I fatti. Non credo che ci siano dubbi che l'economia della Cina sia un grande successo. Dopo la fame degli anni '50 e '60, ed una notevole variabilità del tasso di crescita negli anni 70, dagli anni 80 in poi il paese ha preso a girare che è uno spettacolo, come si vede dalla figura sotto.
Cina: Tasso di crescita del PIL
Stiamo parlando di tassi di crescita reale del 10%, a fronte di una ridotta crescita della popolazione, come si vede dalla figura sotto. (Come è noto la Cina ha implementato con un certo successo dal 1978 una severa politica di controllo delle nascite - un figlio a famiglia). In altre parole, questi sono (quasi) tassi medi di crescita del reddito per capita!
Cina: Tasso di crescita della popolazione
Il successo economico della Cina è anche ben rappresentato dalla sua bilancia dei pagamenti. La bilancia dei pagamenti di un paese è data dal valore delle esportazioni di beni e servizi meno il valore delle importazioni di beni e servizi. Ebbene, la bilancia della Cina ha presentato attivi enormi (442 miliardi di dollari nel 2009) e apparentemente esplosivi, da metà anni '90. La figura sotto, aggiornata al 2007, rende l'idea.
Cina: Bilancia dei pagamenti
Tipicamente, attivi di bilancia dei pagamenti di queste dimensioni e di questa persistenza nel tempo sono il frutto di una tasso di cambio sottovalutato: gli stranieri trovano prezzi relativamente favorevoli in Cina e i Cinesi trovano prezzi relativamente sfavorevoli all'estero - la Cina di conseguenza esporta molto e importa poco.
Se il tasso di cambio dello Yuan (o Renmimbi) fosse determinato liberamente sul mercato dei cambi, esso subirebbe quindi, con ogni probabilità, pressioni alla rivalutazione. Così non è; cioé, il tasso di cambio dello Yuan non è determinato sul mercato. Non lo è mai stato. Fino agli anni '80 il cambio dello Yuan era fissato a circa 2.5 Yuan per Dollaro. Ma la Cina era allora sostanzialmente chiusa al commercio internazionale e quindi il cambio era essenzialmente irrilevante. Al mercato nero lo Yuan perdeva valore fino al 1994, quando fu ufficialmente svalutato, a 8.6 Yuan per Dollaro. Da allora il governo cinese essenzialmente lo controlla con operazioni finanziarie sul mercato internazionale (lo Yuan non è convertibile).
Una leggerissima rivalutazione si osserva, nei dieci anni che seguono la svalutazione, ma occorrono gli occhiali; come si vede dalla figura sotto.
Tasso di cambio Yuan per Dollaro
Dal 2005 a oggi lo Yuan si è rivalutato ancora un po', sempre lentamente - ma un po' meno lentamente che nel passato: a oggi il cambio è di 6.7 Yuan per Dollaro.
Come hanno reagito economisti, politici, intellettuali a questa situazione economica internazionale: crescita rapida e sbilanci di commercio? Categorizzo le reazioni come segue.
La deriva protezionistica. Il dibattito sugli effetti economici del successo della Cina e soprattutto della sua bilancia dei pagamenti, è partito per la tangente, con una chiara deriva protezionistica. Un buon esempio di questa deriva è naturalmente, in Italia, la polemica suscitata dal ministro Tremonti con il suo libro su La paura e la speranza; dove la paura è la paura della Cina e la speranza è che il sistema politico europeo ci sappia proteggere dalla Cina stessa (si parla di protezione economica, naturalmente, non militare). Non voglio infierire sul ministro Tremonti nella sua veste di economista e acuto intellettuale, perché lo abbiamo già fatto. Ma la deriva protezionistica non è limitata alla periferia dell'impero, dove abita il ministro. La reazione nel centro del centro dell'impero è esemplificata da Paul Krugman sul NYTimes:
This [the Chinese one; ndr.] is the most distortionary exchange rate policy any major nation has ever followed. And it’s a policy that seriously damages the rest of the world. China, by engineering an unwarranted trade surplus, is in effect imposing an anti-stimulus on these economies, which they can’t offset. [...] we’ve been reasoning with China for years, as its surplus ballooned, [...]
It’s time to take a stand.
Non per nulla il Congresso ha appena passato una legge che, se passasse anche al Senato (cosa che succederà con ogni probabilità) darà al Ministero del Commercio estero il potere di attivare politiche protezioniste - leggi tariffe - nei confronti di quei paesi che mantengano il proprio tasso di cambio artificialmente sottovalutato - leggi la Cina.
La deriva interventistica (fino a diventare autocratica). La seconda reazione al successo della Cina è stata la rivitalizzazione di posizioni intellettuali interventiste - in politica economica in generale, non solo con riguardo ai tassi di cambio e alla politica commerciale. Queste reazioni sono generalmente supportate da giustificazioni del tenore di "vedi il successo della Cina, che tutto controlla e che produce eventi (Olimpiadi, Expo,...) e infrastrutture (autostrade, linee della metropolitana, treni veloci,...) come se piovesse; altro che mercati". I più arditi tra i commentatori arrivano, con simili giustificazioni, a cantare le doti di sistemi politici autocratici, di fronte a democrazie impallate e confusionarie. Un esempio è Anatole Kaletski, capo-economista di una società di consulenza basata ad Hong-Kong e autore di un libro su Capitalism 4.0: The Birth of a New Economy in the Aftermath of Crisis. Con riferimento ad un recente intervento sul mercato dei cambi del Giappone, Anatole Kaletski sul NYTimes scrive:
With Chinese economic policy now serving as a model for other Asian countries, Japan was faced with a stark choice: back United States criticisms that China is artificially keeping down the value of its currency, the renminbi, or emulate China’s approach. It is a sign of the times that Japan chose to follow China at the cost of irritating America.
Si potrebbe commentare che egli vede forse troppo in un singolo intervento valutario del Giappone. Ma è proprio da qui che invece il suo ragionamento prende una deriva interessante:
Japan’s action suggests that, in the aftermath of the recent financial crisis, the dominance of free-market thinking in international economic management is over. Washington must understand this, or find itself constantly outmaneuvered in dealings with the rest of the world. Instead of obsessing over China’s currency manipulation as if it were a unique exception in a world of untrammeled market forces, the United States must adapt to an environment where exchange rates and trade imbalances are managed consciously and have become a legitimate subject for debate in international forums like the Group of 20.
E ancora:
The fact is that the rules of global capitalism have changed irrevocably since Lehman Brothers collapsed two years ago — and if the United States refuses to accept this, it will find its global leadership slipping away. The near collapse of the financial system was an “Emperor’s New Clothes” moment of revelation.
Ed ecco la deriva autocratica: gli uomini veri governano col pugno di ferro - come i cinesi - mentre gli amerikani non sono che dei mollaccioni.
Sarebbe fin troppo facile prendersela con l'arroganza battagliera di Krugman e del Congresso e con i voli logico-pindarici di Kaletski. Ma argomenti di questo tipo si sentono in continuazione. Nel mio piccolo modesto mondo, ad esempio, almeno due giornalisti mi hanno telefonato la settimana scorsa cercando di farmi dire esattamente questo. Non solo, ma questa è anche la posizione che molti economisti in Cina (vabbé il paio che ho sentito io) sembrano sostenere. Ad una recente cena a Shanghai, due economisti di Fudan University (uno dei quali mio ex-studente, e quindi diretto e aperto con me) hanno preso questa posizione con passione e senso dell'umorismo. Riguardo all'autoritarismo del governo la reazione è stata:
We got unlucky with the first one, but the second was a genius,
suggerendo che non c'è ragione per cui non possa continuare la botta di fortuna (iniziata con Deng, per coloro che hanno perso la battuta).
Riguardo alla possibilità che la Cina possa continuare a crescere, la reazione è stata che l'unico problema potrebbe essere la disponibilità di materie prime, ma
We just bought Australia! [risate generali, ndr.] Seriously, we did.
E allora vale forse la pena di provare ad argomentare che entrambe le reazioni ai fatti, sia quella protezionistica che quelle autocratica, sono ingiustificate. Non sono certo l'unico a sostenere una posizione di questo tipo. A me pare che Gary Becker sul WSJournal lo abbia fatto con chiarezza. Ma anche Becker tende a lasciarsi andare a posizioni ideologiche e apodittiche:
No country in the modern world has managed persistent economic growth without considerable reliance on private enterprise and decentralized private markets. All centrally planned economies failed to achieve sustained development, including the Soviet Union before its collapse, China before market reforms began in the late 1970s, and Cuba since Castro's revolution in the late 1950s.
(Prendi e porta a casa, caro Kaletski!) Proverò quindi a spingere un po' gli argomenti di Becker (il sogno della mia vita: fare l'assistente di Becker - e nemmeno scherzo).
Alcune cosette che sappiamo di economia. Non ho alcuna intenzione di vendere “leggi economiche”. Però un paio di “cosette” che sappiamo ci sono. Sapere - in economia - significa avere una teoria (coerente con i requisiti che la disciplina richiede) e dati solidi a supporto delle implicazioni della teoria stessa. E’ il meglio che possiamo fare. Può sempre succedere che le teorie diventino obsolete, perché i requisiti richiesti dalla disciplina evolvono, o che nuovi dati invalidino quelli precedenti. Ma è comunque meglio che (far finta di) non riconoscere quello che sappiamo, per lasciarsi andare ai pregiudizi ideologici o alla paura.
Provo a fare una lista delle cosette che sappiamo e che sono rilevanti per la questione della Cina.
1. Rendimenti decrescenti e convergenza nei tassi di crescita. La crescita di un paese è ostacolata da rendimenti decrescenti (cioé rendimenti di scala costanti con uno o più fattori relativamente fissi). Come conseguenza, ci aspetteremmo tassi di crescita più alti per paesi relativamente in via di sviluppo rispetto ai paesi più sviluppati, diciamo i paesi OCSE. Il primo modello di crescita moderno, dovuto a Bob Solow, ha essenzialmente formalizzato questo punto, generando l’implicazione che i tassi di crescita dei paesi tendano a convergere. Naturalmente le cose non sono così semplici, l'evidenza empirica della convergenza nei tassi di crescita è abbastanza elusiva (e non è chiaro se la convergenza si abbia a zero, o a un tasso di crescita positivo costante). Alcuni modelli implicano o assumono rendimenti crescenti ed esternalità, trappole di crescita e altre amenità. Le “trappole” sono importanti, perché è ovvio che molti paesi in via di sviluppo non crescono affatto. Ma quando escono dalla trappola ... i rendimenti decrescenti iniziano a operare. Che i rendimenti decrescenti siano una forza fondamentale da affrontare nei processi di crescita è una di queste “cosette” che sappiamo. Gli economisti fanno fatica a predire quando un paese inizi a crescere, ma si aspettano che quando questo succede la crescita sia rapida e poi lentamente si riduca. Questo è successo/sta succedendo ovunque. La mappa del mondo sotto (dati Wolfram alpha), relativa al 2009, dimostra che tassi di crescita relativamente elevati (è un anno di crisi) - diciamo l’area ocra - si hanno a sprazzi in Africa, Sud-est Asia e anche America Latina e Centrale.
Mappa dei tassi di crescita nel mondo
Per chi preferisce serie storiche, ecco i tassi di crescita di Israele, ovviamente “in via di sviluppo” nel dopoguerra; e dell’Italia, che anch’essa partiva indietro rispetto al resto dell’Europa dopo la guerra (dati Penn World Tables; sapessi come presentare medie per stirare i dati senza perdere un pomeriggio lo farei - e cosi' ve li beccate rozzi - stirateli con gli occhi, per favore).
Un altro esempio interessante, Taiwan dagli anni ‘70 in poi.
Potrei continuare. Preferisco invece ripetermi per chiarezza: non intendo argomentare che rendimenti decrescenti siano l’unica o anche solo la più importante forza che agisce sulla crescita; dico che è una forza importante, di cui è necessario tener conto nell’analisi dei processi di crescita.
2. Vantaggi da free-trade. I “gains from trade” di Ricardiana memoria sono anche essi una delle “cosette” che sappiamo. Anche qui, la teoria naturalmente ha esplorato situazioni nelle quali l’apertura al commercio internazionale può avere effetti perversi, negativi, per una parte o anche tutti i paesi che si aprono. Tutto interessantissimo, ma i “gains from trade” sono ancora una volta uno degli effetti fondamentali del commercio internazionale. Lo sono teoricamente ed empiricamente. Per varie rassegne della correlazione tra apertura al commercio e crescita, si veda qui e qui e qui e qui,..
Uno dei migliori argomenti, in principio, a favore del protezionismo come misura temporanea, è quello detto dell’industria nascente: Agli albori dello sviluppo di un paese, le imprese manifatturiere sono tipicamente non competitive rispetto a quelle del resto del mondo (ad esempio per mancanza di capitale, conoscenze, infrastrutture) e quindi è buona cosa proteggerle fino a quando non possano competere da sole. Questa è una strategia provata ovunque negli anni 60 e 70, con scarso successo, dal Sud Italia all'Africa all'America Latina. Un bel racconto dei fallimenti di questa argomentazione - nei dettagli - è il libro di Bill Easterly:
La ragione per cui la strategia è fallita, tipicamente, è che una volta protette le industrie rimangono dipendenti dai sussidi, nella forma di sussidi diretti o di cambio sottovalutato, e non arrivano mai a competere alla pari col resto del mondo.
3. Inefficienza degli oligopoli protetti. Onestamente non vorrei nemmeno discutere questo punto, scrivendo nella lingua del paese che ha prodotto e mantenuto l’IRI (e le partecipazioni statali in generale; ma anche la Fiat). L’oligopolio è inefficiente per conto suo - perché permette alle imprese, grazie al loro potere di mercato, di ridurre a proprio profitto la quantità prodotta. Se poi è sussidiato o protetto secondo l’(ir)ragione politica invece della ragione economica, allora le distorsioni si cumulano e l’inefficienza esplode.
L’argomento principe (unico) a favore dell’oligopolio è quello che esso sia necessario per permettere alle imprese di recuperare ex-post i costi della loro attività innovativa (brevetti, etc.). Questo argomento, anche a volere essere molto cauti, è estrememente debole empiricamente. Come molti sanno, Michele docet:
4. Governi autocratici, probabilmente, non aiutano la crescita nel medio-lungo periodo. Questo è un punto delicato. Per questo ho aggiunto il “probabilmente”. La teoria sul rapporto tra democrazia e crescita è debole debole. Mi par ragionevole ipotizzare che il rapporto, se esiste, non sia lineare. L’analisi empirica invece è nella gran parte composta di regressioni lineari che comunque, in quanto regressioni, mostrano solo una correlazione tra democrazia e crescita. Tale correlazione appare (debolmente) positiva, come si vede dalla figura.
Robert Barro, che di queste regressioni è uno degli autori più convinti, riassume così i risultati:
These results strongly confirm the idea that a higher standard of living goes along with more democracy. Moreover, the effects are predictive.
Ma queste regressioni sono silenti sulla direzione del rapporto causale, tra democrazia e crescita, che è quello che ci interessa: è la democrazia ad aiutare la crescita, o è la crescita che induce una domanda per la democrazia (che viene poi soddisfatta, pacificamente o come effetto di una rivoluzione)? Non lo sappiamo. Non sappiamo nemmeno se la domanda sia ben posta. Ma sappiamo che la correlazione non è negativa.
Cosa ci dicono allora queste cosette che sappiamo di economia? Ci suggeriscono che gli inni alla forza distruttrice della Cina potrebbero essere mal riposti. Ma anche senza l’abilità di utilizzare la “sapienza” economica per analizzare le questioni geo-economiche del momento, basterebbe saper imparare dai propri ed altrui errori passati. Qualcuno si ricorda il Giappone negli anni '70 e '80? Niente male come crescita, come si evince anche dalla figura sotto. Non sarà la Cina, ma... davvero niente male. Nel periodo inserito nella finestra rossa del grafico, tra il 1970 e il 1990, il Giappone ha fatto molto bene. Poi no. Ma entriamo un po' più in dettaglio.
Giappone: Tasso di crescita del Pil
Qualcuno ricorda gli strilli di politici, intellettuali e giornalisti sulla necessità di proteggersi dal Giappone nel corso degli anni '80? Per non parlare delle società di elettronica e dei sindacati dell'automobile. [Ricordo male io, o Krugman - che allora era e ragionava da economista - era contro tariffe e altre amenità?] E tutte le acute osservazioni sul fatto che i giapponesi supportavano la propria industria, maledetti, e noi (amerikani) invece lasciavamo la nostra al proprio (triste) futuro. Addirittura Ronald Reagan - dico Reagan, proprio lui - all'inizio degli anni '80 dichiarava, parlando a Detroit (!):
"Japan is part of the problem. This is where government can be legitimately involved. That is, to convince the Japanese in one way or another that, in their own interests, that deluge of cars must be slowed while our industry gets back on its feet..."
E poi impose una tariffa del 100% su alcuni prodotti elettronici. [Ah, forse Krugman non era contro le tariffe, ma semplicemente contro Reagan. Direi che Occam sta dalla parte di quest'ultima spiegazione.]
E tutti quei discorsi sulla governance delle grandi imprese giapponesi che ci affonderanno? La cultura manageriale giapponese, tutta fatta di lavoro a vita, alti salari, fedeltà all'impresa, ginnastica al mattino al suono dell'inno dell'azienda ... altro che questi egoisti edonisti amerikani, che non hanno più valori, che disperatamente e tristemente vanno al bowling da soli. E i keiretsu(系列), gruppi supportati dal governo, grandi imprese che agiscono in sintonia con il governo stesso nel controllo dell'economia. Tutta questa struttura da macchina da guerra che avrebbe affondato l'occidente. E la bilancia commerciale, naturalmente: il Giappone ha continuato ad accumulare avanzi annuali di circa 40-50 miliardi di dollari per tutta la seconda parte degli anni 80. Qualcuno vuole spezzare una lancia per l'industria giapponese e i suoi successi, ora? L'industria giapponese va meglio del paese nel suo complesso, ma comunque l'indice della produzione industriale, fatto 100 nel 1995, era 103 nel 1990 e 98 nel 1998 (i dati sono di fonte OCSE, ma quelli riportati sono di seconda mano, che il sito OCSE ha dei problemi - non appena possibile aggiorno con dati freschi).
Oops, l'84% del reddito pro-capite amerikano non è poco, ma molto meno del 150% raggiunto a metà anni 90. Qualcuno vuole alzarsi e raccontarci cos'è successo alle banche giapponesi da 15 anni moribonde? Il 4 Ottobre il Financial Times riportava, ad esempio, la notizia seguente:
The Topix Bank Index in Japan just closed at an all-time low, lower than during the financial crisis.
Per non parlare dell'efficienza del sistema produttivo. Il "lean manufacturing" di Toyota pubblicizzato da John Krafcik in "Triumph of the Lean Production System," per la Sloan Management Review, 1988. Forse è un colpo basso, ma vogliamo parlare dell controllo qualità di Toyota, oggi?
Insomma, è ovvio che il fatto che il terrore per la crescita del Giappone fosse malriposto non dimostra in principio che sia malriposto anche il terrore per la crescita della Cina. Se è per quello, anche il Giappone potrebbe risvegliarsi da un momento all'altro. Per non parlare della Turchia, mamma li turchi!! Però il terrore per la crescita del Giappone era dovuto proprio al mancato riconoscimento delle cosette che sappiamo (e sapevamo) di economia. Da lì provenivano gli errori E gli errori tali sono, anche se giustificati e avvolti dalla paura. Gli urli al protezionismo nel caso del Giappone dimenticavano che free-trade dà vantaggi, di solito; e le grandi imprese protette dallo stato invece sono inefficenti. E questo era il sistema produttivo giapponese che tanto temevamo. Il Giappone quindi, proteggendo le proprie imprese faceva del male a se stesso, non agli Stati Uniti.
E questo sì è lo stesso per la Cina, oggi. E lo so, lo so, la Cina ha uno zilione di abitanti! Mi esce dalle orecchie il mantra dello zilione di abitanti. È vero, nessuna intenzione di dubitare dei conti dei demografi, ma il numero di abitanti nulla ha a che fare con il fatto che la Cina è un paese in via di sviluppo e quindi gode del vantaggio di rendimenti decrescenti (anzi, lo zilione di abitanti rende questo argomento molto più rilevante), e che l'oligopolio semi-statale non funziona. La questione del numero di abitanti mi pare sabbia negli occhi lanciata dal bambino che ha finito gli argomenti, giusto prima di tornare in lacrime dalla mamma sotto l'ombrellone.
E veniamo al tasso di cambio dello Yuan. È sopravvalutato. E tale sopravvalutazione è alla radice dell'avanzo commerciale della Cina. Siamo tutti (credo) d'accordo. Questa è un'indiretta misura protezionistica della Cina. Ma mentre a tutti questa sembra buona ragione per tirare fuori i carri armati, ad un economista questo dovrebbe parere proprio il primo segnale importante che l'oligopolio semi-statale non funziona nemmeno in Cina. Il cambio sopravvalutato per la Cina significa vendere i propri manufatti a basso prezzo e pagare cari quelli degli altri. Messa così non pare una gran mossa di strategia militare. Ed infatti non lo è. C'è una sola giustificazione per una strategia di questo tipo, atta al mantenimento del cambio debole: si chiama protezione dell'industria nascente. Abbiamo già visto che non funziona. La politica del cambio della Cina, nel lungo periodo danneggia soprattutto la Cina (nel breve periodo danneggia i lavoratori nell’Occidente che competono con i Cinesi; problema grosso di cui non discuto qui, perché mi sono posto l’obiettivo di affrontare soprattutto gli argomenti di lungo-periodo - quasi millenaristici - che si continuano ad ascoltare).
E guarda caso, ma proprio per caso, la situazione in Cina è esattamente questa: le grandi imprese semi-pubbliche chiedono al governo che le supporta di non permettere una rivalutazione dello Yuan perché non sarebbero competitive altrimenti e sarebbero costrette a licenziare in massa. Tout se tien: il protezionismo, le grandi imprese oligopolistiche, e semi-pubbliche, che portano un paese alla rovina.
E poi tutti questi argomenti in osanna ai meravigliosi risultati dell’interventismo cinese sembrano dimenticare opportunisticamente due fatti della recente storia economica della Cina (niente di sofisticato, che io ne so pochissimo):
1. La crescita della Cina è iniziata a Shenzhen, con la creazione di una "zona economica speciale" di free-trade nel 1961, e la metafora del gatto di Deng (il genio di cui sopra):
non importa se sia bianco o nero, basta che prenda i topi.
E ne ha presi di topi,
a giudicare dal comune di Shenzhen.
2. La seconda botta di crescita viene dalla creazione della nuova area di Pudong (cioé la liberalizzazione dell'economia di Shanghai) del 1992, associata a un'altra affermazione del nostro genio, questa volta più diretta, senza metafore, e forse apocrifa:
diventare ricchi è glorioso.
E così è stato,
a giudicare da cosa è diventato Pudong. Ma altro che interventismo. Libero mercato puro e duro.
Passiamo poi all'autocrazia. Ebbene sì, la Cina ha un regime autocratico. Come dicono gli amici cinesi già citati sopra quando gli occidentali si stupiscono per l'efficienza e la qualità delle infrastrutture,
it helps not having a political opposition.
Un mio studente cinese ama raccontare a mò di parabola la storia di un agricoltore del suo villaggio che alla richiesta di esproprio del suo terreno da parte del governo rispose "over my dead body" (in Cinese, in italiano non esiste) e il giorno dopo si trovò sotto uno schiacciasassi ed ora riposa sotto il manto dell’autostrada.
È chiaro che un sistema autocratico aiuta a organizzare Olimpiadi spettacolari ed efficienti. E mi pare anche che, quanto a sistemi autocratici, quello cinese sia abbastanza efficiente. I leader politici sono ingegneri e probabilmente molto intelligenti (anche qui aiuta non avere una opposizione) e non sembrano avere particolare tendenza a investire mogli, amanti, figli, figlie, nipoti di posti al sole del potere. Ma i regimi autocratici hanno tendenze faraoniche, fanno bene le cose grandi ma non quelle piccole. Siamo proprio sicuri che per la Cina sia diverso?
PS Michele mi fa notare giustamente che la risposta implicita alla questione cinese in questo post e' "aspettate e verranno giu' anche loro". Il che e' vero, ben detto. E' vero anche che forse molti di noi non hanno nessuna voglia di aspettare 30 anni. Non credo ci sia molto altro da fare. Ma se ci fosse, sentiamo le proposte, senza drammatizzare la questione, invidiare l'autocrazia, o il socialismo capitalista, o il protezionismo. Io per ora ho sentito solo tutte ste cose qua, in una qualche combinazione. Proposte per limitare i costi mentre aspettiamo non ne ho sentite. Io aspetto.
Quando ero in Cina, non trovai il sistema economico così efficiente. Sì, è vero, costruivano palazzi e ponti ogni tot mesi, ma non ho visto molto altro.
Per dire, rimasi di stucco a sapere che una piccola azienda cinese che conobbi andava avanti per autofinanziamento. Poi, ho letto un po' in giro e pare che le banche in Cina finanzino principalmente le società statali o ex statali.
Poi, vogliamo parlare di innovazione? Io non ho ancora ben capito dove sia l'innovazione in Cina e se ci sono le condizioni per crearla. A me pare che l'individuo sia incentivato a farsi i cazzi suoi e trovare sempre qualche politico/potente che lo aiuti. Insomma, se c'è o ci sarà innovazione in Cina, non penso verrà dalle stesse condizioni di quella che vediamo in Occidente.
Infine, quanta parte della crescita cinese dipende dagli investimenti esteri? Perché da quello che ho capito la percentuale è grossa (a 2 cifre). Io non so fino a che punto questo sia "strategico". Primo, fa dubitare della "pura" crescita cinese. La Cina è stata capace di attrarre investimenti, questo si, ma di produrre innovazione e tecnologia? Secondo, bisogna capire come queste società estere son state convinte ad andare in Cina. Se questo vantaggio comparato della Cina è acquisibile facilmente da altri Paesi, il rischio che gli investimenti esteri diminuiscano in futuro è forte.