Università. In attesa di riforme vere

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Un ampio progetto di legge sull’università è da tempo annunciato. Le bozze finora circolate non lasciano intravedere svolte. Per alcuni versi, anzi, si possono temere ulteriori involuzioni.

Merito ed efficienza sono valori costantemente richiamati dal ministro Gelmini per un rilancio dell’università. Dalle aspirazioni ai provvedimenti concreti c’è però un’attività complessa, cui partecipano una quantità di persone e su cui possono gravare molti condizionamenti. Conservare intatte le aspirazioni nei concreti provvedimenti non è dunque semplice né, tanto meno, scontato.

Perplessità e timori che, su questioni cruciali, si stiano perdendo le aspirazioni enunciate sorgono dall’ampio provvedimento di legge, più volte annunciato, sull’università. Pur nelle correzioni apportate in bozze successive, la strada imboccata non è la più promettente, per due motivi. In primo luogo perché è frutto di un'illusione: l’illusione che le regole possano essere risolutive, che da sole, cioè, possano risolvere i problemi. In secondo luogo, perché si continuano a subire i condizionamenti del basso livello della competizione politica nel paese e delle lobby che attraversano l’università, da cui ci si dovrebbe invece liberare. Sotto questo aspetto, è singolare che il provvedimento del Governo sia molto simile alla proposta di legge recentemente presentata dal PD. Purtroppo, si tratta di una sintonia dovuta soprattutto a compromessi e finte innovazioni.

Le perplessità sul progetto Gelmini si legano soprattutto a quattro aspetti.

La governance. Il progetto disegna un modello di governance che, senza contrappesi, accentra sul rettore un potere straordinario e affida al Consiglio di Amministrazione, accanto alla “approvazione della programmazione finanziaria”, la “programmazione strategica dell’ateneo”. Il CdA, il nuovo vero organo deliberante dell’ateneo, è non elettivo e rimane aperto il quesito: da chi ne sono scelti i membri? In una precedente stesura si prevedeva poi che il CdA fosse composto almeno per il 50 per cento da persone non appartenenti ai ruoli dell’università. Nella ultima bozza in circolazione si prevede che sia composto almeno per il 40 per cento da persone non appartenenti ai ruoli dell’ateneo. Questa attenuazione non muta lo scenario che si profila.

L’apertura del CdA a una quota maggioritaria, o assai consistente, di membri esterni all’università rappresenta nella situazione attuale un autentico salto nel buio. La collaborazione tra università e mondo produttivo, in particolare il settore imprenditoriale privato, è quasi tutta da costruire nel nostro paese, inclusa la costruzione di efficienti canali informativi sui fabbisogni di formazione da parte delle imprese. Non si può pensare di farla nascere con un colpo di bacchetta magica, applicato addirittura al governo generale di un ateneo. Nei fatti, questo colpo di bacchetta magica rischia di produrre ben altro. Attività ed elezione del rettore sono gli aspetti più esposti ad interferenze di natura politica, e tali certamente rimangono anche nell’ambito del nuovo progetto. L’apertura all’esterno del CdA amplia queste possibilità. Una ulteriore perdita di identità degli atenei, verso caratteristiche analoghe a quelle di ASL o aziende municipalizzate, non è esattamente ciò di cui la ricerca e la didattica universitaria hanno bisogno. Ridurre l’autogoverno in assenza di una partecipazione finanziaria esterna aggiuntiva ai finanziamenti pubblici, espone solo al rischio di accentuare interferenze e clientele politiche. Inutile aggiungere che il rischio è tanto maggiore quanto minore è la forza scientifica di un ateneo o delle sue componenti.

D’altro lato, la esplicita previsione che il rettore sia professore “in possesso di comprovata competenza ed esperienza di gestione” e che analogo requisito di “comprovate competenze in campo gestionale” debba essere soddisfatto da tutti i membri del CdA, sembra trascurare la circostanza che i non soddisfacenti esiti, finanziari e non, di molti atenei hanno radici strutturali assai più complesse di eventuali carenze tecniche di gestione. Su quelle radici sarebbe assai più utile direttamente agire. Di fatto poi, il potere del rettore è già oggi notevolissimo. Ne sono prova evidente le innumerevoli correzioni di statuto promosse in questi anni, appunto dai rettori, per rimanere in carica e i conseguenti, incontrastati successi elettorali. Accrescere un potere già notevole e liberarlo da vincoli, senza affrontare le radici strutturali del declino in atto, è manovra alquanto azzardata.

Inoltre, limitare a due il numero dei mandati rettorali (incidentalmente, otto anni di governo non son pochi) potrebbe favorire molto poco una fisiologica alternanza nella governance. Qui non sembra azzardato ipotizzare che il potere (privo di contrappesi) del rettore in carica potrebbe condizionare la successiva elezione, e la nuova prevista figura del direttore generale, nominato dal CdA su proposta del Rettore con contratto quadriennale, potrebbe ben essere funzionale alla continuità dei gruppi di potere. Le interferenze di natura burocratico-amministrativa nella guida generale di un ateneo non sembrano meno pericolose delle interferenze politiche. Vale qui infine sottolineare che il direttore generale in un università privata (se a questo modello il disegno di legge si ispira) opera in tutt’altro contesto ed è dunque tutt’altra figura.

Il reclutamento. Il progetto prevede una abilitazione scientifica nazionale a lista aperta. La effettiva immissione in ruolo nelle singole sedi è effettuata poi o attraverso una valutazione comparativa o attraverso una chiamata diretta di persone, provviste della necessaria abilitazione, già in forza nell’ateneo.

Io sono molto critica nei confronti di questo schema. Non so se lo schema ha la funzione di fissare una disciplina transitoria rispetto a un futuro, completo affidamento della selezione alle singole sedi. Personalmente ritengo che questo sia ciò che occorre oggi approntare: semplicemente, una disciplina transitoria. In una tale fase transitoria, siano le sedi a bandire nuovi posti, inserendo senz’altro nel bando una sorta di esatta fotografia della fisionomia scientifica che si vuole acquisire. Ma sul posto bandito, nella mia opinione, deve ancora pronunciarsi nella fase transitoria una vera commissione nazionale, possibilmente con innesti internazionali.

La lista aperta dello schema Gelmini (in realtà, una vecchia idea dell’attuale opposizione) lascia intatto il problema degli idonei e della loro collocazione. Il progetto di legge sembra affrontarlo in un modo singolare: l’abilitazione nazionale è basata sulla “valutazione dei titoli e delle pubblicazioni, alla luce di parametri stabiliti per ogni ruolo e area da apposito decreto del ministero.” L’ultima stesura attenua un po’, riferendosi più genericamente a “criteri predeterminati con decreto di natura non regolamentare del Ministro, sentiti il CUN e l’ANVUR”. Si spera forse che la severità dei criteri sia in grado di contenere il numero degli abilitati? Comunque sia, hanno senso criteri del ministro per consentire la partecipazione a concorsi o per stabilire le condizioni per l’abilitazione? No! E la sola idea della lenta e faticosa contrattazione che accompagnerà fatalmente la stesura dei decreti è desolante.

C’è infine un aspetto alquanto curioso. Il progetto di legge prevede che l’abilitazione sia “titolo legittimante la partecipazione ai concorsi per l’accesso alla dirigenza pubblica”. E’ difficile pensare che una tale previsione si unisca di fatto a criteri del ministro molto stringenti.

In definitiva, nulla di nuovo sotto il sole, direi.

I settori scientifico-disciplinari. Il progetto di legge si prefigge di sfoltire l’attuale ramificazione dei settori scientifico-disciplinari, imponendo che ciascun settore comprenda almeno 50 professori ordinari o straordinari. Il vero nodo non è ristrutturare i settori, ma annullare il presidio che i settori esercitano sulle strutture universitarie (sui percorsi didattici, sulla selezione della docenza), il che è quanto dire annullare la base della struttura per corporazioni del nostro tessuto universitario.

Non è difficile supporre che la previsione delle reazioni delle potenti lobby che occupano l’università abbiano condotto il ministro, così come gli estensori del progetto PD, a porre l’obiettivo più limitato di una “rideterminazione” dei settori. Ma, scelta la strada della rideterminazione, quale sarà l’approdo finale a seguito di tutte le pressioni e le contrattazioni che si svilupperanno su questo punto del progetto di legge?

Insomma, anche su questo nodo cruciale della vita universitaria non si profila una vera svolta.

I ricercatori. Il progetto accantona definitivamente la messa a esaurimento del ruolo di ricercatore e la sostituzione di tale ruolo con contratti temporanei di ingresso, provvedimenti entrambi contenuti nella legge Moratti del 2005. Quali che siano i motivi di questa scelta, di fatto si continua a non cogliere l’esigenza di un rilancio e di una velocizzazione della carriera universitaria. Oggi la competitività della carriera universitaria italiana è forse al suo minimo storico, ed è molto difficile pensare a una svolta su questo terreno senza un disegno più efficiente della fase di ingresso.

Pur nel riconoscimento di alcuni elementi positivi, il mio giudizio complessivo sul progetto è negativo. Non ne condivido l’impostazione, fondata al contempo su regole rigide (e tantissime) e sulle concessioni (all’opposizione, alle lobby, ai rettori, agli attuali ricercatori, etc). L’agenda del che fare dovrebbe essere ispirata da un filosofia molto diversa e dovrebbe avere contenuti molto diversi. Nuove regole dovrebbero porsi il solo obiettivo di creare buone condizioni di contesto e le scelte dei campi di intervento dovrebbero essere analogamente mirate a creare migliori condizioni di contesto e sollecitare usi virtuosi dell’autonomia universitaria. Valutazione della ricerca e finanziamenti, valore legale dei titoli di studio, la struttura per corporazioni dell’università sono i campi strategici su cui occorrerebbe intervenire. Il nuovo governo non ha ancora fatto nulla di concreto in questi ambiti. Certo la concreta ingegneria di interventi nella direzione di un legame significativo tra finanziamenti e valutazione, della abolizione del valore legale dei titoli, del superamento della struttura per corporazioni non è affatto semplice, ma questi sono gli ambiti di intervento più promettenti per imprimere una svolta al sistema e su questi occorrerebbe, in via prioritaria, impegnarsi.

Qualche quesito e qualche parola conclusiva sul tempo perso e sulla rilevanza degli ambiti indicati. La valutazione: perché, nelle more della definizione di una agenzia di valutazione, non si prosegue l’esercizio CIVR, fermo al triennio 2001-03? Quante risorse lo stato progetta di dedicare alla valutazione, a quali modalità di attuazione si sta pensando, e come garantire che i fondi di premialità si distribuiscano alle unità che ne hanno effettivamente determinato l’ottenimento?

Il valore legale dei titoli di studio è un privilegio privo di giustificazioni, una formale equiparazione di laureati che consente come unico elemento distintivo il voto di laurea. Sono convinta che l’abolizione darebbe una scossa straordinaria a tutti gli attori della scena universitaria. Ma vale anche sottolineare l’assurdità in punto di principio di un tale privilegio. Perché non vi fosse privilegio nel valore legale occorrerebbe che le competenze dei laureati e i voti di laurea fossero riconducibili esclusivamente alle caratteristiche personali dei laureati, e in nessuna misura alla bontà dello specifico corso di studio seguito né agli standard di valutazione in esso adottati. Esiste qualcuno così sciocco da ritenere realistico un tale scenario?

Infine, come superare la struttura per corporazioni? Quali azioni scegliere per neutralizzare le corporazioni o spegnerne la forza? E’ un problema enorme, tanto enorme che mi fermo qui, non prima però di manifestare qualche dubbio sulla capacità o volontà del variegato contesto ministeriale di affrontare il punto.

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Commenti

Ci sono 21 commenti

 

Inoltre, limitare a due il numero dei mandati rettorali (incidentalmente, otto anni di governo non son pochi) potrebbe favorire molto poco una fisiologica alternanza nella governance.

Peraltro già ora può accadere che, ove fosse statutariamente prevista, si riveli inefficace la limitazione dei mandati rettorali a due, per complessivi otto anni.

Pare sia sufficiente modificare lo statuto, che saggiamente limitava a due i mandati rettorali (e “otto anni di governo non son pochi”), introducendo una postilla ad personam per prorogare il secondo mandato rettorale a chi eventualmente (quante volte sarà ricorsa o ricorrerà tale eventualità?) ricopra altra carica istituzionale (per esempio la presidenza della crui) il cui mantenimento esiga la contemporanea conduzione di un mandato rettorale.

Pare sia sufficiente orchestrare sapientemente una campagna propagandistica che spacci come necessariamente e inderogabilmente funzionale alla salvaguardia dell’ateneo interessato, del sistema accademico italiano nel suo complesso e del diritto allo studio (acciderbolina!) l’attribuzione di poteri straordinari (e assolutamente ingiustificabili, secondo la mia povera opinione) a un “singolo d’eccezione”; quando il buon senso, quello stesso che aveva ispirato la norma statutaria della limitazione, suggerirebbe che  non si possa caricare sulle spalle di un solo mortale il gravoso fardello della salvazione dell’intero sistema universitario italiano (mi riferisco alle pompose dichiarazioni del beneficiario stesso del provvedimento, oltre che dei suoi accoliti).

Non di novelli padri della patria ed eroi ha bisogno l’Italia, ma piuttosto di un risanamento radicale.

Una legge ad personam stimola una polemica particolare; sono comunque, secondo me, entrambe, sintomatiche di un quadro generale e di una mentalità diffusa e radicata.

Considerazione generale: chi si vota alla conservazione del potere è portato a conculcare i principi.

 

 

Il progetto di legge prevede che l’abilitazione sia “titolo legittimante la partecipazione ai concorsi per l’accesso alla dirigenza pubblica”. E’ difficile pensare che una tale previsione si unisca di fatto a criteri del ministro molto stringenti.

 

All’evidenziazione, che accompagna l’enunciazione dell’aberrante e distorcente legittimazione di un’abilitazione scientifica accademica ai fini della partecipazione ad un concorso per l’accesso ad un ruolo dirigenziale pubblico non accademico, della perniciosità degli effetti sull’università, si potrebbe aggiungere la considerazione della iniquità intrinseca di tale legittimazione, nonché della potenziale perniciosità  dei suoi effetti sulla dirigenza pubblica.

Posto che gli idonei all’esercizio della professione di avvocato o di medico o di ingegnere ecc non possono far valere la loro abilitazione laddove essa non sia espressamente e motivatamente richiesta (ha pregio esclusivamente se si tratta di un ruolo da avvocato, da medico, da ingegnere), sfugge per quale motivo l’abilitazione ad un ruolo universitario debba poter essere fatta valere altrove. Perché? Nell’interesse di chi? Naturalmente sono interrogative retoriche.

Forse se l’università si occupasse meno del collocamento coatto dei propri figli (e se fosse una madre troppo prolifica?) al proprio interno e all’esterno di sé, e della conservazione dei propri privilegi, cioè se brigasse meno, la società tutta ne trarrebbe giovamento.

E poi 'sti accademici  possono piantarla di ragionare come se i non accademici fossero aspiranti accademici mancati. Si possono mettere nella testa una buona volta che quello che è il centro del loro universo potrebbe non figurare, neppure in posizione marginale, nell'universo di qualcun altro. Magari mettendo il naso fuori dalla eburnea turris verificherebbero la fallacia della loro convinzione (ispirante disposizioni tentacolari che non stanno né in cielo né in terra), secondo la quale il meglio sta nelle università, e fuori non è che fuffa.

@redazione

la home page è quasi completamente scomparsa in internet explorer 8;  mentre è perfettamente visibile in google chrome 

 

 

 

 

la home page è quasi completamente scomparsa in internet explorer 8;  mentre è perfettamente visibile in google chrome 

Grazie, sistemato. Non ce ne eravamo accorti xché non usiamo IE. 

 

 

All’evidenziazione, che accompagna l’enunciazione dell’aberrante e distorcente legittimazione di un’abilitazione scientifica accademica ai fini della partecipazione ad un concorso per l’accesso ad un ruolo dirigenziale pubblico non accademico, della perniciosità degli effetti sull’università, si potrebbe aggiungere la considerazione della iniquità intrinseca di tale legittimazione, nonché della potenziale perniciosità  dei suoi effetti sulla dirigenza pubblica.

 

Al senato italiano siedono 35 docenti universitari http://www.senato.it/leg/16/BGT/Schede/Statistiche/Composizione/SenatoriPerProfessione.html, mentre alla camera solo 39 docenti universitari http://www.camera.it/docesta/307/21149/documentotesto.asp?tiposezione=C&sezione=1&tabella=C.1.4#inizio. Una media del 7,8% ca su 945 parlamentari. Un termine di paragone potrebbe essere il Senato+Congresso USA, dove i docenti universitari sono pari a 0 (zero) su circa 535 tra senatori e congressmen http://assets.opencrs.com/rpts/R40086_20081231.pdf. Per la cronaca negli USA siedono solo 23 con phd,  molti avvocati e una sparuta rappresentanza di medici.

 

 

  • Il progetto disegna un modello di governance che, senza contrappesi, accentra sul rettore un potere straordinario e affida al Consiglio di amministrazione, accanto alla “approvazione della programmazione finanziaria”, la “programmazione strategica dell’ateneo”.

 L'accentramento sul rettore di un eccessivo potere esiste già nella attuale situazione che vede gli altri organi di governo (CdA, Senato)  deboli in quanto portatori di interessi frammentati ed i cui componenti si trovano in conflitto di interessi. Tutti costoro sono facilmente piegabili ai voleri del rettore. La strada scelta nel DDL è sbagliata quando pensa di affidare la programmazione strategica al CdA; è sbagliata quando disegna un ruolo evanescente per il Senato, ma è corretta quando vuole introdurre dei "laici" nel CdA.  E' la strada che hanno preso diversi paesi europei, incluso il Regno Unito, con l'eccezione di Cambridge ed Oxford, ed è la situazione abituale nelle università USA, incluse le "statali". Infine, si può concordare sulla difficoltà di ideare un metodo accettabile per designare i componenti "laici" del CdA, visto il prestigio (si fa per dire) di cui gode la nostra classe politica: ma che cosa propone l'autrice dell'articolo sulla "governance"? Non sarebbe male, anche da parte di anxia, che tanto scrive, fare qualche proposta costruttiva.   

 

Non sarebbe male, anche da parte di anxia, che tanto scrive, fare qualche proposta costruttiva.   

 

Mi sembra di aver già espresso le mie opinioni. Spero di non aver urtato la sensibilità di nessuno: non era mia intenzione, ma, se è così, mi dispiace (ma mi dispiace di più l’urto che ho subito io, poverella).“Il progetto disegna un modello di governance che, senza contrappesi, accentra sul rettore un potere straordinario”. Si preannuncia un re sole? un autocrate? Il ruolo del rettore è già straordinario (nel caso che ho ricordato sopra addirittura reso stra-stra-ordinario da una modifica statutaria mirata) e dovrebbe essere ridimensionato.  Il resto (sulla gestione disinvolta, come se fossero risorse personali, delle risorse pubbliche - e non mi riferisco certo soltanto a quelle finanziarie -, di cui il ruolo permette sì di disporre, ma per fini istituzionali) mi rimanga nella strozza (non credo sia il caso).

 

L’accesso ai ruoli pubblici in Italia dovrebbe avvenire per concorso (requisiti di accesso minimi e per tutti prove e valutazioni oggettive  e  trasparenti): questa modalità di reclutamento riduce i rischi di familismo-nepotismo-clientelismo-servilismo e induce l'aspirante a coltivare la propria professionalità, non un potenziale benefattore.

Ma nelle università (soltanto nelle università) si dovrebbe adottare, anche a livello normativo, la chiamata diretta; insomma, secondo me, sarebbe salutare portare alla luce del sole il sistema di fatto vigente (non vi sfugge nessuno, neppure chi si meriterebbe di vincere un concorso regolare: questo è il dramma).

 

Ma soprattutto l’università si occupi di formare, selezionare  e impiegare il suo personale e si astenga dalla pretesa  di piazzare altrove i suoi esuberi. È a dir poco inammissibile che si proponga di tracciare corsie preferenziali che approdano a ruoli dirigenziali pubblici per chi ha conseguito un’abilitazione accademica. Questo non giova né all’università né alla pa di destinazione.  Sia chiaro che non contesto affatto il riciclo degli accademici al di fuori delle università, purché sia onesto.  Contesto con vigore, invece, che lo si imponga in modo parassitario a spese di qualcun altro: le pa non sono lo sfiatatoio delle università.

 

 

 

Ma nelle università (soltanto nelle università) si dovrebbe adottare, anche a livello normativo, la chiamata diretta; insomma, secondo me, sarebbe salutare portare alla luce del sole il sistema di fatto vigente (non vi sfugge nessuno, neppure chi si meriterebbe di vincere un concorso regolare: questo è il dramma).

Si diceva qualche tempo fa: se c'è un po' troppo inquinamento, basta alzare i limiti di legge, così l'inquinamento è sparito.

RR

 Ho chiamato in causa anxia con l'intento di evidenziare quante poche sono le proposte sulla cosidetta "governance". Se sono stato un po' rude, me ne scuso. Nel merito, ritengo che proprio il governo delle università - governo spesso conquistato da oligarchie che fanno il bello ed il cattivo tempo - vada messo sotto la lente, perchè al sistema sbagliato si possono fare risalire gli episodi di malcostume che fanno grande presa sull'opinione pubblica. Il rettore, al quale l'autonomia dà poteri ben maggiori di quelli posseduti in precedenza, non ha organi collegiali con i quali possa avere un vero confronto: CdA e Senato sono formati da docenti eletti all'interno di un sistema nel quale tutti rispondono ai propri elettori. Si costituisce un mondo  nel quale  non ci si rapporta o ci si confronta con l'esterno, ma la gestione può ridursi ad una mediazione tra interessi dei vari gruppi di docenti. Ed è a questo punto comprensibile come possano verificarsi episodi di malcostume o di cattiva gestione amministrativa. Se questa analisi è corretta, è necessario intervenire rafforzando gli organi collegiali e dando un legame con il mondo esterno alla gestione amministrativa. Naturalmente, le modifiche alla governance non avrebbero influenza su tutti gli aspetti della crisi universitaria, ma sicuramente su alcune, ad esempio, il reclutamento.

A me sembra che il maggiore difetto nella "governance" delle università italiane sia la mancanza di una "governance" governativa. Ad esempio a quale popolazione di potenziali studenti deve rivolgersi l'università? Al 50% dei diciannovenni, cioè seguendo la domanda apparente? O è invece opportuno spostare parte della domanda su un sistema "parauniversitario" (che dovrebbe partire da un prolungamento degli istituti tecnici)? Se dobbiamo, come è ormai forse ienvitabile, mantenere un unico sistema di istruzione universitaria, come diversificare l'istruzione impartita ad un corpo studentesco estremamente disomogeneo per preparazione, aspettative, e disponibilità allo studio? Quale è il ruolo della laurea triennale? dovrebbe essere l'unica laurea conseguita dai 3/4 dei laureati (come è ad esempio in GB) o semplicemente una tappa per una laurea quinquennale conseguita da quasi tutti i laureati tirennali? Nel primo caso è coerente la previsione di una laurea quinquennale per i maestri elementari e di una formazione universitaria di almeno sei anni per i professori della scuola media? E' coerente la previsione dell'inaccessibilità degli ordini professionali "senior" a chi non ha una laurea quinquennale? Inoltre, come è possibile "governare" l'università attraverso i finanziamenti, senza un raccordo permanente con il ministro dell'economia? (In GB c'è un organismo, in realtà uno per ogni macroregione, che si chiama Higher Education Funding Council che interagisce con il governo eseguendone le decisioni politiche attraverso una modulazione dei finanziamenti). Come spiegare (e risolvere) la crisi finanziaria degli atene? Chiedendo a gran voce la riduzione dei corsi di laurea, anche quelli che non costano nulla? Oppure analizzando le spese in modo, ad esempio, da separare le spese ed i finanziamenti per l'assistenza sanitaria da quelle per istruzione e ricerca? Il fatto è che da molti anni io non credo alla possibilità di "svolte". Penso che sia meglio cercare di attuare una politica di piccoli passi reversibili.   

I ricercatori. Il progetto accantona definitivamente la messa a esaurimento del ruolo di ricercatore e la sostituzione di tale ruolo con contratti temporanei di ingresso, provvedimenti entrambi contenuti nella legge Moratti del 2005. Quali che siano i motivi di questa scelta, di fatto si continua a non cogliere l’esigenza di un rilancio e di una velocizzazione della carriera universitaria. Oggi la competitività della carriera universitaria italiana è forse al suo minimo storico, ed è molto difficile pensare a una svolta su questo terreno senza un disegno più efficiente della fase di ingresso.

Non so a quale bozza si riferisca questo commento; pare invece che la prevista messa ad esaurimento del ruolo di ricercatore (a tempo indeterminato), mantenendo in futuro solo quelli a tempo determinato, non sia toccata dal ddl - come si evince anche dal commento del cartello sindacale CNU (datato 10 giugno, quindi recente). Tale commento, però, dà una valutazione opposta circa la "velocizzazione" che seguirebbe da tale messa in esaurimento.

Piaccia o non piaccia, è all'inizio di carriera che vi è la più grande difformità nella situazione italiana rispetto a quella internazionale, e quindi è lì che bisognerebbe - in un'ottica di medio-lungo termine, e oserei dire super-partes - spostare risorse, che a questo punto si dovrebbero senza dubbio reperire da un'anticipazione dell'età di pensionamento media, che invece in Italia è insopportabilmente alta, e fonte di spese cospicue per il sistema, giusta la rigida progressione per anzianità nella scala stipendiale. Invece il rigido contingentamento nel turn-over provocherà il ritardo nella presa di servizio di molti vincitori dei concorsi da ricercatore che si svolgeranno nel prossimo futuro, una ulteriore fuga di cervelli, e il mantenimento di forme di precariato che per quantità e qualità rimarranno un macigno e una fonte di problemi per il sistema.

RR

 

 

Piaccia o non piaccia, è all'inizio di carriera che vi è la più grande difformità nella situazione italiana rispetto a quella internazionale, e quindi è lì che bisognerebbe - in un'ottica di medio-lungo termine, e oserei dire super-partes - spostare risorse, che a questo punto si dovrebbero senza dubbio reperire da un'anticipazione dell'età di pensionamento media, che invece in Italia è insopportabilmente alta, e fonte di spese cospicue per il sistema, giusta la rigida progressione per anzianità nella scala stipendiale.

 

Due delle principali anomalie del sistema italiano sono:

  • progressione salariale per anzianita' di entita' significativamente superiore
  • maggiore divaricazione tra compensi di ordinari, associati, ricercatori

Queste anomalie si potrebbero correggere perfino a costo zero, riducendo la progressione di anzianita' all'interno di ogni ruolo, e riducendo la divaricazione di compensi tra ruoli diversi. Tutto cio' potrebbe essere realizzato senza penalizzare il compenso totale per una carriere "media", e quindi senza penalizzazione media del settore universitario.

Riguardo i prepensionamenti, va sottolineato che sono in qualche misura giustificabili oggi solo per l'abnormita' del sistema italiano, che paga docenti al massimo dell'anzianita' stipendiale senza alcun controllo o valutazione realistica del loro contributo al sistema universitario.  La soluzione piu' corretta dal punto di vista economico dovrebbe essere piuttosto di incentivare l'occupazione anche ad eta' avanzate, specie nel sistema universitario, di tutte le forze produttive, pero' valutate e pagate proporzionalmente al loro reale contributo.  Uno dei motivi dei miseri risultati economici italiani dipende proprio dalla combinazione tra aumenti di salario con l'anzianita' e conseguenti prepensionamenti per eliminare i lavoratori che sono pagati, rispetto ai giovani, meno di quanto producono. Si tratta di un sistema demenziale consono alla stupidita' diffusa nelle classi dirigenti italiane, la cui soluzione generale non consiste in maggiori prepensionamenti.

C´ e´ la velocizzazione formale e quella sostanziale. Se si volesse velocizzare la istruzione secondaria in Italia si potrebbe, ad esempio, abolire la prima media, facendo passare gli alunni dalla quinta elementare alla seconda media. Bisognerebbe pero´prevedere che il primo anno della riforma ci sarebbero il doppio di alunni che si iscrivono alla seconda media. Sarebbero pertanto necessari il doppio delle insegnanti e delle aule. Analogamente abolendo il ruolo dei ricrercatori (cioe´sopprimendo un passo della carriera nel quale si staziona almeno tre anni), bisognerebbe prevedere un corrispondente incremento dei concorsi di associato per far fronte alle domande dei ricercatori e dei post-doc in attesa di entrare nei ruoli. Questo consistente aumento delle posizioni di associato offerte, per quanto auspicabile, non e´possibile nell´ attuale clima politico e nella attuale situazione finanziaria. Percio´hanno ragione i sindacalisti, la sperata velocizzazione si ridurrebbe ad una effettivo ritardo nell´entrata in posizioni autonome dei (non piu´) giovani post-doc.

Il valore legale dei titoli di studio è un privilegio privo di giustificazioni, una formale equiparazione di laureati che consente come unico elemento distintivo il voto di laurea. Sono convinta che l’abolizione darebbe una scossa straordinaria a tutti gli attori della scena universitaria. Ma vale anche sottolineare l’assurdità in punto di principio di un tale privilegio. Perché non vi fosse privilegio nel valore legale occorrerebbe che le competenze dei laureati e i voti di laurea fossero riconducibili esclusivamente alle caratteristiche personali dei laureati, e in nessuna misura alla bontà dello specifico corso di studio seguito né agli standard di valutazione in esso adottati. Esiste qualcuno così sciocco da ritenere realistico un tale scenario?

Ancora con questa ideologia?

Onde evitare di ripetere cose già dette, mi perito solo di ricordare l'ottimo pezzo di Andrea Moro su questo blog, un articolo più ampio degli amministrativisti Civitarese-Matteucci e Gardini tratto dall'intervento ad un Convegno dell'AGCM in marzo (e una versione breve e popular sul blog nelMerito), oltre ovviamente al fondamentale articolo di Sabino Cassese del 2002.

Per parte mia, se mi è lecito richiamarlo, ho condensato il mio pensiero sull'argomento in questa Nota resa pubblica dal Forum IRPA sull'Università.

I titoli di studio sono certificati personali, che attestano - da parte di un'autorità scolastica - il possesso di conoscenze e competenze apprese con riferimento ad un certo corso. Chi pensa che siano come bigliettoni di banca fa lo stesso errore di Einaudi.

RR

Poiché sono un fautore della "fuga" dei cervelli dei giovani e giovanissimi, credo che bisogna intervenire per rendere possibile il ritorno dei cervelli e, ancor più, rendere possibile il reclutamento di cervelli non nati in Italia. Per questo è necessario alzare gli stipendi iniziali delle posizioni di prima fascia (forse anche di seconda), ad esempio sopprimendo le prime cinque classi stipendiali (fare entrare tutti come se avessero 10 anni di anzianità, e abolire la ricostruzione della carriera). Questo potrebbe avvenire con poca spesa perché chi è già nel sistema normalmente passa alla prima fascia con una dote di 8 anni di anzianità riconosciuta (un riconoscimento che sarebbe invece abolito). Comunque per far fronte alla spesa basterebbe abolire le ultime (due, tre, quanto basta) classi stipendiali della prima fascia ed i successivi "scatti biennali". Questo incentiverebbe alcuni ad andare in pensione, e sarebbe ininfuente sulla attrattività della posizione di professore ordinario per i giovani (che sono quelli che vorremmo relcutare sul mercato internazionale). A cosa serve comunque, aumentare gli stipendi dei nonni ultrasessantenni e ultrasessantacinquenni? L'idea di alzare solo gli stipendi dei nonni più produttivi è ridicola. Qualsiasi professore sufficientemente anziano è in grado di firmare lavori scientifici scritti e pensati da giovani che da lui direttamente o indirettamente dipendono. Questa comunque nelle scienze biomediche è una prassi comune in ambito internazionale (cioè negli SU). Provvedimenti come quelli che propongo ridurrebbero notevolemente la dipendenza della carriera dall'anzianità, renderebbero le posizioni di prima fascia più competitive, e darebbero luogo a prepensionamenti meno traumatici di quelli che ci stanno imponendo ora. Ecco un esempio dei piccoli passi che prediligo.

"L'idea di alzare solo gli stipendi dei nonni più produttivi è ridicola. Qualsiasi professore sufficientemente anziano è in grado di firmare lavori scientifici scritti e pensati da giovani che da lui direttamente o indirettamente dipendono."

Demenziale? Ammesso che riuscissimo a definire correttamente cosa significhi "piu' produttivo", il professore anziano i ricercatori giovani e pieni di idee da sfruttare li deve sciegliere, formare e mettere nelle condizioni di lavorare al massimo delle loro potenzialita' . A me sembrerebbe gia' un notevole passo avanti. Anzi, a ben vedere e' proprio quello che mi aspetterei facesse un professore anziano.

 

Sono anch'io piuttosto scettico sulla praticabilità di vasti ed ambiziosi progetti di riforma. Il sistema è troppo radicato, le resistenze molteplici e gli interessi in gioco multiformi. Nessuna delle parti in causa, vivacchiando più o meno bene nel sistema attuale, sarebbe disposta ad accettare un salto nel vuoto di una riforma veramente riformatrice. Questo perché quando si cambiano le regole del gioco l'unica cosa che si sa è che il gioco cambia ma è difficile prevedere se quello nuovo ci piacerà più o meno del precedente.

Una politica dei piccoli passi, se ben organizzata (i.e. se i piccoli passi vanno tutti, più o meno, nella stessa direzione), potrebbe invece sortire risultati insperati. Provo a lanciarmi su un esempio.

Uno dei problemi più grossi (il problema più grosso?) del nostro sistema riguarda i metodi di reclutamento. Nel corso degli anni sono state sperimentate molte procedure alternative: con bandi locali/nazionali, con commissari nominati/eletti/estratti a sorte in tutte le combinazioni possibili, con idonei in numero pari/maggiore/doppio/triplo al numero di posti banditi, e così via. Il risultato è sempre stato lo stesso: si organizzano le cordate e si cerca di far vincere i propri candidati. A volte vincono i migliori e a volte no in proporzioni che, secondo la mia esperienza, variano molto da un settore disciplinare all'altro e da ateneo ad ateneo.

Una possibile via di uscita, che spesso viene discussa, è legata all'idea di legare il flusso di fondi che giungono agli atenei alla qualità della ricerca e quindi alla qualità del personale ricercatore reclutato. Questa strada può essere battuta a condizione che: i) esista un metodo consolidato ed accettato di valutazione della ricerca cui far riferimento, ii) vi siano consistenti disponibilità finanziarie da utilizzare per finanziare i virtuosi oltre la mera soglia di sussustenza. Allo stato attuale, nessuna delle due condizioni è soddisfatta. La seconda dubito che possa esserlo in un prossimo futuro.

Una strada più rozza, ma anche più semplice, con l'ulteriore vantaggio di spostare il controllo dalla situazione generata ex post allo stato ex ante ed anche di non aver bisogno di copiosi stanziamenti di denaro per essere attuabile potrebbe seguire la seguente logica. 1) Si valuta il corpo docente, 2) si lega, pro quota, la valutazione del docente a quella di altri soggetti dichiarati idonei in concorsi in cui il docente in oggetto sia stato commissario 3) si formano le commissioni giudicatrici estraendo a sorte con probabilità legata alla bontà della valutazione ottenuta (e magari tagliando la coda sinistra). Tutto questo potrebbe essere fatto, come proposto altrove, in un concorso nazionale in cui si stabilisce l'elenco degli idonei dal quale i singoli atenei potranno attingere per chiamata diretta. I risultati sperati sarebbero: a) di ricondurre la responsabilità del reclutamento principalmente nelle mani di soggetti che facciano in prima persona ricerca (o nel caso di "firmatori di lavori altrui" sappiano almeno organizzare un gruppo che faccia ricerca); b) di creare un effetto di retroazione facendo ripercuotere scelte infelici sulla probabilità che il soggetto che le ha compiute sia chiamato in futuro a compierle di nuovo. Aggiungo anche che la valutazione dei docenti potrebbe essere condotta, almeno all'inizio, con criteri semplici e immediatamente praticabili: ad esempio per gli economisti (e per molti altri settori disciplinari) si potrebbe andare a vedere il numero di pubblicazioni su riviste ISI nell'ultimo triennio (magari pesate con fattore d'impatto). Questi dati sono già presenti nella base dati del ministero.

Resta un ultimo dubbio. Un meccanismo di questo genere avrebbe qualche vaga possibilità di essere accettato dalla maggioranza dell'accademia?

 

Il reclutamento. Il progetto prevede una abilitazione scientifica nazionale a lista aperta. La effettiva immissione in ruolo nelle singole sedi è effettuata poi o attraverso una valutazione comparativa o attraverso una chiamata diretta di persone, provviste della necessaria abilitazione, già in forza nell’ateneo.

Io sono molto critica nei confronti di questo schema. [...]

Si spera forse che la severità dei criteri sia in grado di contenere il numero degli abilitati? Comunque sia, hanno senso criteri del ministro per consentire la partecipazione a concorsi o per stabilire le condizioni per l’abilitazione? No! E la sola idea della lenta e faticosa contrattazione che accompagnerà fatalmente la stesura dei decreti è desolante.

 

Non è chiaro il senso della critica: si tratta di un "banale" schema di certificazione per l'abilitazione professionale alla docenza. Niente di lunare, ma molto di terrestre. Certo, nei Paesi protestanti lo schema non viene applicato alla docenza universitaria (sebbene lo sia in molte professioni, in maniera non dissimile dalla nostra tradizione).

Ovvio che i criteri vanno definiti dalla comunità accademica stessa; penso che laddove fosse funzionante e ben riconosciuto "come autorità" un organismo nazionale di valutazione accademica, non ci sarebbero remore di principio. In parte, frammenti di queste caratteristiche sono tuttora presenti e financo svolti dal CUN, che in prima applicazione può giocare il ruolo richiesto (esattamente come avviene in Francia) finchè non sarà matura l'Agenzia (come avviene in Spagna).

RR