colleghi si sarebbero rifugiati in una inutile refutazione dei dati. Onore dunque al prode Guglielmo, che si è guardato dal farlo.

Salari e meritocrazia. Dopo il recente intervento del Governatore Draghi a proposito del livello medio dei redditi in Italia, la questione della bassezza dei salari italiani è diventata il leitmotiv del pubblico dibattito in Italia. Dopo aver sostenuto che "il 90% degli stipendi italiani è compreso fra i 1.000 e i 1.500 euro netti mensili", Epifani ha commentato la sua recente proposta di ridurre il prelievo fiscale dei lavoratori dipendenti per un ammontare pari a circa un punto percentuale di PIL. Questo però non tanto allo scopo di ridurre la spesa pubblica (ci mancherebbe!) quanto per poter aumentare la tassazione del patrimonio! E quando Gaggi ed altri hanno argomentato che i bassi livelli di crescita e produttività oggi osservati in Italia (cosa di cui lo stesso Epifani si è lamentato, badate bene!) sono legati alla mancanza di meritocrazia, di flessibilità e di incentivi appropriati, Epifani ha ribattuto "Già abbiamo difficoltà ad ottenere 80-90 Euro di aumento, figuriamoci se possiamo spingere la meritocrazia!" Questa miopia ci sembra davvero illuminante: l'enfasi del dibattito in Italia raramente è posta su modi possibili di aumentare la dimensione della torta (cioè, stimolare la crescita); viene posta invece quasi interamente su questioni di redistribuzione. Si propone di ridurre la pressione fiscale sul lavoro dipendente per aumentarla sul patrimonio; si osserva che se un amministratore delegato prende 12-15 milioni di Euro al mese mentre un operaio ne prende 1.000, ciò "crea un problema"; si lamenta la mancanza di innovazione e di investimenti da parte delle imprese, ma poi ci si barrica dietro le battaglie salariali invece di pensare alla ricerca di flessibilità ed incentivi appropriati... La chiusura è stata avvincente. Secondo Epifani, l'Italia sta importando sistemi di compensazione degli alti dirigenti dagli Stati Uniti. Con tali sistemi, si riferisce ai compensi degli AD, per esempio, commisurati all'andamento delle azioni delle rispettive aziende, si rischia di introdurre invidia nella società italica, invidia che potrebbe avere effetti deleteri...

Conclusione. Ci siamo divertiti. Come non avremmo potuto? A pensarci bene, però, viene da piangere. Epifani è a tutti gli effetti elemento di quella che D'Alema, con la sua solita spocchia, chiama classe dirigente. Con D'Alema condivide l'età (li separa un solo anno), gli studi di filosofia (almeno Epifani il pezzo di carta l'ha preso), l'indubbia intelligenza, e il fatto che sono riusciti ad arrivare vicini ai sessant'anni senza aver mai lavorato un'ora in vita loro. (A tale proposito, si veda wikipedia). Il problema veramente grave, però, è che Epifani, e con lui maggior parte della classe dirigente, non ci capiscono proprio nulla. Usano schemi interpretativi della realtà che sono morti e sepolti, e non riescono a staccarsi da questi neanche di un millimetro. E con tutto ciò, ben pochi osano mettere in discussione il vecchio e collaudato modello, la concertazione, i contratti nazionali, il ruolo preminente che lo Stato stesso conferisce al Sindacato per qualsiasi questione di politica economica. Come al solito, non ci resta che piangere.

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Commenti

Ci sono 32 commenti

"una domanda, semplice semplice. Si è limitato a chiedere ad Epifani perché fosse così ossessionato dalla stabilità del posto, piuttosto che dalla stabilità (o, meglio, prevedibilità) dei consumi. Negli Stati Uniti, la maggior parte dei lavoratori è licenziabile 'at will', cioe' senza pre-avviso e senza motivazione. Perché gli americani, sebbene questa spada di Damocle sia sempre in agguato, riescono a dormire? Perché non fanno processioni a Washington, modello Piazza San Giovanni? Per una serie di buone ragioni: 1) il mercato del lavoro è molto più flessibile, sicché perdere il posto non significa essere condannati a mesi, se non anni di disoccupazione 2) c'è un sistema di assicurazione pubblica contro i licenziamenti, noto come unemployment insurance e 3) ci sono mercati finanziari che, permettendo accesso al credito al consumo, consentono ai più di mantenere stabili i livelli di spesa anche in periodi di disoccupazione. Allo stesso tempo, la flessibilità del sistema fa sì che vi sia una continua riallocazione di risorse umane tra imprese. Tale flessibilità gioca un ruolo chiave in termini di crescita della produttività". 

 

Mah, credo che  riescano a dormire appunto perché sono americani e non italiani. Gli italiani non solo non dispongono delle tre  "buone ragioni" per non temere la flessibilità.

Alle buone ragioni ne vanno aggiunte alcune cattive. Un lavoratore flessibile sa di non dover protestare mai, nemmeno quando ne avrebbe il motivo, come nel caso recente di Torino, pena la perdita del posto di lavoro. 

Gli operai di Torino (precari, flessibili) dicono: "Sapevamo che il luogo di lavoro non era in condizioni di sicurezza, ma tacevamo per il timore di essere licenziati".

Oggi Tito Boeri  scrive (1) : "Le leggi ci sono già: la legislazione italiana è stata allineata nel corso degli Anni 90 agli standard comunitari, considerati i migliori su scala mondiale. Ma il problema è che non viene applicata. Perché lo sia ci vorrebbe una presenza capillare su tutto il territorio degli ispettori del lavoro - i cui controlli servono soprattutto per ridurre l’incidenza del lavoro sommerso - e degli ispettori anti-infortunistica delle Asl. Ma entrambi i servizi di ispezione sono sottodimensionati".

Aggiungete che, anche se gli ispettori fossero tantissimi ed efficientissimi, e i responsabili venissero identificati, da noi, il potere dissuasivo delle sanzioni comminate, che non corrisponde mai a quelle che vengono effettivamente irrogate (vedi prescrizioni, indulti, leggine salvifiche o, mal che vada, patteggiamenti), é molto vicino allo zero. In queste condizioni, dal punto di vista economico, si può dire che esista una convenienza a investire nella sicurezza di uno stabilimento? A me non pare.

Nel caso di Torino la flessibilità a qualcuno é costata davvero troppo cara ma, anche senza arrivare a questi estremi, la flessibilità, in Italia, pone sempre le persone in una posizione di debolezza. 

Sperare che il datore di lavoro sia, per sua natura, onesto e di buon cuore deve costituire l'unica speranza per il lavoratore precario italiano?

Pare che in Italia molti non la pensino così e forse é questo il motivo per cui sembrano ossessionati dall'idea della stabilità del posto di lavoro.

Siccome la realtà é questa, che cosa proporreste?

(1) La Stampa, 17/12/2007, MORTI SUL LAVORO, Tesoretti d'ipocrisia, TITO BOERI

 

No Pippi, devi argomentare un po' meglio altrimenti il dibattito si incaglia. Cosa ti fa presumere che la precarietà c'entri qualcosa con le morti della Thyssen Krupp? Secondo il sito dell'azienda la fabbrica occupa 3500 dipendenti. Imprese di queste dimensioni in Italia hanno quasi sempre una presenza sindacale assai forte e una quota di precariato ridotto. Può darsi che la Thyssen Krupp sia un'eccezione, ma non l'ho visto dire da nessuna parte. Indica per favore da dove arriva la tua citazione

 

Gli operai di Torino (precari, flessibili) dicono: "Sapevamo che il luogo di lavoro non era in condizioni di sicurezza, ma tacevamo per il timore di essere licenziati".

 

e magari assicuraci che veramente alla Thyssen Krupp non esista presenza sindacale né lavoratori a tempo indeterminato. 

Per quanto riguarda il sonno degli americani, ti assicuro che se dormono meglio non è perché sono geneticamente superiori a noi. Infatti molti di loro hanno esattamente gli stessi geni nostri, essendo figli e nipoti di italiani immigrati.

 

 

Sono d'accordo con il commento di Sandro. Voglio anche aggiungere che se il collega Boeri scrive Oggi Tito Boeri  scrive

"Le leggi ci sono già: la legislazione

italiana è stata allineata nel corso degli Anni 90 agli standard

comunitari, considerati i migliori su scala mondiale. Ma il problema è

che non viene applicata. Perché lo sia ci vorrebbe una presenza

capillare su tutto il territorio degli ispettori del lavoro - i cui

controlli servono soprattutto per ridurre l’incidenza del lavoro

sommerso - e degli ispettori anti-infortunistica delle Asl. Ma entrambi

i servizi di ispezione sono sottodimensionati".

non sono assolutamente d'accordo. Come non sono d'accordo con Prodi, che ha espresso lo stesso concetto domenica da Fabio Fazio. Le ispezioni non sono l'unico modo per fare rispettare le disposizioni di legge. In parole povere: non conta solo la probabilita' di essere trovati in flagranza di reato. Conta anche l'entita' della pena e la certezza con cui questa viene amministrata. In Italia il problema non sta certo nella carenza di ispettori, ma piuttosto nella INcertezza della pena. O, meglio, nella certezza che il soggetto contravvenente sara' graziato.

 

 

Gli operai di Torino (precari, flessibili) dicono: "Sapevamo che il luogo di lavoro non era in condizioni di sicurezza, ma tacevamo per il timore di essere licenziati".

 

Ma sbaglio, o quello stabilimento era comunque in via di chiusura? Che stabilita' si potevano mai aspettare?

 

Dove, come si conviene, i "pietri" e gli "andrei" a cui rivolgo le domande sono pure figure simboliche, lberamente ispirate dai commenti cosi' firmati in questo post, ma a loro non necessariamente attinenti o riferenti in alcun modo. Messo il caveat di rigore, ecco le domande. 

Ma secondo voi, la triste condizione dei 9 su 10 tassisti e proprietari di negozietti che conoscete e che vorrebbero tutti emigrare in Italia, come si potrebbe migliorare?

Regolamentando gli orari di apertura e chiusura dei negozi, come nel Bel Paese?

Restrigendo il numero di licenze ed aumentando le tariffe dei taxi del 18% in un colpo solo, come nel Bel Paese e nella capitale del medesimo in particolare?

Tassando i loro redditi a quote marginali maggiori, come nel Bel Paese?

Restringendo e limitando il loro accesso a licenze commerciali, di guida, di servizio pubblico passeggeri, eccetera, come nel Bel Paese?

Sussidiando con mille trucchi fiscali e regolamentari le catene di distribuzione di tipo cooperativo, come nel Bel Paese?

Foraggiando una compagnia aerea al "tune" di un milione di euro di tasse di bottegari e tassisti (di quelli che le tasse le pagano) al giorno, in modo che quattro fighette e fighetti dementi romani vadano a spasso negli hotel di lusso del mondo a godersela, facendo finta di fare gli assistenti di volo in aerei sempre più vuoti?

Protestando e lamentandosi perche' ci sono i poveri nati poveri e che il mercato non e' una panacea e che bisogna redistribuire quello che non abbiamo ancora prodotto, come nel Bel Paese?

Predicando contro l'etica del lavoro, della competizione, dello sforzo, della mobilita' sociale, dello "aiutati che il ciel ti aiuta", e diffondendo invece quella del fancazzismo, del farsi furbi, del sussidio, del posto garantito sempre e comunque, dello scaricabarile, del siamo tutti uguali ed il merito non conta, del "io ci ho un amico che ti sistema", del siamo profondi ed acculturati filosofi e la retorica dell'arricchimento personale e' da borghesucci miserabili e di cattive letture, come nel Bel Paese?

Insomma, secondo voi la prosperità economica di quelli che sono nati sfigati, poveri, ignoranti, senza una buona famiglia ammanicata, senza il padre/madre dottore o simili, senza neanche un auto in garage o lo zio farmacista, magari in un paese ex-comunista o non europeo, secondo voi la prosperità economica di costoro, come si raggiunge? Con il metodo Hong Kong o con quello Matera-Napoli? Perché davvero vorrei capirlo. O non è che, per caso, il problema a voi non concerne per ragioni di lignaggio?

 

 

More equal less mobile come dicevano Checchi, Ichino e Rustichini

sul JPubEc. Riprendo un’ indagine di Renato Mannheimer già commentata da Giavazzi sul corriere.

  • «Preferisci un lavoro sicuro, anche se magari meno redditizio, oppure uno meno sicuro ma con migliori prospettive di reddito?». A questa domanda 6 giovani italiani su 10 rispondono di preferire quello sicuro anche se mal pagato.
  • «Supponiamo che un’azienda attraversi un periodo florido e decida di aumentare gli stipendi: preferiresti aumenti uguali per tutti, a quelli che più ne hanno bisogno o a chi ha lavorato meglio?»: 4,4 su 10 rispondono o a tutti in egual misura o a chi ne ha più bisogno.

Ok dirai, in Italia non si vuol

competere e giù con la lista degli inoppugnabili punti che hai appena postato.

Anche per me è un male, credimi. Anche a me piacerebbe che i ragazzi avessero

più coraggio. Ma è anche vero che una società che vede positivamente una

distribuzione del reddito più eguale non mi dispiace. Sarò stato contaminato

anch’io dal modello superfisso? :)

Una società che si preoccupa di

un uomo che perde il lavoro a 58 non mi dispiace. Anche se lo ha perso perché improduttivo.

Pago le tasse anche per questo. (…)

Ciò che non mi piace di certe

posizioni ultraliberiste e ultrameritocratiche è la loro rigidità (probabilmente

è un mio limite) ed il fatto che mi sembrano totalmente noncuranti delle

conseguenze che sugli strati più deboli della popolazione certi provvedimenti

potrebbero avere nel breve-medio termine. Ovviamente anche io non auspico l’inazione.

Anche io voglio un cambiamento. Solo che mi sembra che in Italia efficienza e meritocrazia siano state totalmente spogliate del loro significato

originario e che siano utilizzate dai soliti noti solo come uno straccio da

buttarci (a noi elettori-contribuenti-cittadini) in faccia per far meglio i

loro comodi.

 

 

 

"Già

abbiamo difficoltà ad ottenere 80-90 Euro di aumento, figuriamoci se

possiamo spingere la meritocrazia!"

 

 

Mi sa che il problema sta tutto qui e il resto e' solo contorno. A cosa serve lavorare 24/7 o fare studiare i figli se tanto poi in quel contesto sociale non c'e' movimento meritocratico?

 

A proposito di lavorare 24/7, ecco i miei ricordi dell'America.  L'8 luglio del 1960, sull'aereo che mi portava a Los Angeles, c'era un immigrato italiano che spiegava come e perché in America si potevano guadagnare molti soldi, lavorando il sabato e la domenica,  perché, stranamente,  in questi giorni gli americani si riposavano. Anch'io, come "graduate student", con scarse competenze linguistiche e competenze matematiche non elevate, o, quanto meno,  difformi da quelle dei miei colleghi, sono riuscito a sfruttare bene il sabato e la domenica, quando i miei colleghi "graduate students", in maggioranza sposati e con figli (così si usava, in America, negli anni cinquanta e primi anni sessanta), erano occupati in incombenze famigliari. Cosa è cambiato in Italia? Ma è veramente cambiato qualcosa?