Devozioni senza Speranza

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Con il suo nuovo libro, il Senatore MarcelloPera si dimostra incapace di rispettare l’esortazione di Pietro (1Pt 3,14-17: “Pronti sempre a rendere ragione della speranza che è in voi”) e ci lascia con più dubbi che speranze. Indifferenti al Mistero ci travagliamo piuttosto dinnanzi a un più profano mistero: come possono argomentazioni così deboli passare nei giornali e nelle case editrici senza provocare un'alzata di scudi?

L’ultima fatica del Senatore Marcello Pera (d’ora in poi M.P.) riguarda, ancora una volta viene da dire, la questione assai dibattuta del ruolo che la religione, nello specifico quella cristiana e cattolica, dovrebbe avere nella sfera pubblica per motivare e sostenere l’esistenza di uno spazio pubblico, politico, nel quale i cittadini possano unanimemente riconoscersi. Secondo M.P. il cristianesimo potrebbe assolvere a una precisa funzione di generazione dei valori morali non solo nello spazio ridotto delle singole nazioni, ma addirittura nell’intera Europa.

La tesi di Pera può essere sintetizzata come segue. Diagnosi: L’Europa, e tutti i singoli stati nazione che appartengono all’Unione Europa, vivono una scristianizzazione che induce a) una perdita di valori morali nei singoli e nelle collettività politiche; b) lascia gli stati dell’Unione Europea privi di un collante capace di dare un’anima alla già raggiunta unificazione monetaria e burocratica. Terapia: bisognerebbe riconoscere che il liberalismo, già parzialmente assurto a ideologia di fondo dell’Unione Europea,è intimamente legato al Cristianesimo, sia dal punto di visto storico sia dal punto di vista teorico. Senza questo riconoscimento previo, l’Europa è destinata a rimanere senza radici, perché priva dell’afflato vivificatrice del Cristianesimo, e lo stesso liberalismo sarebbe condannato ad un triste solipsimo edonistico, divenendo la copertura ideologica al consumismo e al capitalismo “senza regole”.

PARSDESTRUENS

Lo spettro delle possibili obiezioni a questa tesi è assai ampio, ne prenderò in esame solo alcune.

Obiezione empirica. Sostenere che il Liberalismo, privato della sua radice religiosa, è destinato a scomparire è empiricamente falso. Poniamo pure che il liberalismo sia effettivamente preda di una scristianizzazione in atto, o anche pienamente compiuta: forse che esso è scomparso come ideologia politica o economica? Io direi di no, almeno a giudicare dalle pubblicazioni accademiche sul liberalismo politico o dalle discussioni, accademiche e non solo, in merito a come meglio interpretare e implementare quei principi di libertà economica che si esercitano nei mercati. Dunque, il liberalismo come ideologia politica o filosofica, e come prescrizione di politica economica, continua ad esistere, seppure i suoi presupposti cristiani siano, secondo M.P., caduti in oblio.Secondo questa prima obiezione, dunque, il Senatore farebbe bene a circoscrivere con più precisione i termini della discussione, precisando che ciò che lui discute non sono il liberalismo e il cristianesimo in quanto tali, ma la sua personale descrizione di cosa cristianesimo e liberalismo dovrebbero essere, da soli o in combinazione. Quanto appena detto è banale, del resto tutti quando parlano, parlano di quanto interessa loro; però in questa luce, le parole di M.P. perdono l’ineluttabilità della diagnosi irreversibile e si presentano nella luce più fioca di una auspicio idiosincratico.

Obiezione anti-storicistica. Con ironia si dice che i filosofi corrano rischi professionali di particolare natura: certo, si salvano dal cadere da ponteggi non in sicurezza, ma corrono il rischio di confondere ciò che pensano con ciò che accade. Mettiamo in sicurezza M.P. Assumiamo ancora una volta la bontà della sua tesi storico-filosofica, ovvero che vi sia una filiazione diretta tra il Cristianesimo e il Liberalismo, e che dunque l’ultimo non sia che un fenomeno interamente derivato dal primo, secondo linee di sviluppo culturale, ideologico e addirittura teologiche, perfettamente trasparenti e accessibili a tutti gli studiosi di storia della filosofia politica. In realtà, tale consenso interpretativo è assente tra gli studiosi che si occupano di tali questioni, ma assumiamo pure che tale consenso esista.

Ebbene, come potremmo ricavare, da questo fatto, l’obbligo per il liberalismo (in realtà qui l’obbligo sarebbe tipicamente ascrivibile a quanti si professano liberali, mi si passi comunque quest’uso metonimico dei termini) di stare entro la tradizione culturale cristiana, che secondo M.P, avrebbe generato il liberalismo medesimo? In punto di fatto, se è vera la diagnosi di M.P., non sussiste una costrizione de facto per i liberali a stare dentro quella tradizione, perché appunto il liberalismo (si) sarebbe già scristianizzato. Dunque la sua più che una diagnosi è ancora una volta una partecipata invocazione a che le sue personali preferenze, un liberalismo religioso, si realizzino per il maggior numero di persone. Inoltre, è assai ironico che colui che non manca di ricordare, giustamente con orgoglio, i suoi legami intellettuali con il filosofo Karl Popper, si produca poi in forme di storicismo così scoperte: è stato proprio Popper a criticare le miserie dello storicismo.

Ma dove starebbe lo storicismo di M.P.? Esso risiederebbe nell’idea, che lui dovrebbe giudicare erronea, di poter stabilire nella Storia gradi di sviluppo prevedibili a partire da una ricostruzione filosofica del passato, e di poter ricavare da tali ricostruzioni filosoficamente generali principi di condotta per il futuro. Poniamo dunque che la sua ricostruzione storica e filosofica sia corretta, in che senso potremmo dire che è la rilettura di certi filosofi o teologi, o il semplice di studio del momento generativo di un’ideologia, a poter essere sufficiente per giustificare l’accettazione di quanto sostenuto da certi autori o l’accettazione in toto della base dottrinaria da cui si presume sia derivato il liberalismo? Se anche fosse vero che il liberalismo è derivato dal Cristianesimo, potremmo comunque, al giorno d’oggi, reputare che quel legame debba andare superato. Mi pare che qui M.P. ricada ancora in un rischio professionale tipico della pratica filosofica: presentare i propri argomenti ricavando l’autorevolezza di questi a partire dallo svolgimento storico-filosofico di idee che guarda caso mettono capo proprio alle tesi che interessano l’autore. In genere, tali stratagemmi argomentativi sono sempre sospetti, perché si rischia di forzare i classici del pensiero a sposare tesi che forse quelli non avrebbero sottoscritto; in questi casi è fondamentale dunque che l’attribuzione di certe tesi ad autori defunti, come John Locke edImmanuel Kant, avvenga nella più stretta adesione alle parole di questi, in maniera filologicamente rispettosa ed argomentata. Se non lo si fa, ci si espone all’obiezione che segue.

Obiezione contro l’autorità (presunta). Usare frasi singole di autori giudicati “importanti”, al fine di sostenere tesi estranee agli autori discussi - senza neppure una discussione filologica dei testi e del tipo di coerenza che essi presuppongono rispetto a quanto sostenuto dall’autore complessivamente - è nulla più che un argomento ad auctoritatem. Infatti, laprofessione di fede di alcuni filosofi poteva forse essere strumentale a garantirsi protezione politica o a conformarsi a prescrizioni di fede della comunità di appartenenza; in quei casi esse perderebbero molto dell’alone nobile che possiedono a prima vista. Se fra 150 anni, l’ipotetica adesione al Cristianesimo di un mio lontano discendente, nel frattempo iscrittosi a Forza Italia, fosse giustificata sulla base dell’argomento che un celebre filosofo liberale di Forza Italia era anche cristiano, chi potrebbe ricavare da tale rivelazione un argomento decisivo perché un liberale debba essere necessariamente cristiano? Se noi non possiamo accertare, se non a prezzo di un poderoso lavoro filologico, le vere intenzioni retrostanti alcune frasi sul Cristianesimo pronunciate, per esempio da Kant, possiamo più ragionevolmente tralasciare gli aspetti del suo pensiero più direttamente collegati con le sue vicende personali di fede ed enfatizzare aspetti più promettenti della sua concezione morale, al punto da elaborare una concezione dell’autonomia morale molto più radicale di quanto inizialmente pensato da Kant. Un lavoro filosofico ambizioso come quello di M.P avrebbe dovuto fare almeno una delle due cose: o argomentare filologicamente a favore delle sue riletture dei classici del liberalismo o mostrare come argomentativamente esse possano essere conciliate con la ricezione e interpretazione condivisa di quegli autori. Mancando entrambe, l’uso di frasi fuori contesto può costituire l’elegante intestazione epigrafica del libro o dei capitoli, ma non una convincente argomentazione a favore delle tesi dell’autore.

L’obiezione instrumentum regni. Raramente tesi tanto ardite, ai nostri giorni, sono affermate con tanta baldanza. La baldanza risiede nel collegare in maniera esplicita la costruzione di una nuova sovranità politica, l’Unione Europea, con l’adozione di un apparato ideologico-religioso. Una simile proposta rende minacciosa la costruzione politica che su quelle fondamenta vorrebbe erigersi e impoverisce il cristianesimo, e il cattolicesimo, del loro afflato universale, collegandoli in maniera speciale a una porzione esigua del mondo, l’Europa. Il progetto politico diviene minaccioso perché potenzialmente esclusivo ed escludente di chi non si riconosca nella concezione liofilizzata di Europa di M.P.; la religione è degradata, a mio parere, perché si associa in maniera troppo scoperta ad un progetto politico, divenendo appunto instrumentum regni. Anche a questo proposito, è singolare l'entusiasmo con il quale le gerarchie vaticane plaudono ad un simile progetto: come possono tollerare che la loro fede diventi mezzo di giustificazione di un processo politico su cui non hanno un controllo diretto? Non temono di poter essere essi stessi utilizzati per fini che non sono religiosi ma politici?

PARS COSTRUENS

Nella parte precedente ho dato a intendere che alcune tesi di M.P. potessero essere accolte, seppure con beneficio d’inventario, al fine di mostrare che anche se vere esse non avrebbero potuto sottrarsi comunque a critiche esterne ad esse. Adesso intendo svolgere un’argomentazione più costruttivamente slegata dalle parole del senatore.

Una riflessione su cosa sia il liberalismo e come sia più coerente intenderlo, alla luce dei suoi presupposti teorici e della sua genesi storica, è cosa assai complessa, ma si può cercare di semplificare tale coacervo di questioni riducendolo ai suoi elementi primi, siano essi storici o teorici. A voler trovare uno sfondo teorico accettabile e informato di cosa sia il liberalismo, si può iniziare da qui, se invece si desidera una riflessione meno filosofica e più “politica” si può guardare qui.Ovviamente esistono molte forme di liberalismo: andando in ordine sparso, vi sono versioni repubblicane; deliberativiste; versioni market friendly; proposte interessate alla neutralità della sfera pubblica, ecc. Tutte però sono interessate ad argomentare a favore della libertà individuale, seppure con mezzi che possono apparire opposti (e.g. espansione o contrazione della spesa sociale). In linea di massima si può dire che il fine normativo e politico-morale al quale il liberalismo tende è la realizzazione della libertà dell’individuo.

Questo obbiettivo si realizza in una molteplicità di ambiti: nella limitazione dei poteri dello stato sia dal punto di vista politico, con la divisione dei poteri fra organi separati dello stato, sia dal punto di vista economico, con la generale promozione delle libertà di intrapesa economica; sia dal punto di vista morale con l’ascrizione agli individui di una specifica condizione di dignità. Le basi filosofiche dell’ideologia liberale sono le più varie, anche se si riconoscono degli elementi costitutivi orginari che sono: il giusnaturalismo, che dovrebbe fondare l’eguale dignità riconosciuta in capo agli individui; il contrattualismo, che pone dei vincoli di legittimazione alla fondazione e all’esercizio del potere; e il principio della libertà economica, inizialmente associata a movimenti come quelli dei fisiocrati, dai quali peraltro proviene il motto celebre del laissez-faire. Per quanto la definizione che ho proposto sopra sia assolutamente minimalista, essa coglie l’aspetto decisivo di cosa significhi essere liberale, ovvero la protezione e l’espansione della libertà degli individui. Credo che questa mossa sia necessaria per trovare un punto di appoggio che permetta di abbandonare le secche del dottrinarismo testuale che ci impelagherebbero in oscure discussioni su quale autore abbia meglio espresso il liberalismo o lo abbia incarnato in maniera più compiuta. Andiamo dunque alle implicazioni che derivano dalla mia assunzione normativa che sarà minimale, ma è nondimeno assai esigente. Quale che sia la parabola storica che si preferisce per spiegare la genesi del liberalismo, quali che siano gli autori che si privilegiano, lo sfondo assiologico dell’individualismo è chiaro e prevede che alla libertà dell’individuo spetti una priorità di diritto su pretese contrarie da chiunque avanzate e a qualunque titolo: politico, morale o economico.

Se la mia idea minimale di liberalismo è dunque condivisibile non si vede come il liberalismo potrebbe sposare una sola religione, connotata con i tratti comunitari di una tradizione estesa addirittura a tutta l’Europa, assunta inoltre come mezzo per consolidare consenso intorno ad un progetto politico europeista. Si consideri inoltre che i contenuti di quella religione siano alienati ad un potere, quello ecclesiale della Chiesa Cattolica, che presenta tutti i tratti di illimitatezza di funzioni e potere contro i quali il liberalismo si è sempre opposto. L’idea di M.P., del cristianesimo come religione civile di una comunità politica, sarebbe già di suo in contrasto con l’ideale dell’autonomia morale individuale, che subirebbe una amputazione delle sue facoltà di giudizio religioso, allo scopo di conferire stabilità a una costruzione politica. Questa ascrizione teorica è intollerabile, sotto qualunque punto di vista, perché renderebbe le coscienze degli uomini un mezzo per la realizzazione di finalità politiche eteronome.

Tale idea appare ancora più scriteriata se poi il contenuto di quella religione civile non solo è inteso in senso collettivistico e storicistico (che deve valere per tutti in quanto comunità storicamente determinata da quanto accaduto in passato) ma la precisazione dei suoi contenuti è demandata all’autorità che invoca per sé stessa un potere spirituale infallibile e non soggetto ad alcun controllo! Come può tutto ciò definirsi in linea con le idee cardine del liberalismo di preservare la libertà individuale e di limitare il potere dello stato e di ogni entità autocratica?

PS: il libro di M.P. che ho discusso sopra è stato presentato in diversi articoli di giornali, ma fra i tanti mi preme segnalare questo. Più volte si è ironizzato sui giornalisti del Corriere, per quello che dicono, per quello che tacciono e per come fanno entrambe le cose. Anche questo articolo, sebbene non discuta questioni economiche, si espone alle stesse critiche. La giornalista non esprime nessun pensiero autonomo sul libro che, in teoria starebbe recensendo, ma si limita a intercalare la sua prosa, invero assai poco utile, alle frasi virgolettate di M.P., che dunque si gestisce in tutta autonomia una sorta di spazio pubblicitario. Fin qui dunque saremmo ancora nel campo delle omissioni della giornalista. Il peggio però viene quando la signora Calabrò si lancia in simili affermazioni:

 

Si potrebbe dire che le «equazioni laiche» di Pera — ordinario di Filosofia della scienza a Pisa, studioso di Karl Popper, già coautore insieme all'allora cardinale Ratzinger del bestseller Senza radici — a livello della «ragion pratica» o della phronesis aristotelica, fanno il paio con quello che sul piano della metafisica è il teorema di Gödel, che dimostra matematicamente la necessità dell'esistenza di Dio.

 

Intanto, cosa c'entrano la phronesis aristotelica e la ragion pratica di Kant con le affermazioni di M.P.? E poi, da quando, un teorema matematico dovrebbe dirimere una questione relativa all'esistenza di Dio? Infine, di quale teorema sta parlando, visto che il matematico boemo ne ha dimostrato diversi, di teoremi?

Ecco, è proprio scorrendo queste righe che si percepisce la profondissima crisi della cultura umanistica italiana: essa si caratterizza ancora per quest'uso intimidatorio delle parole e degli autori classici, buttati tutti in un unico calderone (Aristotele, Kant e Godel), allo scopo poi, neppure nascosto, di giustificare progetti politici e ideologici di tipo clericale.

 

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 \begin{array}{rl} \mbox{Ax. 1.} & P(\varphi) \land \Box\; \forall x [\varphi(x) \rightarrow \psi(x)] \rightarrow P(\psi)\\  \mbox{Ax. 2.} & P(\neg \varphi) \leftrightarrow \neg P(\varphi)\\  \mbox{Th. 1.} & P(\varphi) \rightarrow \Diamond\; \exists x\; [\varphi(x)]\\  \mbox{Df. 1.} & G(x) \iff \forall \varphi[P(\varphi) \rightarrow \varphi(x)]\\  \mbox{Ax. 3.} & P(G)\\  \mbox{Th. 2.} & \Diamond\; \exists x\; G(x)\\  \mbox{Df. 2.} & \varphi\;\operatorname{ess}\;x \iff \varphi(x) \land \forall\psi\lbrace\psi(x) \rightarrow \Box\; \forall x[\varphi(x) \rightarrow \psi(x)]\rbrace\\  \mbox{Ax. 4.} & P(\varphi) \rightarrow \Box\; P(\varphi)\\  \mbox{Th. 3.} & G(x) \rightarrow G\;\operatorname{ess}\;x\\  \mbox{Df. 3.} & E(x) \iff \forall \varphi[\varphi\;\operatorname{ess}\;x \rightarrow \Box\; \exists x\; \varphi(x)]\\  \mbox{Ax. 5.} & P(E)\\  \mbox{Th. 4.} & \Box\; \exists x\; G(x) \end{array}

Palma,

i filosofi come te sono preziosi, benvenuti e necessari. Grazie per la spiegazione del significato logico del teorema di Godel, e grazie anche perchè ci ricordi chi è la giornalista dell'articolo, che evidentemente agisce sulla base del motto "una volta dei nostri, sempre dei nostri", nel senso che anche se non è più nell'ufficio stampa di Pera, scrive comunque a (per) Pera.

A proposito di etica, visto che di etica si parla nel libro, ma non sarebbe un principio di deontologia professionale minimo evitare di recensire il libro di colui per il quale eri a libro paga?

 

Infine, di quale teorema sta parlando, visto che il matematico boemo ne ha dimostrato diversi, di teoremi?

 

di questi

 

 

[Ops, ha gia' risposto Palma mentre litigavo col nuovo editor...;)]

 

Confesso che non so se si vedano i caratteri, ma il paragrafo precedente e' la (succitata) dimostrazione. Per chi manchi di familiarita' con i sistemi formali (questo chiamasi sistema modale, il quadratino che precede la conclusione va letto E' NECESSARIO che (esista almeno un x che sia G).

Per chi abbia tempo da perdere (qui sto ironizzando, si traduca, per chi si interessa a cio') i testi rilevanti sono disponibili in Italiano in 

 

 

GODEL K.<em>  


 

PROVA MATEMATICA DELL'ESISTENZA DI DIO. BOLLATI BORINGHIERI 2006<em>  

 

Per chi abbia interessi religiosi, la dimostrazione, esibita supra, ha come conclusione l'affermazione che, sotto l'ipotesi che vi sia un mondo possibile in cui "dio" c'e' esiste una sostituzione della variabile quantificata che permette di affermare che necessariamente dio c'e'. Un mondo possibile e' il dominio di un modello. Informalmente: c'e' (forse) un mondo possibile in cui sono miliardario e Briatore studia le interpretazioni sub-sostituive dei termini deitici; fino a quando non si dimostra che tale "concezione" e' incoerente il dominio che rende veri gli enunciati del tipo "se Briatore avesse studiato, farebbe il filosofo del linguaggio" e' *quel* mondo possibile (e' possibile perche' non e' il mondo attuale -- val  a dire quello in cui vivo io)

 Il dio che ne esce non e' quello della tradizione cattolica (ancora meno quello della tradizione biblica per chi segua simili letture) Godel (in due lettere che trovate nell'edizione di tutto il suo lavoro, presso Oxford U Press) sostenne che si trattava di qualche cosa di simile ad un dio spinoziano (ad esempio, non puo' subire alcun mutamento, e' un essere necessario nello stesso senso in cui il numero 17 non subisce mutamenti  --- per gli incolti che sono assenti da nfA, ma presenti ahime nel mondo, la temperatura di 17 gradi muta -- si leva e diventa 43 quando si passa dallo stato di cadavere al vivo febbricitante  -- NON il numero 17 che ha tutte le sue proprieta' necessariamente -- e' primo, viene prima di 18, e' meta di 34 etc. etc.. e' la radica quadrata di 289 e cosi' via), quindi ad esempio il dio di "G" non puo' creare o distruggere nulla, non si arrabbia se palma e' cattivo, non si rallieta se casini e' buono, e cosi via. 

La signora Calabro', lesse (male) wikipedia. Infortunio professionale. Ma abbiate carita', prima di andare (al Corsera) la signora Calabro' faceva la portavoce... di Marcello Pera.

 

dal "BARBIERE DELLA SERA" del 2001

 

9 Luglio 2001 - Dieci consigli non richiesti ai nuovi portavoce

Nuovo governo, nuovi portavoce. La prima è stata Maria Antonietta Calabrò ad accettare la chiamata di Marcello Pera per l’incarico di portavoce della seconda carica dello Stato. Ma poi: Roberto Arditti (Interno), Marco Cecchini(Economia), Luca Mantovani (Attuazione del programma di Governo), Novella Onofri (Funzione Pubblica), Gerardo Pelosi (Esteri), Giampaolo Segala (Industria) sono alcuni dei primi nomi - in rigoroso ordine alfabetico - cui spetta il compito di affiancare i ministri del nuovo governo nella preziosa e delicata opera di comunicazione quotidiana.

 


 

Ma la "Universita' Sacro Cuore di Roma" e' la Cattolica?

Certo che è cattolica, ma non preoccuparti degli scandali, non sta forse scritto: "la dove abbondò il peccato, la sovrabbondò la grazia"?

 

"Se invece la mia definizione è utilizzata come termine di paragone per definire il liberalismo rispetto a dottrine politiche concorrenti, come il marxismo, oppure rispetto a concezioni del potere quale l'autoritarismo, allora la definizione non è generica, perchè sia il marxismo sia concezioni autoritarie della politica non pongono il rispetto e la preservazione della libertà individuale come punto dirimente della loro azione politica.Il marxismo si pone fini redistrubitivi e di controllo collettivo dei mezzi di produzione, un obbiettivo che produce necessariamente una limitazione della libertà politica ed economica dei cittadini".

 Perche' l'attribuzione iniziale dei diritti di proprieta' (sul cui rispetto si basa la teoria economica liberale) non e' una limitazione della liberta' politica ed economica dei cittadini? In fondo si tratta di un atto di forza di un individuo nei confronti di un altro individuo (e cito michele per una volta, non marx).

 

Il diritto alla proprietà può si entrare in conflitto con altri diritti, ma solo se questi ultimi sono considerati al medesimo livello del diritto di proprietà medesimo...i diritti determinano sempre l'attribuzione di titoli che possono entrare in conflitto, a meno che  non si stabilisca che alcuni diritti sono prioritari rispetto ad altri; questo vale in generale per i diritti.

Sull'esempio del diritto di proprietà, se esso è riconosciuto indistintamente a tutti, in relazione al frutto del loro lavoro, esso non limita nulla, a meno che tu non intenda che l'esercizio di quel diritto di proprietà potrebbe violare il diritto sociale del lavoratore dipendente, per esempio, a nn essere licenziato dalla mia fabbrica...ma il punto è che viene prima il diritto di proprietà a gestire i miei beni liberamente prima di quello sociale a dover garantire un uso sociale o redistributivo di quel diritto.

Il diritto di proprietà, citando Locke, è un diritto che addirittura uno si porta dietro dallo stato di natura fino alla stato politico.

 

ho letto l'articolo su pera, letto l'articolo del corriere, scusate se commento con una piccola cosa banale. Specifico che di economia mi ricordo solo che i beni sono scarsi. E che di liberismo so solo che alcuni pensano che l'iniziativa personale sia cosa buona e giusta. Penso che l'economia e la politica siano solo attività logistiche che costruiscono, più di permettere, determinati comportamenti che vengono poi sacralizzati come "libertà" della più varia natura. Secondo me più di verificare il collegamento, inesistente, tra cristianesimo, libertà personali ed economiche come le intendiamo adesso, si debba riflettere come delle teorie e pratiche sociali cerchino di nutrirsi le une delle altre quando sono minacciate. Almeno, il cristianesimo, nonostante degli espliciti catechismi, sembra essere più che favorevole all'editoria "sulle radici" europee. 

E poi, non erano ebraismo e calvinismo ad essere tradizionalmente liberisti? 

 

 

E poi, non erano ebraismo e calvinismo ad essere tradizionalmente liberisti?

 

Intanto furbamente si parla di cristianesimo non di cattolicesimo, quindi si abbracciano un po' tutte le varianti. Io direi che, si' il ramo protestante e' sicuramente quello piu' affine alla logica liberista (e workaholic)

Visto che Luigi mi cita, correttamente devo dire, provo a dire la mia sulla questione (eterna ed irrisolvibile) dello stato di natura, la condizione iniziale e la libertà individuale.

La "mia" è molto semplice. Da un lato la "condizione iniziale" è un puro costrutto teorico che serve per verificare se un insieme di assiomi è consistente ed a che conclusioni porta, non un'ipotesi empirica. Non c'è mai stata alcuna condizione iniziale, ovviamente; basta pensare al fatto che veniamo dalle scimmie attraverso una sequenza di salti che, anche se discreti, sono essenzialmente un continuum, per capire il punto. Se non si capisce questo, amen: nemmeno ci provo ad insistere.

Dall'altro, il problema è irrilevante, anzi in generale l'intero problema di voler dare dei fondamenti assoluti a una o l'altra teoria della giustizia è un problema mal posto. Se il fondamento assoluto ci fosse e fosse "rivelabile", nel senso che una volta scoperto e messo per iscritto tutti converremmo che è quello giusto, equivarrebbe alla prova dell'esistenza del famoso signor dio (non quello di Godel, quello unicissimo delle religioni rivelate). Non ho una prova formale di tale affermazione, ma sospetto che non sia del tutto impossibile fornirla. Scordiamoci, quindi, l'eterna discussione sui fondamenti assoluti della giustizia e via andando. I fondamenti saranno sempre e solo "relativi": si scrive un insieme di assiomi che si trovano "intuitivamente accettabili o ovvi (ossia, che ci piacciono, esattamente come ci piace l'Inter o le morette pepate con le curve al posto giusto, che è il mio caso) e da lì si traggono deduzioni. Fine. Non ti piacciono i miei assiomi? Comprensibile, non so cosa farci. Al mio più antico amico (42 anni and counting) continuano a piacere sia la Juventus che le bionde con la voce chioccia ...

I fondamenti di una teoria della giustizia, se proprio vogliamo così pomposamente chiamarla, sono quindi relativi e storicamente/culturalmente/tecnologicamente determinati.

P.S. Questo messaggio è stato brutalmente troncato dalla caduta della connessione dell'hotel dov'ero, chiedo scusa. Per questo ho aggiunto "Part I". Appena posso metto Part II.

 

 

La "mia" è molto semplice. Da un lato la "condizione iniziale" è un puro costrutto teorico che serve per verificare se un insieme di assiomi è consistente ed a che conclusioni porta, non un'ipotesi empirica. Non c'è mai stata alcuna condizione iniziale, ovviamente; basta pensare al fatto che veniamo dalle scimmie attraverso una sequenza di salti che, anche se discreti, sono essenzialmente un continuum, per capire il punto. Se non si capisce questo, amen: nemmeno ci provo ad insistere.

 

Su questo non c'è dubbio alcuno. Prescindendo pure dalle reali convinzioni dei pensatori contrattualisti classici, in merito alla realtà dei fenomeni che andavano descrivendo, sappiamo che quella contrattualista è una metafora più o meno sofisticata, che in genere presuppone sempre una sorta di vuoto pneumatico per comprendere quali principi di giustizia possano essere considerati universali, al di là delle circostanze contingenti nelle quali gli uomini vivono.

 

Scordiamoci, quindi, l'eterna discussione sui fondamenti assoluti della giustizia e via andando. I fondamenti saranno sempre e solo "relativi": si scrive un insieme di assiomi che si trovano "intuitivamente accettabili o ovvi (ossia, che ci piacciono, esattamente come ci piace l'Inter o le morette pepate con le curve al posto giusto, che è il mio caso) e da lì si traggono deduzioni. Fine. Non ti piacciono i miei assiomi? Comprensibile, non so cosa farci. Al mio più antico amico (42 anni and counting) continuano a piacere sia la Juventus che le bionde con la voce chioccia ...

 

E' vero che si parte da condizioni iniziali che possono essere discutibili o controverse, però secondo me è importante considerare che ci possono essere assiomi più o meno "accettabili" o che producono conseguenze comparativamente migliori di quanto non facciano altri assiomi...se fosse solo una contrapposizione di gusti personali non ci sarebbe stato bisogno di discutere tutto questo tempo sulla giustizia...ogni teoria della giustizia, proprio perchè è tale, assume implicitamente che essa possa essere difesa dinnanzi agli altri in ragione della sua desiderabilità.

I fondamenti di una teoria della giustizia, se proprio vogliamo cosi' pomposamente chiamarla, sono quindi relativi e storicamente/culturalmente/tecnologicamente determinati.

 

Questo invece è proprio strano che lo dica tu, non me lo aspettavo. Voglio dire la parzialità di una teoria della giustizia, in merito alla sua origine, storica o culturale, non ci dice ancora nulla circa la sua preferibilità rispetto a teorie della giustizia concorrenti. Ma in effetti tu stai solo dicendo che concezioni della giustizia differenti sono sullo stesso piano solo in merito alla loro origine, segnata dal contesto di origine, ma non dici che sono uguali anche per il contenuto.

 

Dopo una buon pranzo a base di pesce fresco ed una rilassante passeggiata (il tutto con la squisita compagnia di Enzo Michelangeli: ci conoscevamo da 16 anni, ci siamo visti oggi per la prima volta ...) la stupenda vista dalla finestra della stanza congiura a farmi rivenire la voglia di scrivere.

Riprendo il filo usando queste frasi di Marco Boninu

 

È vero che si parte da condizioni iniziali che possono essere discutibili o controverse, però secondo me è importante considerare che ci possono essere assiomi più o meno "accettabili" o che producono conseguenze comparativamente migliori di quanto non facciano altri assiomi...se fosse solo una contrapposizione di gusti personali non ci sarebbe stato bisogno di discutere tutto questo tempo sulla giustizia...ogni teoria della giustizia, proprio perchè è tale, assume implicitamente che essa possa essere difesa dinnanzi agli altri in ragione della sua desiderabilità.

 

Le condizioni iniziali sono quelle che sono, non sono né discutibili né controverse: sono. Esse sono il prodotto della storia che mi precede e di eventi naturali. Posso avere opinioni e simpatie sul passato ed ovviamente usarlo per apprendere qualcosa sul comportamento umano, su cosa causa che cosa, e così via. Posso anche apprendere dal passato stesso delle lezioni sugli effetti di differenti sistemi di diritti di proprietà, ma nell'elaborare la mia teoria della giustizia posso fare un'unica cosa: accettare ciò che mi consegna come punto di partenza. A meno, vedi sotto, che io intenda esercitare violenza per modificare ciò che il passato mi consegna come condizione iniziale.

Chiarito questo e chiarito il fatto che, piaccia o non piaccia, ogni teoria della giustizia soddisferà degli assiomi che sembrano "ragionevoli, giusti, ovvi" a chi la propone ma che non debbono necessariamente apparire tali ad altre persone, rimangono due questioni: come scegliere fra diverse teorie della giustizia contrapposte e che farsene delle condizioni iniziali. In entrambi questi casi è possibile (non obbligatorio, né raccomandabile, ma possibile certo che sì) che si debba esercitare un atto di violenza.

Se A e B propongono due teorie differenti della giustizia (tralasciando il caso irrilevante in cui uno dei due non ha capito bene come funzioni la sua e quindi l'altro può rapidamente mostrargli che egli ha a disposizione soluzioni migliori ai medesimi desiderata) è molto probabile che vi siano delle differenze sugli assiomi che A e B, rispettivamente, considerano "giusti". Come si risolve la cosa? Delle due l'una: o bene gli assiomi che A e B condividono sono sufficienti per definire un metodo collettivo di scelta che permetta di raggiungere un "compromesso" su quegli assiomi che i due non condividono, oppure c'è solo la violenza. Non vedo soluzione logica alternativa. Una condizione necessaria per la definizione di una funzione di scelta collettiva condivisa sia da A che da B è la seguente: entrambe le teorie accettano il principio che i loro assiomi non sono necessariamente inviolabili, che esiste una gerarchia di fini e che è possibile dover rinunciare ad uno dei fini per ottenerne un altro, di superiore. Altrimenti non c'è spazio per alcun compromesso, e c'è solo la violenza fondatrice. Quest'ultima non so se è buona o cattiva, perché tutto dipende da quale sistema di diritti di proprietà produrrà. Se mi va bene sarà violenza "buona", altrimenti no.

Una seconda istanza in cui la violenza diventa ineluttabile (ed inqualificabile nel senso che non la posso classificare "buona" o "cattiva" a priori) è quella in cui il sistema di giustizia che esce dal compromesso (o dallo scontro) fra A e B è incompatibile con il sistema di proprietà esistente, ossia con le condizioni iniziali. Non vedo cos'altro sia possibile in questa istanza se non esercitare violenza, ossia modificare i diritti di proprietà in essere contro la volontà di coloro che di essi godano. Se poi questo renda necessario mozzar loro la testa o si possa ottenere, più semplicemente, con un esproprio parzialmente compensato, è questione di dettaglio. Rimane il fatto che, anche in questo caso, c'è poco da discutere su cosa abbia o non abbia generato le condizioni iniziali: o ti vanno bene o le cambi violentemente.

Tutto questo vuol dire che discutere di etica e di principi morali è inutile? Assolutamente no, almeno dal mio punto di vista. Il mio sistema di assiomi suggerisce che un metodo raccomandabile per raggiungere un compromesso sia cercare di convincere gli altri che i miei assiomi sono migliori dei loro, lasciando aperta la porta all'eventualità che la discussione produca il risultato opposto. Ma questa discussione non può non essere storicamente determinata, per cui andare a discutere di condizione originale e di cosa sia nato prima, se l'uomo libero o un qualsiasi sistema di diritti di proprietà è una perdita di tempo. Anche perché, se Darwin e compagnia non l'hanno bucata totalmente, la condizione iniziale è quella di essere una scimmia, il che rende difficile la definizione di "uomo libero".

Questo implica anche, a mio avviso, che è inutile pensare di poter definire il contenuto della parola "libero" una volta per tutte. Essere può non cambiare di connotazione e magari provocarci le stesse "emozioni" quando pensiamo a noi stessi come "uomini liberi" ma cambia certamente di contenuti sostanziali al cambiare delle condizioni storiche in cui si vive. Ragione per cui io ritengo perfettamente legittimo ri-discutere su che cosa voglia dire (che cosa io vorrei volesse dire) essere "libero" ed essere "liberale" oggi. Questo perché mi piace quanto la parola "liberale" connota e mi piace pensare a me stesso come "libero e liberale". Se mi piacesse sentirmi, che so, fagiolo, suggerirei di discutere del fagiolismo, teoria sempre giovane e scientifica ...

A mio avviso questo implica che se (per ipotesi) qualcuno suggerisse che per essere "liberi" occorre avere un net-worth di 500mila dollari e che, quindi, per realizzare la società liberale occorre prima redistribuire la ricchezza esistente in modo tale che ogni persona possieda almeno un capitale netto di 500mila dollari, la mia unica salvezza consisterà nel cercare di convincerlo che così facendo violerebbe altri assiomi che egli/ella associa all'essere libero. Altrimenti sono nei guai e non mi rimane che accontentarmi del fagiolismo.

Mi riesce però difficile pensare di poter difendere una teoria della giustizia come migliore "per tutti", in quanto ogni allocazione dei diritti di proprietà genera per forza di cose dei vinti e dei vincitori.

 

 

Mi riesce però difficile pensare di poter difendere una teoria della giustizia come migliore "per tutti", in quanto ogni allocazione dei diritti di proprietà genera per forza di cose dei vinti e dei vincitori.

 

Ci sono peraltro teorie della giustizia che generano sistemi che risultano peggiori per tutti, dato che la scelta di un sistema influenza non solo l'allocazione di risorse ma anche la loro disponibilita' complessiva: essi possono rendere alcuni vincenti rispetto ad altri nello stesso sistema, ma li rendono perdenti rispetto a come potrebbero essere in sistemi diversi. Ed e' per questo che oggi in Cina e' cosi' dificile trovare nostagici dell'egualitarismo maoista, quando i coefficiente di Gini era 0.16 contro lo 0.47 del 2007, ma milioni di persone morivano di fame tra ruralizzazione forzata e "grandi balzi in avanti".

Ma che relazione c'è fra la condotta di una classe politica piagata dalla corruzione, il suo essere sempre rinviata a giudizio, oltre che a settembre per la sua palese ignoranza, e tutto questo parlare di etica e valori? Forse che, furbamente, la nostra classe dirigente viola l'etica pubblica politica (rubando, occupando le istituzioni e sfasciandole per i suoi interessi privati) e poi per rifarsi una'impossibile verginità usa l'etica cattolica? Ovviamente il riferimento è  all'ultima del ministro Sacconi, già socialista della Milano da bere e da mangiare e da ultimo in Forza Italia...sarà difficile convincere un ex socialista che alle volte è meglio smettere di mangiare.