Se la realtà si conforma ai “desiderata” del governante di turno, e se tali “desiderata” risultano ben indirizzati - i direttori sono stati scelti bene, come dimostra il buon lavoro che hanno svolto - le norme dell’ordinamento paiono rappresentare solo un inutile intralcio. Questo “ragionamento” potrebbe anche funzionare, in un mondo ideale in cui i governanti fossero sempre orientati al miglior risultato. Purtroppo questo non è quel mondo e i governanti nostrani paiono spesso più orientati al proprio tornaconto; spesso infatti fan guai, anche duraturi. Dunque, è pericoloso avallare tale “ragionamento”. Le norme servono ad attenuare il rischio che i decisori pubblici agiscano a proprio piacimento; e se non funzionano a dovere vanno cambiate, non aggirate o violate. In sintesi, “rottamare” lo stato di diritto appare un po’ azzardato.
Ciò premesso, l’impeto con cui esponenti dell’esecutivo si sono affrettati a stigmatizzare l'operato del TAR - fino ad ipotizzarne l’abolizione – fa sorgere qualche dubbio: non si tratterà del solito scarica-barile, in stile nazional-popolare, con cui i governanti cercano di colpevolizzare qualcun altro per l’incertezza del diritto che essi stessi concorrono a creare? Le regole il cui rispetto i tribunali devono verificare - su istanza di cittadini che si ritengono danneggiati - vengono oggi per lo più scritte da esponenti dell’esecutivo. Questi ultimi possono considerarsi “assolti” perché redigono norme di qualità eccellente, dunque autorizzati a dare lezioni ai magistrati?
Per rispondere positivamente, essi (politici, governanti o meno) dovrebbero essere artefici di “buona regolazione”, cioè – tra le altre cose – di norme supportate dalla valutazione preventiva di diverse opzioni d'intervento (anche al fine di appurare se un'azione del legislatore sia realmente necessaria); accompagnate dalla previa analisi ragionata di costi-benefici e dalla stima degli oneri (amministrativi, burocratici, fiscali ecc.) che ne deriveranno; precedute dall’acquisizione di informazioni anche attraverso pubbliche consultazioni; funzionali a raggiungere i fini prefissati, sulla base di motivazioni trasparenti; proporzionate al risultato che intendono perseguire; inserite armonicamente nell’ordinamento, per evitare discrasie e contraddizioni; comprensibili agevolmente ai destinatari; munite di strategie di implementazione; sottoposte a verifiche ex post e a periodiche revisioni.
Tutto questo non è un’opinione personale, ma quanto indicato dall’Ocse ai fini del miglioramento della qualità della regolamentazione (la checklist allegata alla Raccomandazione del 1995 resta un ineludibile punto di riferimento), nonché dall’Unione Europea (v. documenti in tema di better e smarter regulation, di semplificazione, di adeguatezza ed efficacia della regolamentazione ecc. negli ultimi 25 anni circa). E l’elencazione suddetta non è un enunciato astratto, bensì il concreto modus operandi dei regolatori in ordinamenti più evoluti. In quegli ordinamenti, organismi indipendenti (c.d. oversight bodies) assicurano il rispetto dei canoni di buona regolazione (tra gli altri, l’Office for Information and Regulatory Affairs statunitense, il Regulatory Policy Committee britannico, il Nationaler Kontrollrat tedesco o il Better Regulation Council svedese).
E in Italia? Partiamo da quest’ultimo profilo, vale a dire il controllo sulla qualità degli atti normativi del governo: viene svolto non da valutatori autonomi, bensì da un ufficio interno al governo stesso, il Dipartimento Affari Giuridici e Legislativi (DAGL) presso la Presidenza del Consiglio. La sostanziale sovrapposizione tra controllante e controllato non è certo un buon in(d)izio. Quanto agli strumenti di better regulation, esistono anche in Italia da almeno un decennio: servono a valutare gli effetti della regolazione ex ante ed ex post (AIR e VIR), a controllarne la coerenza rispetto a norme e a pronunce giurisprudenziali, interne e internazionali (ATN), a misurare gli oneri amministrativi, cioè gli adempimenti burocratici, a carico di cittadini e imprese (MOA). Purtroppo, si tratta di strumenti poco e male utilizzati: e anche questa non è un’opinione personale, bensì quanto attestato da anni nella Relazione sullo stato di applicazione dell'analisi di impatto della regolamentazione. Se un’analisi consistente nella “valutazione preventiva degli effetti di ipotesi di intervento normativo (…) mediante comparazione di opzioni alternative” si risolve di fatto in “un documento redatto dopo il percorso di elaborazione del provvedimento” (sottolineature di chi scrive), “senza prestare la dovuta attenzione agli impatti” e trascurando “gli aspetti socio-economici” del provvedimento cui si riferisce, appare chiaro il motivo per cui normative molto vantate preventivamente si sono poi dimostrate dei flop (annunciati da quelli che le analisi le fanno davvero, e in maniera indipendente). Quanto alla verifica ex post (i.e. manutenzione) delle regole già esistenti - utile ad accertare se esse servano ancora o vadano eliminate, se richiedano modifiche o integrazioni che le rendano più efficaci – l’affastellamento di leggi oggi esistente dimostra che non viene fatta.
Tuttavia, recentemente, essa è stata utile a camuffare i ben 400 correttivi – una vera e propria “riscrittura” – al codice degli appalti: altro che manutenzione, verrebbe da dire. Per quanto riguarda il controllo di coerenza, sopra citato, il caso dei direttori dei musei ha reso palese quanto basta. Infine, circa la misurazione degli oneri amministrativi, per i quali dal 2012 vige la regola del one in one out – nessun nuovo onere senza la riduzione/eliminazione di altri di pari peso – basterebbe l’esperienza individuale per capire come e quanto la regola (non) venga rispettata: ma, pure in questo caso, un’apposita relazione annuale del Dipartimento della Funzione Pubblica ne fornisce conferma.
In base a quanto esposto, appare chiaro il motivo per cui la normativa nazionale continua a essere sovrabbondante (regulatory inflation), oltre che mutevole, farraginosa e poco coerente (regulatory pollution). Anche stavolta non si tratta di un’opinione personale, ma di quanto attestato dal Comitato per la legislazione il quale, nell’ultima relazione (2016), rileva che la regolazione “resta volatile, stratificata, difficile da attuare” e “non sempre corredata degli opportuni coordinamenti”: “si procede o in via incrementale e/o per successivi aggiustamenti”; permangono “discipline a carattere derogatorio, temporaneo, transitorio o sperimentale, poi magari di volta in volta prorogate”; si eccede nell’uso di “termini stranieri, di locuzioni non appartenenti al linguaggio giuridico o formulazioni generiche, di non univoco significato o non direttamente applicabili” e molto altro. E ciò viene rimarcato pure dall’Osservatorio per la legislazione il quale, nel Rapporto 2015-2016, evidenzia che “la volatilità delle decisioni legislative, l’oscurità del linguaggio normativo e la necessità di numerosi provvedimenti attuativi provocano incertezza negli operatori e nei cittadini”.
Stante tutto questo, è forse ora più chiaro che esponenti dell’esecutivo, così bravi a dare lezioni a terzi, non possono credersi assolti per quell’incertezza del diritto che in Italia è tra le poche cose certe. A pensarci bene, viene un altro dubbio: (annunciare di voler) modificare (o addirittura abolire) i TAR, senza tagliare, armonizzare e semplificare la legislazione vigente, entro cui i giudici devono districarsi, è segno di ignoranza, mala fede o qualcos’altro? Ah, saperlo….
* Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono l’istituzione per cui lavora.
"Oggi, un giudice come me, lo chiede al potere se può giudicare. Tu sei il potere. Vuoi essere giudicato? Vuoi essere assolto o condannato?"
Siamo proprio sicuri che sia sempre colpa del potere se non si trova un giudice fino a Berlino? Sono centinaia le sentenze politiche pronunciate da Magistrati in carriera, ribaltate da altri Magistrati in carriera, e dire che la legge è sempre la stessa.
Tutti in buona fede per definizione?
Cordiali saluti
P.S.
Cacciare la testa sotto la sabbia sostenendo che il legislatore lavora male sembra la solita auto-assoluzione di categoria; tutto l'articolo è strutturato su questo tema: nessuno si permetta di dare lezioni ai Magistrati, vincitori di un concorso ed inamovibili vita natural durante.
La Magistratura italiana è ottocentesca, bizantina, inefficente, incoerente ed autoreferenziale, il processo civile è una barzelletta lunga anni che non fa nemmeno ridere: avrà giustizia chi ha soldi per aspettare.
I risultati di tutto questo si vedono: una foresta pietrificata, il paradiso degli ultra-conservatori. Dare la colpa agli altri non attacca più, la Costituzione assegna ai Magistrati il colpito di riformarsi, sarebbe ora che scoprissero il nuovo millennio, quello in cui i musei li dirige chi è bravo, non chi è in fila da tanto tempo (pagato, non stanno in fila gratis come i turisti che pagano loro lo stipendio).
...nessuno di quelli che, violando ogni canone di migliore/intelligente regolazione, non dimostra di essere migliore.