Appunti di Teoria della crescita. Preliminari: Esternalità

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Da tempo svariati lettori mi chiedono di scrivere qualcosa sul tema "teoria della crescita". L'argomento è delicato assai e, pur essendomene occupato per or sono 35 anni, ho sempre glissato. Troppo complicato e controverso. Nei mesi recenti, quasi sicuramente perché ho smesso di far ricerca attiva sul tema, m'è cresciuto l'interesse per un sunto che esponga quelli che a me sembrano i bandoli d'una intricata matassa multicolore. Che siamo ben lungi dallo sbrogliare. Comincio con un argomento teorico ancillare, però rilevante per poter capire quello ch'è successo negli ultimi 30 anni nel campo di ricerca di cui poi mi voglio occupare più attentamente, ossia la teoria della crescita economica.

Queste note sono state scritte parecchi anni fa. Ho deciso di preservare l'incipit polemico perché testimonia la situazione del tempo, che oggi è cambiata. Anche questo è un indicatore delle "mode" che spesso afferrano l'attività dei ricercatori e che giudichiamo, ex post, averci fatto sprecare grandi energie su problemi privi di effettiva rilevanza pratica e teorica. Ma le mode ci sono ed è meglio averlo in mente quando si cerca di valutare quanto "rilevante" sia una ricerca o meno. Ok, let's go.

Il teorizzare esternalità ad ogni pié sospinto è diventata un'abitudine dannosa ed infettiva che è oramai ovunque. Le esternalità spiegano tutto: dalla mancanza di crescita alla crescita, dalle politiche economiche (sono tutte praticamente ottime perché per ognuna c'è l'esternalità giusta) alla dipendenza dalle condizioni iniziali, gli equilibri multipli e quello che volete voi. Per carità, a volte (lo vedremo in seguito) l'uso delle "esternalità" per spiegare un certo fenomeno sembra legittimo e financo utile. Ho anche io la mia lista di pubblicazioni in cui "gioco" con le esternalità anche se, praticamente sempre, per provare che o ben portano ad una notte in cui tutte le vacche sono grigie o ben portano alle stesse conclusioni a cui si arriva con modelli ed argomenti più semplici e trasparenti. Ma di questo in futuro.

Che le esternalità siano il famoso can opener che apre tutte le porte, lo dubito assai. E non per pregiudizio (a suo tempo ne fui brevemente fascinato pure io) ma a ragion veduta: nell'ambito della teoria della crescita, e della macroeconomia più in generale, pur essendo state usate per teorizzare praticamente quasi tutto non hanno "spiegato" nulla. Qui la parola "spiegato" (sulla quale tornerò nelle prossime puntate) vuol dire in breve: prodotto delle previsioni che siano empiricamente testabili e che, quando testate, non vengano grossolanamente rigettate dall'evidenza empirica. Dopo trent'anni e centinaia di modelli dinamici con esternalità siamo, praticamente, al punto di partenza. Poiché le esternalità han giocato un ruolo cruciale negli studi teorici sulla crescita economica a partire dalla metà degli anni '80 - sino a circa un lustro, forse un decennio, fa - mi è sembrato utile illustrare cosa siano e come si manipolino teoricamente prima di discutere i problemi specifici della growth theory. 

Definiamo anzitutto la parola esternalità per i non economisti. Il classico esempio (dovuto a James Meade) è il seguente. Il frutticoltore A possiede un frutteto che coltiva al fine di raccogliere mele che porta al mercato e vende. L'apicoltore B alleva api per fare il miele, che pure vende. I due vivono contigui, non si conoscono, né si parlano, odiano o amano, insomma: sono indifferenti l'uno all'altro. Come conseguenza indiretta ed involontaria del fatto che A possiede un frutteto, quando gli alberi fioriscono le api che B alleva hanno libero accesso al polline e questo facilita la produzione di miele. Quindi B riceve un vantaggio economico da ciò che fa A, non paga per esso, né A lo fa intenzionalmente per fargli un favore. Quindi non ci guadagna nulla. Poiché il vantaggio che B riceve dai fiori di A non viene pagato da B ad A, A produce involontariamente qualcosa che ha valore sociale (B fa parte della società, dopo tutto) ma per la quale non viene compensato. Quindi ne produce troppo poco rispetto a quanto sarebbe socialmente desiderabile: se egli ricevesse, in una qualche maniera, una compensazione per l'extra miele che B ottiene dai suoi fiori, forse pianterebbe più alberi. Diciamo quindi che vi è un'inefficienza, perché la quantità di alberi coltivati è inferiore alla quantità socialmente ottima che tiene conto sia delle mele di A che dell'extra miele di B. Un ragionamento analogo vale per le api di B: poiché la loro attività favorisce l'impollinazione, A vorrebbe ve ne fossero di più ma, di nuovo, poiché A non ha maniera di pagare B per questo lavoro, B alleva meno api di quanto sarebbe socialmente desiderabile. Questo è un esempio di esternalità positiva.

L'esempio di esternalità negativa è più facile e più frequente, in quanto i fenomeni di congestione ed inquinamento sono quotidiani. Ogni volta che guido la macchina contribuisco all'intasamento del traffico e faccio danni agli altri, involontariamente, senza compensarli e senza che mi venga fatto pagare alcunché per questo danno. Il che giustifica le tasse d'accesso ai centri delle grandi città. Notate subito un particolare che, nel caso delle esternalità negative, si vede ad occhio nudo mentre, con quelle positive, si nasconde. È sempre vero, in principio, che l'esternalità si produce perché qualcosa di utile e scarso (l'aria, in questo caso, o lo spazio in centro città) non risulta proprietà di alcuna persona. Sia l'aria che lo spazio in centro città sono di tutti, quindi di nessuno. Per questo ognuno ne "abusa" fregandosene delle conseguenze che il suo atto può avere sul prossimo. Molti sostengono che qui sta la chiave di tutto, ossia nella "tragedy of the commons", altrimenti dovuta a diritti di proprietà non ben definiti o assenti. Questo è, senz'altro, il punto di vista di Ronald Coase e, con piccole qualificazioni a mio avviso scarsamente rilevanti (qui rischio di sollevare un vespaio), del mio collega Douglass North. Il loro punto di vista sembra potersi riassumere così: se (1) qualsiasi cosa utile è assegnata in proprietà a qualcuno, (2) tale diritto di proprietà è certo e ben definito, (3) gli agenti economici sono liberi di fare accordi d'ogni tipo che siano compatibili con tali diritti di proprietà, allora non vi possono essere (in equilibrio) inefficienze dovute a esternalità.

Visti gli esempi, veniamo all'astrazione. C'è un'esternalità ogni volta che un'azione compiuta dal soggetto economico X, per fini propri, influenza, negativamente o positivamente, il benessere del soggetto Y senza che (i) X intenzionalmente persegua tale fine; (ii) non esista un "mercato" (nel senso lato) in cui X ed Y possono accordarsi per compensare quest'effetto. La mancanza di volizione è necessaria per l'esternalità, altrimenti tutti gli atti di generosità o di scorno sarebbero esternalità: la carità fatta intenzionalmente non è esternalità, né lo è tenere il volume della radio altissimo al fine di molestare il vicino antipatico. Fare danni o favori a terzi perché tali danni o favori provocano a noi del piacere non può essere un'esternalità: fare meno danno al vicino riduce la mia allegria, quindi non vi è nessun guadagno di efficienza. Solo nel caso in cui, per danneggiare intenzionalmente il vicino A, si molesta anche il vicino B (in relazione al quale siamo indifferenti) si crea l'esternalità. Nel caso della guerra, un'esternalità si chiama anche "collateral damage", che è differente dai damages inflitti all'opponente.

Come si apprende a scuola, un'esternalità richiede due condizioni: "produzione congiunta" e la mancanza di un mercato. Quando queste condizioni sono verificate vi è un'inefficienza che potrebbe giustificare - non implicare, giustificare: avrò occasione di tornare sulla sottile differenza - un intervento correttivo dello stato via tasse/sussidi. Nel caso del frutteto e del miele, lo stato dovrebbe tassare/sovvenzionare (a seconda che il supremo programmatore decidesse che ve ne sono troppe/i o troppo poche/i) le api di B e gli alberi di A sino a raggiungere l'efficienza desiderata. Fin qui la teoria piguouviana, che troviamo anche alla voce Externality su Wikipedia.

Le cose, però, non sono così semplici nemmeno in teoria. Anzitutto: siccome sia api che frutteto favoriscono l'altro agricoltore non è impossibile che le due esternalità si compensino (qui andiamo nel complicato: magari no, perché magari la simmetria non è perfetta, ma chi lo sa?). Inoltre, se i due agricoltori si parlassero, potrebbero trovare vantaggio reciproco a collaborare, eliminando le esternalità. Questo è l'argomento che Coase ha usato per sostenere che, in moltissime situazioni, le cosidette esternalità non sono rilevanti se i diritti di proprietà son ben definiti: le api son di B, gli alberi di A ed i due si parlano e trovano un accordo perché i costi di transazione sono bassi in relazione ai guadagni attesi. Tutte le volte in cui questo è possibile (il caso è rilevante per le cosidette esternalità di rete) l'esternalità viene a mancare e, con essa, il presupposto teorico d'inefficienza e la giustificazione teorica per l'intervento statale. Non sono esperto abbastanza delle riflessioni teoriche recenti su quanto l'approccio di Coase possa risolvere il problema, quindi lascio ad altri, più esperti di me, dirimerlo magari con un articolo ad hoc. Per quanto mi riguarda albergo la convinzione che m'istillò un vecchio lavoro di due amici, Chari e Larry, svariati decenni fa: no, non funziona neanche in teoria.

Veniamo ora al caso delle reti. L'esempio che a molti piace fare è quello del telefono: il mio telefono a nulla serve se nessuno ce l'ha. Quindi, se tu t'installi il telefono mi fai un favore, perché mi permetti di comunicare con te. Quindi c'è un'esternalità. Sbagliato, per due ragioni. Se t'installi il telefono sarà presumibilmente per parlare con me che ce l'ho, quindi l'effetto positivo va in entrambe le direzioni e, perdippiù, è volontario e calcolato. Se tu sapessi che non ho il telefono, probabilmente non ti compreresti il tuo, o tarderesti a comprarlo, o vorresti pagare meno perché, in quel caso, il telefono lo useresti solo per parlare con Tonetta, che non ti piace molto. Entrambi, nella decisione di acquistare il telefono, calcoliamo il favore reciproco e, poiché tu compensi me ed io compenso te, la mancanza di compensazione ovviamente sparisce. Ovviamente la cosa è più complessa di quanto io qui la stia facendo. Per esempio: chi compra il telefono per primo, io o te? Se dobbiamo farlo simultaneamente quasi tutto dipenderà dalle aspettative e, banalmente, potremmo finire in un equilibrio di Nash "inferiore" se avessimo aspettative "negative" sul comportamento uno dell'altro. O viceversa. Alternativamente, potrebbe esserci un "mezzano" che ci coordina, magari un'impresa che ci offre il telefono promettendo che N altre persone lo acquisteranno e offrendo prezzi in funzione del numero di altri che fanno la scelta di acquistare. E via discorrendo. Il punto, sempliciotto, che voglio portare a casa è il seguente: l'esistenza di una "rete", di per se, implica poco o nulla per quanto riguarda la rilevanza delle esternalità visto che queste possono essere internalizzate o ben via aspettative e coordinazione di belief o ben attraverso la creazione di market makers. Per riuscire a dare un giudizio occorre andare oltre la semplice "rete" e guardare alla market "micro structure" e le opzioni di coordinazione che questa offre.

Seconda ragione, collegata alla precedente. Le esternalità di rete sono analoghe a quelle di "ricerca" (search, nel senso di "cercare", tipo cercare un paio di scarpe al mercato o un amico al bar del dopo cena): se tanta gente va al mercato per scambiare i propri prodotti agricoli allora c'è più varietà e cresce la probabilità che ognuno dei partecipanti incontri ciò che desidera e dal cui possessore il proprio prodotto sia desiderato. Infatti, per questa ragione ci sono i mercati organizzati nei giorni prefissati. E ci sono le imprese che tali mercati di scambio organizzano, tipo e-Bay. E ci sono le imprese che i servizi telefonici vendono: se nessuno avesse il telefono, quanto sareste disposti a pagare per il collegamento? E se ce l'avessero solo trenta persone? Forse che le aziende telefoniche non interiorizzano tali effetti (pseudo) "esterni"? Certo che lo fanno, quindi la contrattazone indiretta fra utilizzatori di telefono avviene attraverso le imprese che vendono i servizi, ed il loro competere. Se v'è un problema non è tanto di esternalità ma, nel caso del telefono, di scarsa concorrenza fra imprese, barriere all'entrata, rete fissa satura o monopolizzata, eccetera. Anche qui il punto di fondo è che la "search" non avviene nel vacuo né si fonda solamente su aspettative "arbitrarie" degli agenti. Vi sono market-makers, vi sono aziende che costruiscono reti e che offrono servizi a dei prezzi che interiorizzano il numero di partecipanti alla rete e sono funzione dei medesimi. I mercati non esistono da soli, vengono "prodotti" ed "organizzati" da agenti quando sono profittevoli. Questo vale non solo per le reti ma anche, altrettanto rilevante, per i mercati finanziari. Su questo tema ha lavorato fra i primi proprio Alberto Bisin nella sua tesi di PhD, forse lui vuole provare ad approfondire, sul piano teorico, la questione della creazione di mercati/reti per far comprendere come l'automatismo rete=>esternalità sia tutt'altro che ovvio. 

A proposito di rete fissa: ci si scorda spesso che questa è un finto bene pubblico, in quanto soggetta a congestione (se c'è congestione la rete non è più "non-rivalrous" quindi non è più un bene pubblico): ogni nuovo abbonato offre certamente la possibilità di chiamare una persona in più, ma è anche una persona in più che chiama, quindi genera un'esternalità negativa. Il prezzo del servizio interiorizza anche questa seconda, e negativa, esternalità la quale quindi potrebbe compensare la prima, che era positiva. In presenza di congestione (e di investimenti costosi per ridurla e mantenere il servizio ad un certo livello per ogni nuovo utente) le esternalità possono esserci solo se assumiamo che il market (o network) maker non reagisca al numero di partecipanti e non cambi offerta e prezzo di conseguenza.

Altro tema che non ho tempo di trattare ma che molti hanno da tempo chiarito anche se tanti continuano a fare confusione: molti dei teorizzatori d'esternalità confondono le cosidette esternalità pecuniarie, che non fanno danno a nessuno, con quelle reali. Volete un esempio famoso? Posner.

Pensiamo ad altri esempi, per esempio la televisione o la radio. Forse che non è vero che il mio acquistare una TV o radio favorisce il produttore di spettacoli radiofonici e televisivi? Che non sia per questo che ai nuovi arrivati si offrono contratti vantaggiosi? Molte persone passano dall'asserita "esternalità di rete" ai "rendimenti crescenti" in una frazione di secondo, usando argomenti del tipo: più persone hanno la televisione più è conveniente fare programmi televisivi, quindi ci sono le esternalità di rete ed i rendimenti di scala che dipendono dalla dimensione del mercato. Non ci avevo pensato: più persone hanno la macchina più è conveniente raffinare petrolio, che ci sia un'esternalità anche lì? Oppure, più gente va al mare più è conveniente fare il "vù cumpra" nella vita: sono le esternalità che causano l'immigrazione illegale! Forse conviene studiare come funzionano gli equilibri competitivi in presenza di beni complementari, ma lasciamo stare: questo è solo un post, non un manuale. Spero gli esempi facciano capire il punto: non dovunque vi è una rete vi è un'esternalità ed è ancor meno vero che le complementarietà, di consumo o di produzione, implicano esternalità.

Per riassumere, ripetendomi, le esternalità di rete, per esistere, richiedono che le reti siano spontanee (ovvero non organizzate/prodotte da imprese che internalizzano gli effetti del tipo io faccio un favore a te e tu fai un favore a me) e la generazione dell'effetto esterno non intenzionale. Richiedono inoltre che i benefici non siano interiorizzati da nessuno, che la trasmissione (o la ricezione, o entrambe) di informazioni sia anch'essa il prodotto congiunto di qualcos'altro e che non fornisca all'utente o all'emissore una compensazione monetaria o di utilità. Questo non implica che non esistano mai delle esternalità di rete, ma che le persone che ci hanno pensato ben si guardano dal farle apparire ad ogni pié sospinto. Ci sono, ma non si riducono a banalità tipo "Ho comprato il PC e quindi ho generato un'esternalità'', queste sono cose che solo Brian Arthur era capace di dire. Ma almeno di questo non si parla più, almeno mi sembra.

Queste osservazioni, a metà fra il senso comune e la teoria elementare, implicano che l'onnipresenza di esternalità è molto meno ovvia di quanto una mole enorme di letteratura, a partire dalla seconda metà degli anni '80 e sino a qualche anno fa, implicava. Temo infatti che molti di coloro che, negli anni '80 e '90, scoprirono le esternalità decidendo di farne la soluzione (matematica) di tutti i problemi della teoria della crescita - il 90% dei quali era dovuto solo alla scarsa conoscenza della teoria precedente, ma su questo torno nei post seguenti -  abbiano fatto molta confusione con pochi risultati utili. Mi domando spesso, infatti, che cosa abbiamo capito negli ultimi 30 anni dalle migliaia di modelli aggregati con esternalità che sono stati prodotti. Esiste una qualche proposizione corroborata solidamente dai dati? Un contributo teorico originale che spiegasse qualcosa che non potevamo spiegare, in modo molto più lineare, senza esternalità? Una qualche indicazione solida di politica economica che si possa utilizzare? Un fatto robusto (storicamente e statisticamente) che si possa spiegare usando le esternalità e non avesse una precedente spiegazione? Negli articoli che seguono, dedicati più strettamente alla teoria della crescita vera e propria, argomenterò che no: abbiamo appreso poco, quasi nulla, da questo enorme sforzo quasi trentennale. Ed è un peccato.

Continuiamo perché qualcuno dirà: "No, con l'internet è diverso. Con la televisione puoi solo ricevere informazione, mentre con l'internet puoi sia ricevere che trasmettere." Tralasciamo "l'irrilevante" fatto che il 99% degli utilizzatori internet lo fa o per ricevere informazioni o per comprare beni/servizi, mentre solo una sparuta minoranza produce informazione. Nel secondo caso, uso internet per acquisti, il consumatore paga un prezzo che ovviamente include il valore del servizio di transazione effettuato via rete, quindi spero che qualche anima bella non voglia insistere che lì c'è un'esternalità, altrimenti anche nelle malls, nei supermercati e nelle edicole c'è l'esternalità, passiamo da economics 101 a economics 1 e non finiamo più.

Consideriamo quindi se il seguente fatto "con il mio PC posso anche produrre informazioni oltre che riceverle" genera un'esternalità positiva che invece non riconosciamo alla povera TV. C'è, questo sì, lo spillover di congestione: uno in più occupa bandwith. Ma la congestione c'è anche in libreria o in edicola: più libri e giornali ci sono meno spazio c'è per ognuno di loro. Nulla di nuovo, insomma. Inoltre ci sono anche quelli che vendono i servizi di connessione e che, in teoria, ampliano la banda a disposizione, quindi questo spillover non diventa un'esternalità, comunque negativa, ma entra nel prezzo. Ora, dov'è la positiva? Per ciò che ha a che fare con l'allargamento del mercato per Google, acquistare un PC è uguale all'acquisto della televisione per CBS: niente esternalità. Per ciò che deriva dal fatto che ora anche tu puoi mandare email a me, presumibilmente questa è una delle ragioni per cui ho acquistato il PC, esattamente come acquistai a suo tempo il telefono. Il service provider, inoltre, ci fa pagare una tariffa che dipende, fra le altre cose, da quante persone possiamo raggiungere. Niente esternalità neanche qui. Rimane quindi il fatto che ora faccio dei posts e partecipo ad un gruppo di discussione. In che senso, dunque, il mio inserire informazione sulla rete è l'involontaria e non compensata produzione congiunta di qualcos'altro? Quando, come? La mia pagina web è lì intenzionalmente, perché la gente legga e diffonda la mia ricerca. Le amene belinate che scrivo su nFA sono intenzionalmente scritte, non sono l'effetto esterno ed involontario di nulla. Lo faccio perché ci ricevo utilità e mi diverto, nel secondo caso, e nel primo perché fa parte del mio lavoro diffondere la mia ricerca. Ho la pagina web, in via di aggiornamento, con i miei papers per la medesima ragione che mercoledì prendo l'aereo e vado all'IMF per una conferenza. Nessuna esternalità: mi pagano per il mio lavoro, sia direttamente che indirettamente!

Ah, l'esempio IMF calza molto bene perché così facendo viaggio e consumo le suole delle scarpe. Tal calzare spiega il mio frequente riferimento alle scarpe come fonte di esternalità da socializzazione, riferimento forse troppo ambiguo. Il PC collegato all'internet, se serve a qualcosa è per comunicare con il resto del mondo, intenzionalmente e consapevolmente. Andare in "piazza" o al "bar" o in "biblioteca" o allo "IMF" serve la stessa funzione: comunicare con il resto del mondo usando tecnologie meno rapide. Per fare la seconda cosa si usano, fra gli altri inputs, scarpe e calzini. Per fare la prima si usano, fra gli altri inputs, il PC, l'energia elettrica e la rete. Se è teoricamente giustificato sovvenzionare il PC, lo DEVE essere anche sovvenzionare le scarpe, i calzini e l'energia elettrica. Dove cavolo sta l'esternalità positiva che il sedicenne italiano genera comprandosi il PC ed andando in rete? E a chi arriva tale esternalità?

I teorici delle esternalità di rete sembrano aver mancato un punto ovvio: gli esseri umani da sempre hanno costruito reti per comunicare/commerciare/socializzare. Oggi usiamo l'internet, ieri usavano la fiera di Champagne o Marco Polo si metteva in marcia sulla Via della Seta. Entrambe erano reti organizzate ed intenzionalmente tali, con costi, prezzi, accessi, strumenti, fattori di produzione, fattori fissi, tariffe, guadagni, contrattazioni e contratti d'ogni tipo e sorta. Dove sono le esternalità? Da nessuna parte, a meno che non si decida che sono ovunque: da tempo spiego ai miei studenti del primo anno di PhD (introducendo il modello walrasiano di equilibrio generale ed il suo uso come "unità di misura astratta") che se il puro vivere in società implica esternalità, allora qualsiasi interazione è fonte di esternalità perché gli essere umani imitano l'un l'altro ed, in particolare, imitano i comportamenti che hanno successo. Ma questo che c'entra con il personal computer? Nulla, ed in questo caso la parola esternalità perde completamente tutto il suo significato (i significati, si sa, si costruiscono per differance) e non vuol dire più nulla di specifico. Tassiamo e sussidiamo tutto? Ogni azione imitabile o ogni atto d'imitazione? È lo stesso, ma peggio, di tassare e sussidiare nulla, o no?

Notate che questo argomento, rovesciato, spiega anche perché sostengo che Coase & Co, o ben dicono cose vacue o ben hanno torto. Perché, se qualsiasi fenomeno imitativo genera esternalità, come sembra essere il caso, allora la soluzione che essi propongono è che si assegnino diritti di proprietà sopra il "guardarsi" ed il "vivere in societa'". In altre parole, poiché vi sono effetti esterni dovuti al puro vivere uno accanto all'altro ed entrare in contatto, per eliminare tali esternalità occorre assegnare a qualcuno (Il re? Il dittatore?) il diritto di decidere se e quando X può osservare Y, ed a qual prezzo. Poi basta contrattare con il "re" tale diritto, pagare e l'esternalità è eliminata. Peccato che questa distribuzione dei diritti di proprietà richieda una specie di "dio" che tutto sa e tutto vede. Insomma, la soluzione Coasiana è tanto vacua quanto quella che presuppone mercati walrasiani completi o il programmatore benevolente. D'altra parte, se invece si evita la vacuità, allora la soluzione Coasiana non funziona: poiché posso sempre imitare la strategia vincente, il vincente produce un'esternalità positiva non contrattabile. Il classico paper di Chari e Jones in Economic Theory (2000) mostra che, quando vi sono N oggetti, ognuno posseduto da un individuo distinto, ed occorrono tutti gli N oggetti per produrre qualcosa di socialmente utile, allora il potere di monopolio di (ognuno dei) N soggetti porta ad equilibri inefficienti. Lo stesso argomento, rivoltato come un calzino, porta alla "tragedy of the anticommons", come abbiamo provato David Levine ed io in un articolo nei Proceedings della NAS (2005).

Conclusione, temporaneissima: le esternalità esistono, eccome che esistono. Ma è ancora lontana la prova, sia essa empirica o teorica, che infilarle ad ogni pié sospinto nei modelli di equilibrio generale che vogliono cercare di capire problemi macroeconomici (e la crescita in particolare) sia una strategia teoricamente o empiricamente utile. Ma, su questo tema, ovviamente tornerò con molto maggior dettaglio nei post delle prossime settimane. Questo lungo aperitivo finisce qui.

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Commenti

Ci sono 40 commenti

Complimenti è scritto benissimo e credo anche di avere capito tant'è che mi metto subito alla prova: Non ho potuto fare a meno di pensare alla Net Neutrality sostanzialmente impedirebbe che siano interiorizzate le eventuali esternalità è corretto ? Se io impedisco che gli intermediari si coordino con gli utenti della rete sostanzialmente permetto alle eventuali esternalità di creare inefficienza ?

Tu scrivi:

 


C'è un'esternalità ogni volta che un'azione compiuta dal soggetto economico X, per fini propri, influenza, negativamente o positivamente, il benessere del soggetto Y senza che (i) X intenzionalmente persegua tale fine; (ii) non esista un "mercato" (nel senso lato) in cui X ed Y possono accordarsi per compensare quest'effetto. La mancanza di volizione è necessaria per l'esternalità

 

Prendiamo il caso di un'industria inquinante. Il suo fine è produrre, per esempio, acciaio. Ma come sottoprodotto della lavorazione sappiamo che c'è un certo inquinamento. Lo sa anche l'industria e sa anche quanto costa rimediare (filtri etc). Se non mette in atto o ritarda il piu' possibile tutte le misure adatte per ridurre l'inquinamento su base volontaria (immaginiamo che non esistano leggi a riguardo) è per non uscire dal mercato rispetto ai prezzi dei competitors. Quindi volutamente inquina. La volizione vera è propria è concentrata verso il fine di produrre e vendere acciaio ad un determinato rapporto qualità prezzo ma come sottoprodotto c'è anche un inquinamento consapevole e tutto sommato voluto. Mi pare che qui l'esternalità negativa esiste, anche in presenza di una volizione. 

la definizione va corretta, nel senso che influenzare il benessere del soggetto Y non è l'obiettivo dell'azione di X: vale a dire, tra X e Y non c'è un contratto che abbia quale obiettivo proprio quell'influenza. X vende la sua attività ai suoi clienti, creando un mercato, rispetto al quale Y resta estraneo.

Direi di no se è consapevole di inquinare. E' una scelta.

Diverso è il caso se NON SA di inquinare e gli effetti di quell'inquinamento si scoprono come "esternalità" nella patologia di una popolazione.

Immaginavo che la storia della "volizione" creasse dibattito ed anche confusione. La colpa è almeno parzialmente mia perché, data la natura della nota, l'ho tagliata con l'accetta rendendola ambigua. Chiedo perdono.

In realtà io ho in mente le esternalità positive più che negative (vedi sotto la questione del faro, posta da Pietro Senesi via FB) ma credo il ragionamento valga anche per quelle negative. In questo caso il "calcolo" è ovviamente teorico (ma sto facendo della teoria, dopo tutto) perche' richiede una "valutazione pubblica" di un sentimento (o utilita') privati ma (e mi fermo) la cosa non e' cosi' assurda teoricamente visto che la questione esternalita'/beni pubblici e' direttamente legata alla nozione di Lindhal Equilibrium. Magari ci ritorno quando ho un po' di tempo per farlo (sono ancora in viaggio di lavoro e ho pochissimo tempo, ragione per cui rispondo solo stamattina, scusate anche per questo).

In ogni caso, la "volizione" (ossia l'idea che l'industriale in questione ci guadagni anche in utilità) ... rende l'esternalità ancora più seria, non la diminuisce. Ossia, se l'industria "inquinua per il gusto di inquinare" (persegue tale fine per quanto esso vale, non come effetto inevitabile di altro fine) si comporta un po' come il sadico che forza la sua vittima. Il danno raddoppia, almeno dal punto di vista del calcolo delle utilità, perché riceve un'utilita addizionale che non viene compensata. 

Avrei dovuto introdurre, nella definizione, una distinzione adeguata fra esternalita' negative e positive oltre che riferimento esplicito al sistema di property right sotto qui la definizione vale ... 

 Un filosofo andaluso del 1100, certo Ibd Rashd meglio noto come Avorroè, assimilava l'intelletto attivo alla sola categoria dei filosofi. Intendendo con quest'ultima quell'insieme di menti superiori che con il loro sapere erano fautori della "conoscenza". Da buon scienzato economista, il tuo pezzo sull'esternalità mi ha riportato ai dialoghi di Platone, in uno dei quali lo stesso si interrogava sulla comunicazione sociale. Quindi, se mi consenti, per come hai molto brillantemente trattato l'argomento, io mi permetto iscriverti nel contesto dei filosofi, secondo Avorroè!
 A questo punto, pero', Socrate imperat con la sua teoria dei "tre colini". Cosi' che quando un uomo nel mentre voleva raccontargli cosa era accaduto a un suo amico, Socrate rispose: prima di raccontarmi la tua storia, sarà bene "filtrarla" opportunamente. "Hai verificato che quanto mi vuoi dire sia vero?". "No, l'ho semplicemente osservata ...", rispose l'uomo.
Socrate:"Non sai quindi se sia vera! Vediamo allora se la notizia goda di una certa "Buontà". L'uomo: " No, veramente ci si concentra sugli aspetti engativi.". Socrate:"quindi tu mi vuoi parlare di un qalcosa di negativo e di non vero!". "Passiamo, dunque, all'ultimo filtro. Secondo te la notizia che mi vuoi dare è da considerarsi "utile" ai fini della comune conoscenza?". L'uomo, sconcertato gli rispose: "Non veramente...". "Allora" concluse Socrate, "Se cio' che mi vuoi raccontare non è né Vero, né Buono, Utile, perchè me lo vuoi raccontare? 
Chiaramente è una stoccata filosofica che solo relativamente tocca il tuo articolo, visto che io per primo lo considero utile e buono!
 
Permane in me il dubbio su quanto vero esso posa essere. Fatto sta che tra la scienza e la filosofia oggigiorno ne passa di differenza! :-)  

 

Io, umilmente, non capisco!
Il fatto che si sia consapevoli delle conseguenze di un comportamento è sufficiente a far sì che non ci sia esternalità? Perché a me sembra che consapevolezza implichi intenzionalità, scelta. Se i due agricoltori sanno, ma non si parlano, quella è già volizione. Se non lo sanno, allora sarebbe giustificabile l'intervento del legislatore. Ma se non lo sanno loro, di certo non lo sa nemmeno il legislatore! O meglio: lo saprebbe nell'eventualità che fosse onnicosciente. In effetti, non capisco se tu sia d'accordo o meno con Coase. L'esempio del telefono, ad esempio: io ho un sacco di motivi per comprare un telefono, e tutti questi motivi sono già ben chiari al produttore di telefoni e/o al mercato della telefonia. Non è questo ciò che Coase stesso sostiene? Proprio la mancanza di esternalità, dal momento in cui è chiaro a chi appartiene la proprietà di un bene (il telefono). Proprietà implica mercato, e quindi mancanza di esternalità. Ma a me questo sembra il linea con ciò che sostieni tu! Se è vero che Coase sostiene quanto segue: 

 

(3) gli agenti economici sono liberi di fare accordi d'ogni tipo che siano compatibili con tali diritti di proprietà, allora non vi possono essere (in equilibrio) inefficienze dovute a esternalità.

 

Il concetto di esternalità coasiano, non dice forse che il fatto che ci sia proprietà - e quindi mercato - implica l'annullamento delle esternalità da esso derivate, in quanto proprietà comporta volizione? Non è ciò che dici ai tuoi studenti? E cioè che qualsiasi scambio è esternalità (o non lo è nessuno, appunto) dal momento in cui le conseguenze delle proprie scelte economiche sono implicite nella natura di quel mercato in cui agisco come agente economico, dal momento in cui compro e utilizzo un bene. Il prezzo, ad esempio, tiene conto della mia presenza nel mercato.
A me sembra che non esistano proprio casi di esternalità: anche colui che va in centro con la macchina, sa bene di inquinare. Ma se anche non lo sapesse lui, è il legislatore a saperlo. Ma se il legislatore è a conoscenza del danno provocato dalle emissioni, è perché quel danno è noto.
A me sembra che l'esternalità coincida sempre con ciò che il legislatore non può sapere, perché o non esiste un mercato o esiste volizione. Al contrario, se esistesse un mercato, allora il legislatore può venirne a conoscenza, ma a quel punto l'esternalità non c'è più.  Ad esempio: se io fornisco delle informazioni stradali ad una ditta che, munita di furgone, sta cercando il cliente cui fornire il proprio servizio (e magari sono l'unica persona cui poter chiedere nell'arco di tot km)  io sto fornendo delle informazioni (il mio bene, la mia conoscenza) che producono esternalità positive sul servizio offerto a quella persona. Allo stesso modo, se io metto in contatto un produttore di un servizio con un cliente - che senza di me non avrebbe avuto - potrei pretendere una percentuale: se io la richiedo, annullo l'esternalità e creo un mercato, se io non la richiedo, probabilmente è perché l'ho fatto in amicizia - o per gentilezza -, e l'amicizia è anch'essa volizione. Si da il caso che il legislatore arriva sempre dopo, e mai è in grado di individuare alcuna esternalità. Se c'è esternalità, è perché gli agenti economici hanno scelto che non ci fosse un mercato. E se invece non l'hanno scelto, di certo il legislatore non può venirlo a sapere, non essendoci il mercato. 

Forse - e forse è proprio questo il punto della tuo articolo - l'esternalità è laddove né gli agenti economici né il legislatore sono a conoscenza di un'inefficienza. Ma a me pare che se il legislatore non ha il potere di intervenire, è perché non esiste univocità di informazioni che giustifichino il suo intervento. Ma se esistono, allora non è più un'esternalità: è piuttosto cosa nota, che è o parte del mercato o volizione. 
 
Per quanto l'ho capita (e, spassionatamente, dichiaro di non avere pretesa alcuna di averla capita) la questione sull'esternalità mi ricorda quelle sul determinismo (storico e filosofico) e più banalmente sul complottismo: in effetti, sembra proprio che esternalità e complottismo siano sinonimi: il complottismo è laddove non ci sono abbastanza informazioni per attribuire ad una catena di eventi lo status di complotto, ma se le informazioni ci sono, allora non è più complottismo, ma è fatto noto. 

Ti giuro, voglio solo capire! 

Io non ho mai letto Coase e quindi non so in che cosa le argomentazioni di Boldrin differiscano. Mi pare però che tu abbia perfettamente iterpretato il suo (di Boldrin) pensiero.

Le esternalità sono influenze indeterminate ; il determinismo le esclude.

Come ho scritto sotto, la maggior parte dei fenomeni sono però soggetti ad entrambe le situazioni, deterministica e non. Quindi i modelli dovrebbero tenere conto di entrambe le cose.

 

 

L'idea di esternalita' si fonda sull'intuizione secondo cui i benefici sociali di un certo atto sono distinti dalla somma dei privati. La trovi ripetuta anche alla voce externality di Wikipedia, per essere rapidi ed e' ovviamente fondante.

Ora, si da' il caso che questa definizione crei un'ambiguita' (presente nella letteratura) visto che i costi sociali non li puoi, in generale, valutare solo in termini di prezzo ma bisogna spesso introdurre anche una valutazione dell'utilita' di uno o piu' dei partecipanti.

Il fumo nell'aria molesta chi non fuma e questa molestia e' ovviamente misurabile solo in termini di utilita' di chi il fumo senza riceverne piacere. Ora, nel tipico bar di qualche anno fa, chi fumava non lo faceva con l'intenzione di molestare le altre persone, ma solo per il piacere che ne provava. Gli altri venivano infastiditi ma non compensati, c'era ovviamente un'esternalita': ne' il fumatore aveva possibilita' di scelta ne' ce l'aveva il non fumatore. L'esternalita', per altro, era risolvibile (come molti fecero ed ancora fanno osservare) attraverso un semplice meccanismo informativo: bastava permettere a chi volesse impedire di fumare nel proprio bar di farlo, mentre chi voleva permetterlo avrebbe continuato come prima. Il mercato si sarebbe segmentato fra bar per fumatori (e non fumatori altamente tolleranti) e bar per non fumatori (e fumatori capaci di astenersi). I membri dei due gruppi avrebbero scelto dove andare e come comportarsi ed i prezzi dei rispettivi tipi di bar riflettuto la combinazione di preferenze e tolleranza verso effetti collaterali del fumo presenti nel mercato, facendo sparire l'inefficienza. 

Questo mi spinge ad un esempio piu' estremo ma che rende la questione piu' esplicita. Pensa ai rapporti interpersonali ed alle regole della frequentazione. Limitiamoci al fumo, ma ognuno credo possa costuire lungo la stessa linea altri esempi realistici. Se X frequenta Y e sa che Y non gradisce il fumo X tiene questo suo effetto negativo in conto. Lo stesso fa Y nel frequentare X, sa che X fumera'. In equilibrio i due continuano a frequentarsi se e solo se il costo per X di ridurre un po' il suo fumo e' compensato dalla compagnia di Y ed il costo per Y di sopportare il fumo di X e' compensato da altri aspetti della compagnia di X. Fra i due non c'e' nessuna esternalita' e, direbbe qualcuno convinto da Coase, questo e' un classico esempio di quello di cui, appunto, Coase parla nel suo tentativo di risolvere il problema del social cost. Che, in questo caso, sembra funzionare ...

Aiuta? Spero di si. nel prossimo commento vediamo il caso del faro costruito per generosita'.  



Forse queste sono una esternalità, in quanto non influenzabili dall'uomo e neppure completamente prevedibili. Il concetto di esternalità prevede l'inconsapevolezza e l'assenza di strumenti di controllo. Quindi Michele, condivido sostanzialmente quello che dici, ed aggiungerei soltanto un concetto di "esternalità marginale" volendo con questo significare che molto spesso la consapevolezza e gli strumenti di controllo sono parziali, perciò l'esternalità non è assente ma parzialmente presente, come nel caso dei marcati, che sono parzialmente ma non totalmente influenzabili.

In margine alla pubblicita' di questo articolo su FB, Pietro Senesi (che di professione fa l'economista) scrive: 

Pietro Senesi

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Pietro Senesi Se costruisco, a mie spese, un faro (sostenendo un costo marginale pari alla produttività marginale della mia barca che porta i turisti a fare gite notturne) con l'intenzione di fare un favore alle altre barchette, è ancora un bene pubblico?

La mia risposta e' che continua a rimanere un bene pubblico ma non c'e' piu' alcuna esternalita' se l'utilita' che provi nell'aver fatto un favore alle altre barchette e' uguale all'utilita' che le barchette ne derivano. Infatti, hai pagato per un bene pubblico secondo il criterio di Lindhal (il costo per te e' uguale al tuo beneficio marginale che e' pari alla somma  del guadagno monetario con la tua barchetta e di quello morale d'aver fatto un favore ai tuoi colleghi della notte.

Il bene pubblico e' tale per ragioni tecnologiche, non perche' debba per forza esserci un'esternalita' non compensata nella sua produzione di equilibrio. Il faro e' un bene pubblico, come la carita'. Ma non vi e' alcuna esternalita' da compensare, se valgono le tue ipotesi.  

giusto perché mi piacciono gli spoiler... il fatto che lei abbia scelto di iniziare una serie di appunti sulla teoria della crescita sostenendo che l'uso delle esternalità nei modelli della letteratura più recente è stato eccessivo e poco robusto, che cosa ci fa presagire? dubito che leggeremo argomentazioni a sostegno di modelli di crescita esogena o di tipo AK. quindi, che approccio seguirà? non sono un economista, per cui al di là di un certo livello di dettaglio (piuttosto grossolano) non sarei in grado di cogliere i riferimenti alla letteratura e al dibattito specialistico. sono invece molto interessato alle implicazioni politiche della sua interpretazione della materia.

Uno dei mali peggiori della ricerca macroeconomica (e non solo) contemporanea e' la fissazione con le "policy implications". Esse tendono a dominare il dibattito, distorcere la ricerca, occultare o ingigantire senza senso i risultati, e cosi' via. E sono, nel 99% dei casi, infondate e pretestuose.

La teoria della crescita, oggi come oggi, e' in grado di dare pochissime indicazioni politiche. E chiunque faccia finta del contrario mente sapendo di mentire. Ecco, se a qualcosa possono servire i miei appunti e' per dissolvere l'illusione secondo cui ci siano chiare e precise (e non ovvie) policy implications que seguono da quanto la ricerca e' riuscita a capire.  

chi segua questi problemi (e si chiama, secondo i cristiani averroeh, ma poco importa e dello spelling invito chiunque a farsene un baffo con lo stantuffo.)

mentre Michele Boldrin sa che sono uno di quelli che non crede ne alla volizione ne al libero "arbitrio" dei preti & co, vi inviterei a vedere quel che fanno i filosofi.

due cosette semplici, e.g. l'eccellente John M. Doris, Talking to Our Selves: Reflection, Ignorance, and Agency, Oxford University Press, 2015,


e ancor piu' curioso il "famoso" (per chi legge) effetto di Knobe, web.mit.edu/holton/www/pubs/Norm&Knobe.pdf




i due punti, John e' dell'opinione che nessuno, in generale, sa quel che fa, Joshua Knobe mostra come le intuizioni, cosidette, sul tema di che cosa sia un comportamente intenzionale, siano fallaci.

Per incentivo a leggere, Knobe prese proprio il caso dell'inquinamneto ambientale che e' causato da un'impresa, scaricando nel fiume cianuro..... siccome so che vengo giudicato oscuro, cito chi e' chiaro, (Holton, MIT)   :


    In a justly famous study, Joshua Knobe found an asymmetry in the way we ascribe intentional action (Knobe 2003a). Consider an executive who, motivated entirely by the goal of maximizing profit, embarks on a policy that he knows will also cause environmental damage. Does he intentionally harm the environment? Most people hold that he does. In contrast, when considering an otherwise identical case in which the side effects would be beneficial to the environment, most people hold that the executive does not intentionally help the environment. A number of follow-up studies have found that the finding is robust, that it applies to children as young as four, and that it occurs in other languages and cultures (Knobe 2006).


tr in uno studio celebre Joshua Knobe scopre un'asimmetria nella maniera in cui giudichiamo le azioni intenzionali. Si prenda in esame un direttore che, puramente moticato per accrescre i profitti d'imresa, mette in essere un piano che sa produrre danni all'ambiente. Sta scientemente danneggiando l'ambiente? La maggiorzana pensa che si'. D'altro canto, si prenda in esame il caso identico in cui gli effetti collaterali siano benefici rispetto all'ambiente. La maggiornza pensa che il direttore non stia intenzionalmente aiutando l'ambiente. Una grande quantita' di esperimenti e di studi successvi nel decennio successivo dimostro' la solidita' della scoperta, e' identica tra i bambini, i vecchi e i giovani e si riscontra in tutte le culture.





end/quote



PER esser chiari (trattasi di x-phil) questi studi sono empirici, vale a dire si chiede alla gente,

si supponga che "alfa" sia un'industria che esternalizza merda velenosa nel torrente, e lo sa il direttore generale. sta l'industria intenzionalmente facendo danni all'ambiente? (risposta: SI')

si supponga che "beta" sia un'industria che esternalizza la crescita di orchidee magnifiche  con le emissioni di un nuovo prodotto chimico, e lo sa il direttore generale. sta l'industria beneficiando l'ambiente" (rispota: NO)


Perfetto: già facevo fatica prima...:) Mi prendo qualche giorno...
Pensa te che casualmente (ma anche no) mi ero imbattuto proprio nella discussione sul libero arbitrio (o meglio un accenno di discussione) tra te e Michele, nei commenti ad un tuo post. Neppure io credo nel libero arbitrio. Ma allora, se te dici questo, allora c'è un link, non me lo sono sognato. 

Ma John, come ci arriva lì?

E che cosa implica, secondo te, quanto da te riportato?

Grazie.

Gentile Savino, mi auguro non si offenda. davvor "non c'e' di che."

Il punto che forse (boldrin stanco e in viaggio mise) va sottolineato.

L'esempio di du run-sh'engh (che e' la person fotografata) e' amio avvio pregnante e facile.

Il personaggio non fu un economista di professione (o accademico, se preferisce.) Osservo' che durante i vari "balzi in avanti" e la formazione della "comune rurale" in aree immense della repubblica, numerosi milioni (persino i numeri sono difficili da capire) morivano di fame esclusivamente per il collasso della produttivita' (delle terre, dei bufali, dei raccolti etc.)

 

prese una teoria, ad usar un termine forse pomposo, economica che dice semplicemente che gli agenti rispondono ad incentivi. L'incentivo prodotto dalla struttura della comune rurale era a far nulla ogni santo giorno (non vi erano domeniche.) du runsheng opero' per abolirla, introducendo il reddito per unita' familaire ed alcune misure che davano status di proprieta' di alcune terre. Il programma produsse incentivi con effetti (e' uno dei motivi per cui la popolazione cinese e' di 1,4 ~ miliardi di individui.)

Ora davvero, che c'entra l'epistemologia? epistemologia, sottodisciplina a volte nobile a volte sciocca della filosofia, a volte persino la insegno, mi appare aver nulla a che fare con la domanda. Quando, e.g. Michele Boldrin, cita teorie assai piu' complesse e sofisticate, come gli effetti di aspettative irrazionali e razionali, gli equilibri di Lindhal, etc. penso sia (quasi?) autoevidente che le chiacchere dei venditori di giornali hanno scarso effetto, tranne uno nefasto: far confusione alla gente che ascolta improvvisati "guru" cosidetti intellettuali.

 

 

Vorrei comprendesse che se il tono trascende, nFA e' perfettamente in grado, di certo da parte mia, di accettare critiche fossero pur dure. non si accetta la pigrizia mentale, per quello sta bene la "gabbia" a cui parla la mia attuale bestia nera, tal fusaro che strologa di debiti, di monete sovrane, di sesso, di genere, di lingue, appunto di "tutto e di nulla", mai essendo in grado di dire che cosa voglia che non siano sciocchezze come obbligar la gente a leggere scorregge sotto vuoto spinto come giovanni gentile.

 

 

siccome sempre vengo attaccato per oscurita', du rung-sheng e' uno degli economisti che ebbe piu' effetti in "implicazioni per le politiche adottate" nella storia del 20esimo secolo. seguo poco la pubblicistica italiana perche' e' scritta da deficienti, tuttavia per un inizio le suggerisco

 

www.ft.com/cms/s/0/88cac6ae-83b8-11e5-8e80-1574112844fd.html

 

 

sine ira ac studio


suo

gentile sig. Palma, purtroppo per me non ci conosciamo di persona ma, mi creda, io davvero non mi offendo mai. quando ho letto la risposta di boldrin la mia unica preoccupazione è stata quella di verificare piuttosto che non avessi io involontariamente scritto qualcosa di tanto gravemente stupido o potenzialmente offensivo da suscitare quella reazione. ho verificato, sono sicuro di non averlo fatto, la cosa finisce lì. (poi boldrin è stato così bravo a tranquillizzare la mia naturale affettuosità di napoletano... :))

lei fa l'esempio di un politico cinese che ha applicato una idea che gli economisti in qualche modo hanno formalizzato, cioè un esempio di rapporto elementare tra scienza economica e politica. altri esempi li da il prof. boldrin nella risposta sopra, quando dice grosso modo che se i politici fanno agli economisti domande puntuali e circoscritte possono trovare nella teoria argomenti che diano più o meno fondatezza a determinate scelte. benissimo. 

poi le mi chiede: che c'entra l'epistemologia? e io le rispondo: appunto, che c'entra?

ho usato questa parola soltanto una volta e in questo senso: non essendo io un economista e non potendo seguire la discussione teorica oltre un certo livello di dettaglio (come avevo precedentemente chiarito) ma avendo interesse per quel genere di questioni che sorgono un pò sul bordo della teoria e che sono affrontate dai filosofi o dagli storici delle idee, potevo capire l'affermazione di boldrin sull'assenza di policy implications proprio da questo punto di osservazione, meramente metateorico, meramente epistemologico. tutto qui.

quando ho letto che un importante economista, che ha anche tentato la strada di un impegno diretto in politica, sostiene (credo anche minoritariamente nell'ambiente degli specialisti di macroeconomia) che l'attuale stadio della teoria economica sulla crescita non consente policy implications e che (cito) "Esse tendono a dominare il dibattito, distorcere la ricerca, occultare o ingigantire senza senso i risultati, e cosi' via. E sono, nel 99% dei casi, infondate e pretestuose. La teoria della crescita, oggi come oggi, e' in grado di dare pochissime indicazioni politiche. E chiunque faccia finta del contrario mente sapendo di mentire." , mi sono detto: wow! (in realtà l’esclamazione è stata un’altra, sono di napoli non del north carolina) chi meglio di lui allora potrà dire qualcosa di acuto e interessante sul reale rapporto che sussiste tra scienza economica e prassi politica, sia dal punto di vista delle ambizioni (eventuali) che la teoria nutre sulla sua capacità di influenzare le decisioni politiche, sia sulla necessità/opportunità/eventualità che la politica attinga dall'elaborazione teorica strumenti per orientarsi nella decisione.

il sig. rocchi sopra traduce in lingua meno ampollosa della mia una parte della mia domanda, rendendola più ragionevole. in realtà però io la pongo in termini assai astratti e generali (la "teoria", la "politica", la “democrazia”!) non perché sono malato di retorica ma perché sono convinto che si possa discutere formalmente di astrazioni senza che questo implichi pochezza intellettuale.

che tanti macroeconomisti, a partire diciamo dagli anni '40, abbiano manifestamente espresso l'ambizione a determinare la politica economica mi sembra un fatto fuori discussione (uno per tutti Jan Tinbergen, Economic policy : principles and design). che tante scelte politiche dense di ricadute siano state e siano tutt'oggi assunte sulla base di giustificazioni teoriche (più o meno correttamente intese, non importa) mi sembra palese. e che la teoria della crescita sia un ambito particolarmente sensibile al rapporto tra scienza e politica mi sembra altrettanto pacifico. quindi francamente continuo a non vedere l'assurdità delle mie domandine. capisco invece che si possa legittimamente ritenerle prive di interesse o off-topic rispetto al contesto. capisco anche che si possa avere un'avversione verso un modo di porre le questioni troppo astratto e generale.

il fatto però è che non soltanto io (nello stringato spazio di un commento a un post) pongo la questione del rapporto tra teoria economica e prassi politica in questi termini così vaghi e astratti, ma lo fanno anche importanti economisti. lo fa, ad esempio, nel suo ultimo bellissimo libricino Deirdre McCloskey, la quale tra l'altro – e perfino senza aver fatto il classico! - pare particolarmente convinta dell'importanza per l'avanzamento della scienza proprio della retorica e di quel genere di persuasione che solo la discussione astratta (la chiacchiera) può fornire.

(e con questo ultimo riferimento credo di essermi appena guadagnato una risposta da boldrin del tipo: ah str...! ma fatte na pip..!... )  :)

(si scherza, prof, si scherza. io le sono veramente affezionatissimo)

 

mi scuso per la lunghezza e non vedo l’ora di godermi i prossimi post.

www.repubblica.it/economia/2015/11/09/news/perotti_dimissioni-126998657/

 

 

il sig perotti di fronte ad un problema politico (non si bene perche' non di debba dire "riduzione delle spese dei ministeri", ma "spending review" osserva come la sua utilita' sia zero.

 

 

 

buona giornata a tutte e tutti

Ho assistito in diretta ieri sera all'uscita, in tutti i sensi, del prof. Perotti (non sono un fanatico dell'uso dei titoli accademici, ma è giusto riconoscere chi si merita i titoli che ha).

Invitato per la prima puntata di una trasmissione di costume, è stato presentato come "consigliere economico del governo per la spending review" (Palma non si arrabbi, cito letterale). A una domanda diretta di B. Severgini (il presentatore) sul suo ruolo e sui progressi del suo lavoro, Perotti si è schermito dicendo: "A dire la verità ho dato le dimissioni sabato". Il presentatore stupito della dichiarazione, fuori tema per il momento, non ha saputo sottrarsi alla domanda sul motivo delle dimissioni. Risposta: "Non mi sentivo molto utile in questo momento".

Rientrando nel topic, qui il problema è diverso, Il prof. Boldrin sta argomentando se certe teorie siano utili o meno a determinare l'agire politico. Sulla riduzione delle spese improduttive in Italia penso che (quasi) tutte le teorie siano concordi non solo sulla utilità ma sulla necessità.

La politica invece è ridotta alla ricerca del consenso, e purtroppo i tagli alle spese non fanno fare balzi in avanti nei sondaggi.

"poiché posso sempre imitare la strategia vincente, il vincente produce un'esternalità positiva non contrattabile"

L'esternalità positiva non viene annullata dal copyright, quando per "vincente" si intende uno che ha inventato un bene o un servizio e lo commercializza senza concorrenza?

 

E se ho capito il suo pensiero in materia di copyright, lei sostiene che il compenso garantito dal copyright sia troppo alto, e compensi ad abundantiam l'esternalità. O no?

Sostengo due cose banali:

- che tutti imitano tutti, quando gli altri fanno qualcosa di giusto. Che facciamo? Tassiamo/sussidiamo/brevettiamo ogni atto umano "efficace"? Nonsense, i transaction costs ci distruggerebbero (infatti, stanno gia' facendo un "ottimo" lavoro esattamente in quella direzione)

- la seconda cosa ... oh well, forse non e' cosi' banale ed io sono un po' stanco (mi svegliai ad Istanbul 25 ore orsono ...) ed e', alla fine, una delle cose che vorrei argomentare negli appunti che seguono. Porti pazienza, arrivera' glielo prometto :) 

Si, puo' essere che il copyright internalizzi l'esternalita' positiva indotta dal fatto che quando X canta o incide una canzone che ci piace crea anche l'opportunita' per noi di copiarlo. 

Il mio punto e' che, siccome questo succede praticamente ogni volta che uno fa qualcosa di utile, potremmo generalizzare l'idea del copyrights a centinaia di azioni umane al prezzo di bloccare ogni processo imitativo ed aumentare in modo smisurato i costi legali di transazione associati alle relazioni umane.

In particolare, generalizzare il "principio" che sta dietro al copyright (che con quella modificazione dei property rights si internalizza l'esternalita') porta, paradossalmente, alla illegalizzazione della concorrenza, la quale si fonda sul diritto ad imitare.

Vedo che e' stato postato sotto un link al vecchio paper di Harold Demsetz sui diritti di proprieta' e su come essi siano da un lato utili per internalizzare esternalita' e, dall'altro, si siano (in parte, direi io, mentre Harold sembra suggerire essenzialmente) evoluti per favorire proprio questo processo.

Il mio quarrel di fondo con quell'approccio e' che (ammesso e non concesso funzioni in generale, ma credo HD fosse consapevole dei limiti del meccanismo transattivo) la sua applicazione porta ad un mondo di singoli monopolisti. Ma questo credo richiederebbe un post a parte, perche' e' un argomento un po' intricato.

Sullo specifico del copyright: la mia valutazione, del tutto empirica, e' che le esternalita' in questione sono minime e che, in ogni caso, il surplus per l'autore, generato dalla vendita dei prodotti oggi soggetti a copyright in assenza del medesimo, sarebbe piu' che sufficiente per coprire i costi-opportunita' di coloro che quei beni producono. Deto altrimenti: tutta l'evidenza disponibile dimostra che non c'e' alcun guadagno di efficienza via copyright perche' l'offerta di libri/musica/eccetera da parte di ogni singolo autore diventa piuttosto piatta rapidamente. Quindi i profitti di monopolio che vanno, per dire, a Beyonce sono solo trasferimenti dai consumatori alla signorina in questione, non incentivi perche' produca di meglio e di piu' ...