Le regole note come "Accordi di Basilea" (I & II) non costituiscono una prevaricazione nei confronti delle imprese manifatturiere che - come alcuni colleghi sembrano ritenere - vedrebbero messi in secondo piano i propri problemi rispetto alle necessità del mondo creditizio. Sono state pensate per salvaguardare la stabilità del sistema finanziario - ganglio vitale dell'economia - indirizzando l'operatività bancaria sulla base del capitale disponibile e di un'analisi oggettiva dei bilanci aziendali. In tal modo, si cerca di contenere (e prezzare!) il rischio di credito, sebbene nessuno possa negare che queste metodologie forniscano una fotografia del passato, più che una valutazione delle prospettive future. La crisi ha reso evidente l'inidoneità del sistema in vigore a garantire efficaci difese contro eventi eclatanti, infrequenti ma tutt'altro che impossibili. Le modifiche in gestazione andranno, allora, nella direzione di rendere ancora più stringenti i vincoli e le conseguenze restrittive sulla disponibilità di capitali per le imprese non saranno trascurabili. In un momento che già si caratterizza per la grave carenza di liquidità gli effetti di una tale azione potrebbero essere pericolosi, in particolare per le piccole realtà.
Dunque, bisogna temere le nuove regole? Sì e no. Innanzitutto è necessario lavorare in modo da non penalizzare la cosiddetta economia reale (quella cioé che produce beni e servizi), e la via migliore è ripensare le forme di finanziamento delle imprese. Chi deve agire, e in quale modo? Ci sono almeno due posizioni.
Alcuni dicono che noi piccoli imprenditori (io sono uno di loro) non dobbiamo più essere piccoli imprenditori, ma imprenditori di Piccole Imprese in crescita, cioè uscire dall'abituale visione limitata del ''piccolo è bello'' per cercare solidità nella collaborazione e nell'aggregazione. E che dobbiamo aprirci all'apporto di capitali e competenze esterni, sacrificando quel controllo che talvolta pare essere una ragione di vita. Verissimo, ma non lo possiamo fare da soli: è un cambiamento importante che ha bisogno degli opportuni inneschi da parte del regolatore.
Altri ricordano che il sistema creditizio deve sostenere le aziende, tornando a concentrarsi sul mestiere tradizionale, ossia fornire risorse finanziarie a supporto dell'attività imprenditoriale, invece che inseguire le chimere del trading. Per fare ciò il sistema creditizio ha bisogno di ricostruire competenze trascurate, in seguito alla decisione di formare i propri funzionari in funzione di quella “creatività finanziaria” oggi sotto accusa, e noi possiamo essere d'aiuto: una buona idea sarebbe la messa a punto di modelli di business-plan semplici e condivisi, per riuscire a ''parlarsi'' senza la necessità di diventare tutti professionisti della finanza aziendale. Gli operatori economici rispondono, come tutti, agli incentivi. Dunque servono decisioni governative che instaurino condizioni favorevoli a tali scelte di business.
A ben vedere, allora, il fattore determinante - c'era da dubitarne? - è il decisore politico, al quale non possiamo più permettere di rimandare continuamente ogni azione, di sostenere che quanto possibile sia stato già fatto, di focalizzare l'attenzione su temi lontanissimi dai problemi reali, di mettere le proprie esigenze davanti a quelle del Paese. È persino ovvio che s'imponga la regolarizzazione dell'enorme credito vantato dai fornitori nei confronti degli enti pubblici - uno scandalo tutto italiano, che nessun Paese civile può accettare - ma la madre di tutte le battaglie punta ad ottenere le medesime condizioni nelle quali opera la concorrenza internazionale: dunque, è necessario disegnare - finalmente! - un ambiente favorevole all'attività d'impresa.
È logico pensare che una grande prudenza delle banche nell'erogare liquidità, tale da non soddisfare le esigenze degli operatori economici, possa derivare dalla percezione che il rischio del credito sia troppo elevato. Non si può dir che non sia così, data la situazione attuale: noi tutti cerchiamo di vendere a clienti che riteniamo in grado di pagarci, e ciò vale, ovviamente, anche per coloro la cui merce è il ''danaro''. Dunque, sarà opportuno intervenire per contrastare quel fattore limitante, tramite il rafforzamento dei Confidi, la cui attività è preziosa per il sistema delle piccole imprese. Ne va sviluppato il ruolo di protagonisti del credito a tutto tondo: la conoscenza del territorio e la capacità di valutazione delle imprese locali sono proprio le armi che servono, e che le grandi banche hanno perduto. Ciò metterebbe il sistema produttivo nelle condizioni di reperire altrove disponibilità aggiuntive ed inietterebbe anche una salutare dose di concorrenza nel mercato, costringendo gli istituti di credito ad essere più efficienti.
Sarebbe dannoso, invece, qualunque intervento diretto della mano pubblica che non sia regolazione a tutela della concorrenza. Altri interventi, infatti, altro non fanno che introdurre distorsioni, operando con logiche d'appartenenza che hanno l'inefficienza come elemento caratterizzante. No, dunque, a Banche del Sud - il problema non è la raccolta, ma l'impiego - ed a bonds che teoricamente vincolino a comportamenti ''etici'' di fatto non verificabili.
Tutto ciò, però, non è sufficiente. Aiuta a fronteggiare l'emergenza e introduce anche elementi strutturali, ma occorre pensare a provvedimenti mirati a favorire la creazione di ricchezza. L'incentivazione alla permanenza in azienda delle risorse generate internamente va messa in atto rapidamente, istituendo un trattamento fiscale che non consideri reddito l'utile di bilancio non distribuito.
E, per favore, la si smetta con la consueta giustificazione, quasi un mantra: mancano le risorse. È precisamente questo il compito di un governo, stabilire le priorità ed adottare provvedimenti conseguenti: ottimizzare, in fondo, esattamente come si fa ogni giorno in azienda. Chi ha il potere di agire, non può sottrarsi - hic et nunc - al compito d'incidere sui problemi finanziari che la crisi attuale non ha provocato, ma certamente ha aggravato. E che le nuove regole di Basilea III rischiano di drammatizzare.
Perché non basta dirsi ''governo del fare'': va dimostrato sul campo.
Nota. L'articolo è stato pubblicato in questi giorni ne ''L'imprenditore'', house organ della Piccola Industria confindustriale. La scelta di riproporlo qui - più o meno tale e quale - mira a due bersagli. Da un lato, la diffusione in un ambito meno specifico - dal momento che la rivista non ha ancora una versione digitale - di un'opinione che non ha pretese di essere quella “ufficiale”, ma che comunque proviene dall'interno dell'organizzazione ove rappresenta un sentimento tutt'altro che irrilevante. Dall'altro - forse più importante - la testimonianza che anche la stampa ''istituzionale'' può - e deve - rinunciare a paludamenti ed eccessivi timori, pur mantenendo un linguaggio appropriato.
Franco, a proposito: non ti ho più sentito...