La poesia di Francesco Marotta

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La poesia -
Ma cos’è mai la poesia?
Più d’una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
come alla salvezza di un corrimano.

W. Szymborska

La poesia cambia continuamente, è una materia incandescente e multiforme, spazia e corteggia la prosa, canta e si perde in voli pindarici e lirici, carezza i sensi e si fa materia carnale, onirica, surreale, ma anche veicolo di denuncia e canto di "resistenza". Difficile definirla ma proveremo - se vorrete - a leggerne i diversi e possibili percorsi.

Anselm Kiefer - Resurrexit

Anselm Kiefer - Resurrexit

*

come chi vive

per lasciare impronte, un

solco per la morte che

ci segue, che ci precede

in forma di stagioni

fm

λέγω – λόγος – ποιέω – ποιήτης

Il poeta osserva le cose, i fenomeni, gli accadimenti, respira il pensiero del tempo, ne assimila nessi, connessioni e se ne fa portavoce consapevole di caducità e oblio, cui resiste in una battaglia al frastuono confusionale degli inganni della storia, affinché permanga una traccia che non disperda i frammenti di memoria del suo canto di vibrazione e rimembranza, sospesa nella dimora del tempo custodito.

“varcare la soglia di una domanda / rasente all’ombra che a fatica / recupera i suoi codici eccede gli argini / imponendosi torsioni di lingua / per esempio la trama discorde / che dai margini offre un sentiero / al silenzio” – (da “Esilio di voce”, 2009)

E difatti, il poeta è “custode” della bellezza, del dolore, dell’angoscia, del vero, di cui si nutre per restituirlo in forma di dono da condividere (“il dolore / mi dice continua / la corsa, riempi le mani / imbratta di sillabe” – da “Impronte sull’acqua”); egli sa che la sua parola è nulla/silenzio e non pretende verità che non sia la propria soggettiva essenza questionante di dubbio, la propria intima elaborazione degli spazi di luce ed ombra del tempo (“l’inchiostro che / vaga tra silenzio / e silenzio – “Impronte sull’acqua); conscio del fatto che il suo dire non potrà mai prescindere dai fatti, dalle parole, dal pensiero in arte nella storia, non chiuderà mai la propria esperienza in un castello di specchi, ma aprirà le finestre al pensiero ed allo scambio, cercherà sempre nuove forme, osserverà ed amerà la pluralità delle voci, fondendo il proprio essere in un’armonia di contrasti, da cui stillare il senso precipuo dell’esistenza.

“Lascia alla parola l’aura / incantata delle origini, / il lume che le compete
per nascita e destino, / il fondo oscuro / matrice d’ogni luce”
.

(Per soglie d’increato , Edizioni Il crocicchio, 2006)

Lo scorrere liquido del pensiero in parole nella creazione poetica non è altro che fluir/si in offerta nuda agli occhi, alle orecchie, alle labbra di un reale o presunto interlocutore. Niente di più carnale, umorale, intimo ed oggettivamente soggettivo della poesia può costituire il mistero irrisolto dell’esistenza e della “necessità” della tradizione/traduzione del pensiero in scrittura. Segni grafici che costituiscono suoni catalogati in ordine di organi e lembi vivi di carne che ne implicano la pronunzia: labiali, gutturali, liquide, dentali, palatali …. sono le vocali e le consonanti, praticamente le note, di una composizione di suoni codificati in parole che costituiranno il pensiero – dentro di noi – o il dia-logo – quando il pensiero sia espresso per trans-itare da noi ad altri.

La liquidità densa della parola, nei versi di Francesco Marotta, si consuma nella sua stessa carne, nel suo stesso analizzare il dolore. Il verso spesso appare sincopato, spezzato, irrisolto e ripreso con profonda consapevolezza nella gestione del verso – sia pure libero – che apparirà rilegato e ricucito ad arte in enjambement, sinafie e sinalefi, che non hanno unicamente il compito “formale” di conferire il voluto ritmo – musicale quanto ottico – al “colon”, ma – ancor più – il senso sciolto dell’affermare il dis/ordine del tutto e del suo stesso contrario nello scorrere del pensiero.

Forma e parola si fanno quindi tessuto, tessuto vivo, sanguigno, denso di fluidi: acqua/sangue/sudore/umori che cambiano, che si rincorrono dalla fonte alla loro stessa foce: inchiostro nero come il cielo che fa da sfondo all’umana aspirazione al bello d’una illusoria luna o, ancora, inchiostro nero come sangue, che quando si rapprende perdendo la sua intima vitalità si stimmatizza in segno grafico che permanga, macchiando di sé la pietra, la carta, come il sangue innocente che -irrimediabilmente- scrisse la storia.

La ricerca linguistica operata sulla parola, in Francesco Marotta, esula dal mero compiacimento letterario e, ancor quando sia ricca di echi e rimandi, non è mai fine ma “mezzo”, “arca” che incarnandosi del proprio intimo dis/ordine si veicola in sostanza reale, materica, duplice nella proiezione di senso della sua stessa ombra.

Marotta è parola che si fa grido, carezza, richiamo, messaggio di un'umanità in cui spera nonostante la disillusione, nonostante le atrocità della storia, le urla murate negli occhi di innocenti, gli olocausti del passato e quelli cui assistiamo inermi, passivamente, inconsapevolemte bendati dal fuorviante buonismo del nostro tempo, che tutto edulcora e trascolora, mascherando anche il sangue sugli altari cerimoniosi della scarsa memoria; poesia come *resistenza*, fuga e ritorno alla vita, con un'aderenza che cuce l'anima al derma per essersi testimonianza ed interezza di vita.

Una traccia, che non scolora.

Esilio_di_voce

Esilio di voce (2009, inedito)

scrivi strappando chiarori di pronome

dalla voce la luce malata

che s’innerva

al rantolo di un verbo scrivi

con lo stilo di ruggine che inchioda l’ala

nel migrare anche la morte

che sul foglio appare dal margine

di sillabe di neve s’arrende alla caccia

al sacrificio necessario

dell’ultima lettera superstite

*

ci accomuna la conta differita dei morti

la mano adusa a separare codici e correnti

dal gorgo dove si adunano le ore

indicibile chiusa

di apocrifi in sembianti di volti

di giorni in forme declinanti

di parole

*

come questa luce di specchio

quando raccoglierla è già spreco

di fulgidi rosa un chiedere al sonno

gli spazi

intagli per minimi azzurri

l’abuso di crescere che sia privo del prima

mutilata la mano da una lama

d’inchiostro

che trema sul foglio

*

guarisci il dubbio trafitto

dall’ansia di essere riparo malattia

a cadenze autunnali guarda gli sterpi

che ti battono un’altra luce

sui fianchi e nell’ombra che sale

gioca il sogno di un confine

sospeso la tua pelle si stacca aggiunge

ore ai tuoi segni al graffio che resta

dove togli parole

ai tuoi occhi

*

assenza che sia illuminata erosione

un luogo che i sensi coincide

a un poi di riflessi se colma l’immagine

di grandine di minerali celesti e trascina

a ogni singola mano sangue di fuga

all’occhio l’identico accordo l’energia

perversa di un dono l’attrito

di maschera e volto

impaziente del balzo

*

è un abbaglio la morte la polvere

sbrina il suo vento sull’acqua un abisso

d’aria e correnti

che l’arte della pietra modella

per l’oblio materno dell’alba

*

in equilibrio di colore e distrazione

conserva segni in un forse di miscugli

sillabici il resoconto di un ramo l’ipotesi

di immagini dove presente e senso

versano lacrime agli occhi così

ritorna alla scienza diseguale del volo

l’angelo che spiuma

desideri di carne di danza

il presagio

di un nevaio che brilla dolore

sul confine tra cielo e memoria

ad altezza remota di lingua

*

paesaggi che alle palpebre tendono ombre

e distanze a volte un passo che irrompe

nel viluppo a sfrondare la norma

la linea di bianco imposta

dall’ennesimo inverno eppure

si potrebbe affidare l’oltraggio a grammatiche

docili ogni senso al destino e svanire

al suono che la preda sbalza dal sonno

verso una morte in punta di rima

*

varcare la soglia di una domanda

rasente all’ombra che a fatica

recupera i suoi codici eccede gli argini

imponendosi torsioni di lingua

per esempio la trama discorde

che dai margini offre un sentiero

al silenzio

*

dove macerano tracce e l’abisso

è radice di ore lo scarto svelato

tra il crepuscolo e un’assenza

disattesa di voci dove scopri

sgraziato e distratto

tutto il credito di una piccola morte

l’orizzonte che regge la scia

di astri vanescenti e la tua mano

che ne traghetta il lutto

verso il largo

*

avanzi verso un mare inaccessibile

e la sera ti impiglia nello sguardo un diluvio

di sillabe l’onda franata sotto i passi

e quel tempo di amare che ha l’ombra

quando ne invochi il morso vivo

dove trovare riparo

*

febbri e vene a passo d’erosione

il farmaco in affondo da scomporre

in linee inquiete notte dopo notte

inaugurando verbi di declino

il lontano di un’offerta in forme d’acqua

la replica ardente che passa sugli occhi

e depone il franto

pulviscolo

di un nome alla deriva

*

così è la grazia delle immagini

rovesciate nel palmo venute via dall’ombra

che ora ricordi accampata da sempre

alla tua soglia ma

si trattava di attese esercizi

privi di simboli come adornare sbrinati

specchi col battito salino

di una pupilla naufragata

*

è un percorso che si rivela in squarci

e argini disparenti al primo soffio

un affluente da riconoscere dall’alto

dalle torri del giorno se

nel lontano vigila un dissestato

teatro di corpi e alla chiusa

le sillabe raccogli che la mano nasconde

prima di cedere sotto la sferza

di un lampo

alla cecità di dare ancora un nome

*

nudità di deserto e alla cintura

una sacca d’aria rarefatta per talismano

e balsamo tu la trascini

abbandonando respiri a folate alla luna

seguendo a palpebre sbarrate

nell’esilio di voce

la lampada elementare che risale

fino alla sommità delle labbra

la selva di due desideri intrecciati

*

alla curva del vento

slarga foglie e rotaie l’assenza di cielo

e labbra a distesa dall’altra parte

dell’acqua si pensa un paesaggio

grande quanto una mano lungo

fino a sfiorare i capelli con la dolcezza

verde della sabbia si pensa la terra

divisa in pagine leggere e uno sguardo

luminoso di bambina

piantato tra le zolle come una spina

come una sillaba

come un’attesa

*

dal largo

sopraggiunta da un chiarore incurabile

svapora memorie come umori d’erba

accesa dai roghi dell’inverno

nuota verso la parete la mano

legge l’aspro sapore di fumo

di una foto ingiallita quell’unico dolore

di avere ancora suoni

per l’orecchio murato dei morti

*

Esilio di voce, 2009

(terza parte di inediti)

si inciampa in un grido
che si dissangua in luce
ogni volta che cerchiamo le stelle
nessuna soglia ci separa dall’assenza
nessuna parola così profonda
da poterla tacere

fossero simili a foglie
che si combinano in fuochi
di caduta le vigili inudibili parole
cresciute tra labbra e desiderio
oppure grida che colmano
tutta la distanza di un ricordo
e poi acqua che fascia il viso
dei morti quando fa buio
anche la pelle e l’occhio
soffoca di essere visione
solo una maglia slabbrata
uno squarcio nella rete del tempo
incurabile misura del guardare

*

cammina pensando una deriva
la corrente paziente delle ombre
il suono che trascorre
inascoltato
alle tue spalle immagina
con quale lingua il deserto
racconta la piaga dove premeva
la lama della luce il varco
dove precipita il respiro
di una terra libera dal dolore
del nome

*

trascini per inerzia
il tuo peso che agghiaccia l’orma
con l’esattezza di un’assenza
dimentichi i volti uditi nel sonno
e ricuci tempo ai giorni la lingua
a un vuoto di parole eppure
basta un’eco una reliquia di voce
affiorata all’insaputa delle labbra
e il confine è la tua mano
che prova ad accendere decisioni
di neve s’inventa geografie
di segni rende chiaro il cammino
come il sale che brilla la pupilla
esplosa di un fiore

*

sulla pagina svuotata di segni
la notte incide formule e gesti
poi tenta gli occhi la pelle un idillio
di voci sgranate quando dici
il mio corpo ancora mi svela
quando reggi spenti equinozi
che sarebbe cera bruciata
per chi ha nuotato a ritroso
intera la superficie di una fiamma
per chi ancora respira della luce
deposta solo l’ora che imbianca
in mezzo al guado la sua ombra
che parla con lingua di sete
da un labirinto di acque murate

*

si origina dal tuo sguardo il volo
dai tuoi occhi che arrancano l’aria
mentre vegli mani d’infanzia
al riparo degli anni un battere
d’ali a pochi istanti dal lume
che precede un grido la bocca
trattenuta a spilli
dove vasto di vento il ricordo
dimora s’apprende alla grazia
frugata tra colori di neve
dissolti

*

un tempo concluso dai lampi
registro di fragili danze
al cospetto del buio
eredità di mondi
racchiusi tra pagine e brina
presagi che hai voluto sfogliare
offrendo alla veglia
suoni al fondo dell’acqua
e poi altra acqua
le stagioni respirate a fatica
la vocazione di un salice
che sfronda al cielo distante

*

al ritmo del fuoco
riprende i suoi accordi raccoglie
una nota dismessa
e la concede alla mano
operosa nel bianco
risolve un assedio di febbri
la notte indecisa
sorpresa dal passo di chi ritorna
da una crepa del vivere
apre le porte alla lingua
le pupille dilata in un lampo
sepolte di voci

*

al cospetto della polvere
anche il ricordo si scioglie
in macchie impazienti
una pozza di esaudite meraviglie
tiene dietro a reticoli d’alba
e cemento un sepolcro d’acque
disabitate e rari colpi di vento
a reggere l’onda che cresce
il profilo di un volto riemerso
per caso una florescenza un respiro
che al deserto s’impone
a un trascorso errore di luce

*

s’appoggia al notturno che migra
il pensiero d’un silenzioso distacco
uno spazio arredato da precipizi
di voce si enumera in sghembi
movimenti di pagine arabeschi
d’inchiostro che accelerano fughe
e disagi chiamando a raccolta
le ultime tracce di volo
ora che sulle labbra senti una fitta
e il tuo nome è il confine
dove palpita l’urlo d’una sfinge
morente

*

uno sguardo arenato
nello specchio più fondo
la mano che preme e marchia la carta
di ricami di muschio ammassati
a tempesta anche questo trasuda
la lingua a chi mastica cielo
membrane di sogno scomposte
là in fondo alla gola anche
questo disordine la fibra animale
che annega nel guado
di un diverso tramonto

*

è acqua che si acquieta
quando smette memorie di sorgente
al richiamo di un varco veloce
sopra mappe di sete è lingua
che si oscura votata nel segreto
a spiragli di luce
un astro che perde peso
risvegliando sensi agli amanti
è questo corpo che insiste
e nell’urto nebbioso dei giorni
libera sangue dagli argini
dalle dita qualche piuma invernale
il sigillo infranto di un nido

*

raccogli le foglie purpuree
che la sera conclude le foglie
sospinte nel vuoto lunare
scomposte esibite esplose
da un vincolo d’ombre ecco il tempo
che ci respira nei trascorsi
di un albero nel parto nel nome
nelle voci alla fonda negli occhi
nella traccia di vento
del nostro svanire all’approdo

*

resti di qualche luce
custodita per un cielo mai vissuto
salsedine che rischiara derive
s’incolla alle mani con la tenacia
vischiosa del naufragio
e alla bocca regala parole
senza suono frange in bave di tempo
alfabeti scomposti in oceani
di nuvole ombre di una comune sera
per la pupilla che risale le dita
fino agli orli franati del ricordo
fino a un volto ferito d’infanzia

*

prova a trattenere il crepuscolo
prima che l’estremo sbiadire
dei colori trovi requie sul tuo volto
ascolta la squilla sul filo delle pietre
il varco sonoro dove sabbia e radici
restituiscono il duro lavoro del giorno
qui non un gesto che dica il prossimo
squarcio il morso del fuoco
che indurisce cristalli nel palmo
neanche il buio che preme e squama
le impronte degli occhi solo il ritmo
fraterno delle cose immaginate
in piena luce materia vivente
visibile appena il tempo di passare

*

suoni a memoria
in luogo di sillabe e accenti
un più di polvere che maschera
segmenti di notte una materia
verticale di brividi
che continua una pagina
inesistente
sul rovescio del cielo
il calco di un mattinale
dissolversi
d’ombre

*

inizia dove la voce è spazio
di una ferita uguale una metafora
imbandita da giorni minori quelli
che annaspano nella traversata
in prospettive d’isole
inalberando indici di esilio
o coprono paesaggi di neve
per interposta assenza di vento
con una rosa
una parvenza di luce
un inciso

*

visitazioni di parole nel tempo
immaginando cosa nascondono
di gesti incompiuti le mani
pietrificate senza lume
quanta l’incuria in calce ai suoni
ripetuti in forme di abbandono
fino a scoprire il labbro
dove ripara un grido
scampato alle carte della sera
una dimora d’ombre e fortuna
in cui si recitano pensieri
a una corolla il sillabario delle api
udito alla foce del respiro

*

macerie in bilico e nello scollo della frana
tutto il candore
dei germogli agghiacciati
in passaggi di stagioni
materia di canto orfano dei silenzi del ramo
teso come un arco
aereo sulla superficie del pensiero
tra le grate del ciglio semplice traccia
levigata reliquia del vento

*

passioni inudibili fiutando la cera
la lampada erbosa che inscena il distacco
o trama in punta di pelle
un vuoto chiazzato ai bordi del buio
uno stilo una bolla un flauto in disuso
che pende affrescato alla bocca
regala silenzi di neve al tuo passo
materia d’esilio all’azzurro

*

il dolore mormora la vita più lontano
irrompe per dire la smania l’ansiosa
caduta in principio di volo ma
si parla di giorni nemmeno compiuti
e sostanze intraviste per caso
per esempio un muschio un lievito
metamorfosi d’aria di pollini
della terra che rimane nel palmo
custode di ogni richiamo
sorgente acerba dell’ala

*

rimani di guardia all’alba
vivente parentesi
nell’ocra bruciato delle ore ombre
d’alberi al dito e il capo
tenuto in disparte
da un pudore di anni di solchi
s’appartiene a parole mai dette
secrezione che regge un bisogno
fiorire
appassire
al modo inconsapevole degli astri
in obbedienza cieca alla spina

*

nessuna necessità
nessuna figura a ombreggiare
luci di radura
nel verso che realizza un disegno
il bilancio di un tempo
non ancora scaduto quando
la lingua aspira angoli di notte
alfabeti inattingibili
alla voce tutto un cielo
che sgrava coralli verbali
orazioni dall’iride diaccia
di stelle appassite di specchi
increspati lascivi di vita

*

un sintomo bianco
nel gioco del sole un balzo
d’insetti nella calma del rovo
malattia che tutto muove
e trascina a un dettato febbrile
di sensi rappresi
aggrumati per somiglianza
in soprassalti di mare
domani un letargo
memoria senza risveglio
dove riposano polvere e lampo
indecidibili sequenze del sempre

*

impressioni di sabbia nell’annuncio
labiale arrecato dal vento
s’inclina disperso per legge d’isole
e cielo un vapore dettato da tante storie
sfigura a brani il percorso dell’occhio
più spesso il corpo di una parola
porosa che esplode
sanguinante nella mano

*

sera che dubita la pupilla arresa
il soccorso per rampe
definite dalla fissità della luce
carte a grappoli che scivolano sul viso
a dettare inudibili immaginarie grida
sapienti di sangue e memoria
sera di un’ultima carezza sulla pelle
un fuoco che nell’inguine s’accende
come il faro di guardia
a un mare deserto

*

la tua ombra è un crocevia
di mondi in transito neve
e rose sognate
usando un respiro che arde
tra le spine del ricordo
dove la tua figura s’indovina
quando gli occhi sostano
tra luce e fiume
madre che dall’acqua
porgi la tua mano un gesto
la misericordia di un chiarore
per essere ancora fuoco
sotto il foglio che regge il giorno

*

dissacra la pupilla del mondo
il castigo deciso dalla luce un fiotto
di sangue lo svela
che risale le labbra come pane
raffermo dilata la bocca in lente
forme d’incendio e dalla mano
percorre il tuo nome
da masticare lettera dopo lettera
senza gli umori della voce lontano
qualcuno scrive sull’acqua
il profilo di un’orma imperfetta
nell’oblio di sorgente qualcuno
che veglia l’ombra recisa
dei tuoi fogli offerti in pasto
alla sera

*

all’inizio è una forma d’onda
una cresta aerea che si offre
alla spartizione del moto poi
il caso che si libera tra ipotesi
ed evento forse la lettera finale
di un ricordo una vela che si oscura
negli specchi franati di ieri
in cambio di un accordo muto
di una lenta consunzione
senza cenere

*

Francesco Marotta

_______________________________________________

Quando lessi per la prima volta “Esilio di voce”, mi si palesò un’immagine *ResurrExit* di Anselm Kiefer. E non è un caso a ben pensarci, dacché la poesia marottiana è ricchissima di echi e rimandi alla poetica dell'assenza di Celan, di cui Kiefer può a pieno titolo essere definito il traduttore in immagini. E per immagini prosegue infatti la mia lettura, consegnandomi la poesia di Francesco quale eredità di parola, verbo, sillaba, ostinatamente urlata sin dentro la luttuosa cecità delle *orecchie murate*, in sfida agli inganni, ai dubbi, alle norme ed ai codici da violare per oltre-passare – traghettare – in un naufragio privo di argini, fin dentro la visionarietà di angeli spiumati, capaci di verità di carne oltre ogni inverno, oltre l’inferno di presagi e bilanci tra presente e memorie, in una sferzata *paleontologica* e sfacciatamente evocativa di riordinata lingua.

*

Dal quaderno originale de "L’arte dimenticata di morire" sono stati espunti otto testi poi confluiti nella silloge "Hairesis", pubblicata in E-book da Biagio Cepollaro nel 2007 ( http://www.cepollaro.it/poesiaitaliana/MarotHaiTes.pdf ); tra questi otto testi vi é una poesia in particolare di Francesco che sintetizza il senso della scrittura e la sua urgenza per chiunque sia affetto da quella salvifica malattia che convenzionalmente cataloghiamo con il termine "poesia". La lascio qui in chiusura, in segno di saluto. Alla prossima lettura.

nc

*

Fino all’ultima sillaba dei giorni
.
scrivere è un destino covato dall’ombra delle ore
la spina amorosa di chi non lascia niente alle sue spalle
perché essere cenere, sostanza di vento
è inciso da sempre a lettere di fuoco
nelle pupille dei segni che trascina – un canzoniere
infimo, un breviario di passi senza orma
tracima sillabe d’innocenza e memoriali di sabbia
dalla brocca silente che disseta il labbro,
quando parole malate d’aria si staccano dalle mani
precipitano nell’impercettibile abisso
di una pagina –
.
scrivere è un’ora covata dal destino
la spina che costringe il corpo in reticoli d’albe in piena notte
e punge fruga ricuce orli slabbrati lacera la carne
fino a che sanguinano anche i sogni,
fino a che l’immagine fiorisce in echi di sorgente
gli alfabeti rappresi dentro un grido
.
(sono queste le voci che mancano a una pietra
per sentirsi un arco lanciato verso il cielo,
sono questi gli accenti
che scortano il seme alla sua tomba di luce – al precipizio ardente
dove la morte è presagio di stagioni,
oracolo dei frutti e del ricordo)
.

 

(QUI i pdf delle sue raccolte, tra cui -appunto- L'arte dimenticata di morire)

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Commenti

Ci sono 53 commenti

Egberto Gismonti - Água y vinho

http://www.youtube.com/watch?v=AYoEddbvBxI

buona notte Amerika.

tra sinafia e sinalefi,

 

senza titoli

non iscrivetevi 

tra i mondi


ai bordi delle valli di lacrime

imparate a vivere

 

paul antchel/ancel

 

 

la traduzione e' mia e fa pena

 

 

 

uno dei testi e' 

 

 

 


 

Schreib dich nicht
  

zwischen die Welten,
  

Am Rand der Tränenspur
  

lerne leben.

 

Preferisco venire dal silenzio
per parlare. Preparare la parola
con cura, perché arrivi alla sua sponda
scivolando sommessa come una barca,
mentre la scia del pensiero
ne disegna la curva.

La scrittura è una morte serena:
il mondo diventato luminoso si allarga
e brucia per sempre un suo angolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

in ORA SERRATA RETINAE, by V. Magrelli

 

eheheh... :) Francesco ha fatto delle bellissime traduzioni dal tedesco. chissà che non passi di qui a suggerirci la sua; me lo auguro.

"Imparare a vivere", come Celan ci ricorda per mano tua, è la cosa più difficile a quanto pare. grazie Adriano.

 

 

SALMO

Nessuno ci impasta più di terra ed argilla,

nessuno alita sulla nostra polvere.

Nessuno.

Lodato sii tu, Nessuno.

per amor tuo vogliamo

fiorire.

Incontro

a te.

Un nulla eravamo, siamo, rimar-

remo, fiorendo:

la rosa di

Nulla, di Nessuno.

Con

il pistillo anima chiara,

lo stame cielo diserto,

la corona rossa

della parola purpurea che cantammo

su, oh sul-

la spina.

Zona di neve, inalberata, fino all’ultimo,

nel vento ascendente, dinanzi

alle baite definestrate

per sempre:

sogni radenti spazzano

sullo striato ghiaccio;

sbozzare

le ombre di parole, accatastarle

attorno all’arpione

nel tonfano.

(traduzione a cura di I. Porena)

 

 

su Celan da Poetarum Silva

e su Celan da La dimora del tempo sospeso (litblog a cura di F. Marotta)

 

nn scriverti tra i mondi

al limite delle tracce di lacrime

impara a vivere

prof che ne dici di questa? sono quella del pollaio... ricordi?

 è al sing non al pl

beh... singolare.

piacere Biba, hai letto le poesie? ti sono piaciute? conoscevi già Marotta?

Ciao Natalia, no non conoscevo Marotta e lo trovo geniale,vale la pena di perdere un pò di tempo e di leggerlo

ho letto l'articolo che hai pubblicato che trovo molto bello, complimenti finalmente qualcosa di diverso da tabelle, calcoli, statistiche, Brunetta, Obama e compagnia bella che impazzano in questo blog

fortunati quegli alunni che hanno lui come professore.

 Lascia alla parola l’aura
incantata delle origini
Il lume che compete
per nascita e destino

è vero, Francesco insegna e spesso ho pensato con "invidia" ai suoi allievi. grazie per aver letto, mi hai reso molto felice.

n.

Da Hairesis

note per improvvisate metafore
vagando tra storie che sfumano in acque di eventi interdetti
tumescenza per troppo furore
passando in rassegna
ectoplasmi di neve
e si fugge
solo intuibile l’ubiquità di certi bagliori
adiacenze di tregua nel buco del culo del mondo
dove le foglie reclamano spazio
ai cieli consunti in deliri di tenebre acerbe
ingiunzione a stremare l’interno
la vita vissuta per interposta persona
.....................................

Ho conosciuto un poco Marotta grazie al fatto di essere stato "ammesso" alcune volte in un circolo femminile di letttura trascorrendo sempre serate gratificanti. Ho letto con piacere il post. Grazie

"la vita vissuta per interposta persona" ... già!

Grazie Luzo per questo frammento da Hairesis, spero davvero che Francesco legga il tuo commento.

a prestissimo.

n.

Posso ? Non ci ho capito niente. Sarà il formato, sarà la tosse e il raffreddore, ma non ho capito assolutamente niente.

Essendo abituato alle aride forme (geometriche, calmi), non si potrebbe avere un mini-condensato ? Qualcosa che spieghi cosa il poeta vuol dire ? Io con la poesia son fermo a Ungaretti:

"M'illumino d'immenso", o quella mia preferita,

Ognuno sta solo sul cuor della terra,

trafitto da un raggio di sole

ed è subito sera"

mmm, adesso vedo che è l'editor di nFA che mal si presta alla poesia, forse è stato ideato da aridi matematici -).

ma no, hai ragione, l'editor non c'entra nulla. oggi pomeriggio proverò a scrivere qualcosa di più chiaro e leggibile, promesso. :)

Il trafitto dai raggi di sole è Quasimodo.

Ungaretti lo adoro:

Andavano in silenzio, mitemente, come vanno gli italiani, morendo con un sorriso

 

uno dei miei professori (e non scherzava affatto) sostenne che i gruppi di Galois sono una poesia.

Noiosa premessa - puoi saltarla se vuoi -:

Tanto in poesia quanto in prosa l’autore esprime attraverso voci e personaggi, che colloca in un dato tempo ed in un determinato spazio, pensieri, riflessioni, emozioni, movimento ed azione, de facto una regia fatta di parole, che dovranno “rappresentare” e “figurare” immagini, atmosfere ed interi scenari, richiamando e sollecitando sensazioni, emozioni, quasi dei dejà-vieux nell’immaginario del lettore da “coinvolgere” nell’azione, nella riflessione, ... tuttavia, se è vero che “tutto quello che non è verso è prosa” e “tutto quello che non è prosa è verso” (“Borghese gentiluomo”,  Molière), è altrettanto vero che non è assolutamente automatico e semplice dire cosa sia poesia e descrivere la natura di un testo poetico. La differenza peculiare tra prosa e verso è racchiusa nell’etimologia dei due termini: il primo, prosa, è la sostantivizzazione dell’aggettivo latino “prosa, -ae”, che significava “che prosegue diritto, senza interruzioni”, al contrario il “versus” indicava il “vertere”, ossia il voltarsi su se stesso per “tornare indietro”.

Questo tornare indietro del verso su se stesso ha un doppio valore, quello dello spezzarsi per andare a capo ricominciandosi dopo una pausa di respiro, e quello di ripetersi tornandosi indietro foneticamente, generando un preciso schema ritmo-metrico, che  originariamente consisteva nella ripetizione di un stesso o di più diversi stili metrici e figure del suono, attraverso un gioco-calcolo di simmetrie ed asimmetrie. Tutto questo aveva una ragione musicale, essendo la poesia - la lirica - una forma artistica completa che prevedeva un accompagnamento musicale alla “declamazione” dei versi, inscenati in rappresentazioni danzanti di natura prevalentemente religiosa o epica. Tale tradizione si protrasse dall’antica Grecia - gli Aedi cantavano le gesta di eroi alimentando e tramandando leggende e miti accompagnati nel canto dalla lira (cetra) – fino in epoca romanza – periodo in cui le corti pullulavano di giullari e trovatori che declamavano liriche di carattere cavalleresco ed amoroso con accompagnamento musicale -.

L’esempio più scontato della nostra tradizione lirica italiana è il “Canzoniere” del Petrarca, che si apre con il sonetto proemiale:

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono

di quei sospiri ond’io nodriva il core

Detto ciò non possiamo non prendere in considerazione l’evoluzione del concetto scrittura tanto in poesia quanto in prosa, difatti a partire dalla seconda metà dell’Ottocento la poesia subisce una contaminazione prosastica (i Piccoli poemi in prosa di Charles Baudelaire), e contaminazioni liriche saranno presenti in molte opere narrative [Conversazione in Sicilia di Vittorini come esempio, ma tornando molto indietro nel tempo non possiamo non nominare il Decamerone del Boccaccio, etc]; del resto c’è da dire che se romanzo e racconto ebbero esordio in forma versificata, pur essendo oggi massima espressione prosastica, come per “contrappasso” viviamo oggi forme di poesia assolutamente spogliate dell’originario senso del canto con la precisa volontà appropriarsi della libertà “narrativa” della prosa.

Comunque, nonostante i casi limite e le famose eccezioni, quid dell’espressione poetica resta sempre il versus, non tanto per la sua caratteristica segmentazione del fluire del linguaggio, quanto per il suo carico di tradizione ritmica che si evolve dalla metrica tradizionale*, alla barbara** fino a giungere all’adozione del più moderno verso libero.

Sotto la generica denominazione di verso libero, si raccolgono varie forme di versificazione che sì non corrispondono a delle prestabilite regole metriche, ma che sarebbe  comunque un errore pensare assolutamente divincolate da sia pur soggettive  e precise scelte ritmiche che scandiscano “ritmo”, andatura ed estensione al verso. Il concetto di ritmo ovviamente possiede una sua connotazione musicale, ma non è comunque riconducibile ad alcuna forma tipicamente metrica; la metrica infatti è un concetto “normativo”, preesistente al verso, che in gran parte ne regola e determina la creazione, al contrario il ritmo è parte integrante della stessa creazione del verso da parte del poeta, agisce all’interno stesso del divenire della creazione poetica, incidendosi nella concretizzazione verbale per mano del suo autore, che liberamente decide di volta in volta l’intonazione che vuol conferire al suo verso.

 

QUID:

 

Fatte le noiose e semplicistiche premesse “tecniche”, bisogna passare ad un altro stadio: la lettura. Nell’approssimarsi ad un testo poetico solitamente ci sono diversi possibili piani di lettura: un primo piano che ne va a rintracciarne le caratteristiche linguistiche, stilistiche e quindi tecniche; un secondo tipo d’approccio che mira ad esaminarne ed analizzarne (o cercarne) il significato, ed un terzo che cerca di sintetizzarne il risultato facendo una valutazione in cui significato e significante coincidano nel fluire del pensiero tra suono e lettura.

Nel caso della poesia di Francesco Marotta, ritengo che l’unica possibile operazione da compiere sia abbandonarsi alla lettura dei versi lasciando che questi parlino, suonino e disegnino scenari e sensazioni in modo soggettivo, e non perché non sia possibile tracciarne un percorso obiettivo, quanto perché ci troviamo davanti ad un caso letterario che non può essere “rivelato” e sintetizzato senza conoscerne l’intero e continuo percorso poetico, talmente frastagliato di echi e rimandi che affondano e fondono ritmo, suono ed immagine, da generare una nuova “scoperta” ad ogni “incontro” di senso e ad ogni lettura.

Trovare le chiavi di una poesia, trovarle tutte non è salutare e non serve né al lettore né alla poesia stessa e – in fondo – non è possibile, giacché essa nasce in un momento, da una scintilla così intima e profonda che non la si può smembrare su carta per analizzarla scientificamente. Scinderla nel suo “inner” come fosse un atomo, una cosa, un nucleo, sarebbe profana vivisezione, che non porterebbe a nulla, essendo sempre il nostro nucleo, la nostra scintilla implosa a riflettersi nel testo – nostro malgrado.
Ed è questo – a mio mediocrissimo parere – a rendere alla poesia la sua “aura incantata delle origini”, ossia quella incontaminata-incontaminabile purezza di pensiero ed intuizione che transitando si tramuta come un virus benefico infettando i predisposti all’accoglienza.

Tuttavia, tu mi poni una domanda semplice e lecita quanto semplice e vero dovrebbe essere sempre l’occhio che si accosta alla lettura con la fondamentale e prioritaria “curiosità” di conoscere e capire.

Dunque cerco di motivarti il mio amore per questa poetica così intima ed universale, dicendoti semplicemente che essa è “dono della parola” che in sé cerca e rintraccia le origini del pensiero ed il suo percorso storico ed evolutivo, con il fine di fissare nel senso e valore della memoria, ogni traccia di aberrazione e dolore che l’uomo stesso determina ed ha determinato a se stesso nell’arco della storia, per giungere così al riscatto e alla libertà assolutamente terrena, finita ed umana. Quello che (soggettivamente) leggo è l’uomo che si fa concetto e materia di pensiero, che interrogandosi per mezzo (e “destino”) della “malata” pratica della scrittura, sulle ragioni del dolore e del male, tenta di esorcizzarlo e tramandarlo, facendone dono di memoria non solo intima ma storica. Ma per arrivare a questo, il percorso è lungo e  meditato attraverso la lettura prima ancora che la scrittura, che nel caso di Francesco è frutto di una lunga gestazione che fonde le radici di filosofia e poesia, operando – mi verrebbe da dire alla Zambrano – quella ricongiunzione tra percezione, intuizione e logica catalogazione dei fenomeni, che sembrano così tanto differenziare due discipline poi così simili per sforzi e intime tensioni. “Incontrare” infine la poesia di Char, e ancor più quella di Celan ed intrecciarla nel mio immaginario ai volti dei bambini di Terezin, alle loro poesie, ai loro disegni, alle loro morti innocenti, è stato determinante per sciogliere alcuni nodi alla mia lettura e comprendere il carico di dolore esistenziale di cui Francesco si fa triste portavoce; ma il risultato (mio) resterà comunque sempre un’ombra nell’orma, così come dev’essere ed è inevitabile che sia.

Grazie per avermi dato modo di dire di più, magari non meglio, ma qualcosa in più.

n.

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* Alla base della metrica tradizionale vi sono tre elementi peculiari: verso, rima e strofa. Il verso italiano è caratterizzato da due elementi: il numero delle sillabe che lo compongono e la presenza di accenti ritmici, dal numero delle sillabe che compongono il verso ne deriva il suo nome, che spazia dal bisillabo fino all’endecasillabo, mentre per quanto riguarda gli accenti ritmici, essi posso essere tonici (ossia quegli accenti non necessariamente grafici ma insiti nella pronuncia naturale della parola), o appunto, ritmici, ossia quegli accenti che per scelta del poeta vadano a ricadere su una data parola piuttosto che su un’altra.

Una delle figure retoriche di maggior uso nella versificazione è invece l’enjambement, essa consiste nella incompiutezza della frase espressa in un dato verso che vada continuarsi al principio del verso successivo.

La rima non è altro che la ripetizione del suono finale di due o più parole che generalmente vengono a trovarsi alla fine del verso, essa si basa sul gioco proprio del suono che si torna a ripetere, ma la sua finalità può anche essere quella di dare rilievo espressivo ad un dato termine (rima semantica), creando attraverso la ripetizione fonetica una connessione tra parole affini o addirittura contrastanti.

Pur rispettando le caratteristiche proprie della metrica classica, molti poeti hanno evitato nelle loro opere l’uso della rima, quando avviene ciò – ad esempio basti pensare a “I Sepolcri” del Foscolo – il verso viene definito sciolto.

La strofa invece, è l’insieme di più unità ritmiche, dal numero dei versi che la compongono essa prenderà il nome di terzina, ottava, quartina. L’unione di più strofe dà a sua volta origine a forme poetiche di grande importanza, come ad es. il noto e già citato sonetto e la canzone. Il sonetto è formato da due quartine più due terzine di versi endecasillabi. Mentre la canzone è formata da varie strofe, dette anche stanze, più una strofa finale di struttura diversa, detta di commiato.

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** Quando si parla di metrica barbara invece, appare subito chiaro il riferimento alle “Odi Barbare” del Carducci. Nella seconda metà dell’Ottocento infatti, Carducci si dedicò alla riscoperta della metrica quantitativa di tipo classico, tentando la rielaborazione del pentametro e dell’esametro, rifacendosi agli schemi metrici greci che “misuravano” l’ampiezza del verso in base alla scansione delle sillabe brevi e lunghe che componevano il verso stesso, determinandone la durata della pronuncia. Il nome “barbaro”, lo volle attribuire proprio il Carducci al suo verso, pensando che se gli antichi avessero potuto ascoltare il risultato del suo versificare avrebbero sicuramente giudicato le sue opere come “barbare”, dato l’impuro risultato della sua sperimentazione.

 

Posso ? Applausi a scena aperta, se l'editor di nFA (non se, ma quando) legge questo tuo commento penso debba valutarlo come un post a parte, da editare appunto come post, proprio per la chiarezza e semplicità con cui ti sei espressa.

Ho adesso riletto Marotta e l'ho trovato bello, ma non c'è niente da fare senza la chiave non si entra.

Grazie.

pensan pure che la trocaicita' faccia la usa gran parte