Non dirò, com'è generale abitudine odiosamente politically correct, che la chiusura di un giornale è sempre un impoverimento generale, un vulnus culturale, un evento luttuoso. Pur difendendo il diritto di tutti ad esprimere il proprio pensiero – ma non, si badi, l'obbligo della pubblicazione, né l'uguaglianza di tutte le tesi – io non mi straccerei certo le vesti se sparissero, ad esempio, L'Avvenire e Liberazione .....
Voglio, invece, dichiarare il personale dispiacere per la scomparsa (no, meglio, l'attenuazione) di una voce sinceramente liberale, della quale ci sarebbe un gran bisogno in un mondo che sta rischiando drammaticamente di scivolare – incredibile dictu, a partire dagli USA - in una sorta di socialismo 2.0, immemore della dura lezione di mamma Storia (e zia Cronaca, per alcuni attuali sviluppi).
Non sempre, ovviamente, il mio pensiero è stato in accordo con quanto scritto sulle pagine di Libero Mercato – in particolare, le opinioni divergono relativamente a qualche giudizio troppo generoso, a mio avviso, nei riguardi di Silvio Berlusconi e di Giulio Tremonti – ma sarebbe strano che così fosse, per individui (il termine non è scelto a caso) che si piccano di ragionare con la propria testa sulle singole questioni, anziché in quell'ottica di fedeltà alla linea – ed al capo - oggi così diffusa. E poi, si sa, il “distinguo” è sport alquanto diffuso tra liberali, con dibattiti anche accesi e divisioni su quisquiglie, talvolta sino alla reciproca attribuzione di patenti di liberalismo ... con gran vantaggio della cleptomane orda social-statalista presente in ogni schieramento.
Anyway, questo il commiato di Oscar Giannino, riportato da Mario Seminerio (grazie, Mario):
Carissimi lettori, è amaro farlo mentre l’economia domina l’informazione, ma vi devo salutare. Questo è l’ultimo numero di LiberoMercato con foliazione autonoma. Da domani esso viene assorbito organicamente da Libero, e cessa la mia funzione di direttore. Non l’ho scelto io, ma le aziende decidono secondo proprie valutazioni, guardando ai conti, alla situazione generale dell’editoria e della pubblicità, che è quella che è. Ed esprimono anche valutazioni su chi hanno ingaggiato, sul prodotto che ha realizzato e sulla sua omogeneità con lo stile e gli obiettivi della casa. In questo caso, si tratta di me e del mio operato.
Approfitto del saluto per alcune considerazioni. Sull’informazione economica, per cominciare. Resto tenacemente convinto che i giornali generalisti avrebbero di che guadagnare dedicando all’economia strumenti appositi di approfondimento quotidiano e settimanale, invece che poche pagine nella foliazione di ogni numero, e iniziative speciali per coprire i guai di occupazione e consumi. Certo, c’è la crisi e gli inserzionisti tagliano la pubblicità, e bisogna dunque risparmiare sul possibile. Proprio perché c’è “questa” crisi, però, l’economia e la finanza sono quasi tutto, molto più importanti del bla bla politico e di cronaca che anima il teatrino quotidiano.
Il mondo è attraversato da una pandemia che ha colpito le fondamenta del modello d’intermediazione finanziaria che ha impeversato nell’ultimo ventennio. E’ una crisi del tutto paragonabile a quelle che hanno posto termine ai grandi Imperi, che erano fondati sul predominio di strumenti e modelli economici, prima che sulle armi. Come avvenne alla fine della sterlina e dell’Impero britannico fino all’epilogo del lungo e terrificante conflitto che insanguinò il mondo in due tempi, nella prima metà del secolo scorso, e portò all’impero americano costruito sul dollaro e su Bretton Woods.
So bene che per vendere copie si debbono privilegiare gli aspetti e gli accenti più popolari e immediati, degli spasmi che mandano all’aria banche e imprese, e che tornano a chiedere ai governi interventi impensabili. Ma il compito dell’informazione è anche tentare di spiegare ciò che è più difficile, e cioè le determinanti di lungo periodo di una crisi la cui prima tappa fu l’addio del dollaro alla convertibilità nel 1974, la libera fluttuazione del biglietto verde che da allora tramuta in un problema mondiale i deficit pubblici e della bilancia dei pagamenti americana, problema mondiale di cui la deregulation finanziaria, l’abolizione della distinzione tra banca commerciale e banca d’investimento, e infine la rapida costruzione del circuito America-Far East a sostegno dei reciproci interessi, hanno costituito le successive tappe di sviluppo.
Spiegare innanzitutto questo è ciò che ho cercato di fare sin dal primo giorno in cui nacque LiberoMercato, 22 mesi fa. C’è un ordito generale che spiega il motivo dell’instabilità planetaria prodotta dalla politica monetaria lassista e dal deficit della bilancia dei pagamenti praticati dagli Usa per anni ed anni, e dal trionfo apparente di grandi banche mondiali trasformatesi in piattaforme di trading, per piazzare con utili da vertigine prodotti, servizi e derivati diversi da quelli di pura e semplice copertura del rischio. Derivati la cui distanza era divenuta sempre più siderale da una stima apprezzabile e reale del rischio di controparte per il prenditore, e degli accantonamenti patrimoniali necessari per il prestatore.
Lo spazio per raccontare utilmente tutto questo c’è e continuerà ad esserci, per chi riterrà di averne i mezzi necessari. Significa insistere per tre o quattro anni almeno, prima di tirare le somme. Si spiega così il successo negli anni del gruppo Class, come il senso e l’utilità che hanno conquistato nel tempo i settimanali economici di grandi gruppi editoriali, come Rcs e Repubblica. In caso contrario, bisogna solo augurarsi che ilSole24Ore, il gigante del settore, resti il più aperto e pluralista possibile. ma queste, beninteso, sono solo opinioni di un giornalista, che ora è nelle condizioni di ammettere sinceramente la propria sconfitta, e di chiedere scusa se vi ha deluso. Nel merito, però, difendo quel che abbiamo fatto. Le copie aggiuntive erano venute, parlando in termini concreti, finché non si è iniziato a tagliare. Ora chiudo, ma difendo il punto di vista dal quale dall’esordio ho dichiarato che avremmo svolto in nostro lavoro. Ne ricapitolo i fondamenti, per quanto mi riguarda valgono oggi come per il futuro: la piccola impresa, le banche, lo Stato, la persona.
Mi fermo qui. Ci salutiamo ma non ci parliamo, diceva Voltaire richiesto del suo rapporto con Dio. A voi tutti lettori, un saluto grato con la promessa che continuerò a parlarvi ora non so, ma ad ascoltarvi sempre.
Col senno di poi, si potrebbe anche pensare che questo epilogo fosse segnato, in una landa desolata che, oltre alle immancabili dispute da bar sui rigori concessi o non concessi dai cornuti per antonomasia ed alle tette rifatte sciorinate sui palcoscenici d'improbabili isole deserte, si appassiona solo alle pretestuose polemiche del cortile politico – meglio se a sfondo pruriginoso – ed alle orride nefandezze della cronaca nera – il sangue attira le mosche, come lo sterco, del resto – dedicando incompetente attenzione ai temi economici solo in funzione delle prime ed in similitudine alle seconde. Si sa, d'altra parte, che le analisi interessano poco, quando ciò che conta è schierarsi.
Anche la collocazione editoriale, però, potrebbe aver giocato un ruolo. Il quotidiano di Feltri, che pure presenta anime differenti, non può essere definito un campione del liberalismo, ma semplicemente e legittimamente un giornale di destra. Attenzione, il lemma non è da considerarsi spregiativo (con buona pace della consueta ed immotivata presunzione di superiorità morale dell'altra parte), esattamente come non è tale la specificazione opposta per – che so – Il Manifesto, ma l'abbinamento può aver generato qualche malinteso. Lungi da me l'idea giavazziana che il liberismo sia “di sinistra” (se consideriamo l'italica gauche vien da ridere), mi pare evidente che (il liberismo) poco abbia a che fare anche con talune impostazioni contrarie al mercato e finanche liberticide emerse chiaramente tra le fila dell'attuale maggioranza ed in essa forse persino dominanti. A dispetto dei "titoli di testa" (Partito della Libertà) sarebbe forse l'ora di svincolarsi dalle abituali distinzioni politiche – quasi “categorie dello spirito”, ormai, prive di reale riscontro con l'azione sul campo – che non fanno che intorbidire le acque del dibattito e nutrire di preconcetti gli astanti.
Nemmeno voglio entrare nella questione del finanziamento pubblico della carta stampata, che non condivido ritenendo speciosa ogni distinzione tra imprese - anche l'editoria dovrebbe avere le stesse regole di tutti - e motivata esclusivamente dagli onnipresenti interessi di partito. Ciascuno si adoperi per conquistare la clientela: se non ci riesce, qualunque sia il motivo, lasci perdere. Beninteso, però, si creino sane condizioni di mercato, senza favori ai soliti noti e, soprattutto, in presenza di una seria legislazione antitrust e di una rigorosa applicazione delle norme.
Chissà, forse aveva ragione lo stesso Giannino, quando mi scrisse - in risposta alla mia confessione di non essere un lettore di singoli giornali cartacei, ma di sfogliarne molti, spesso non italiani e solo le versioni online, "a salti", per giunta.... - "i giornali sono passato ancora per poco prossimo, transeunti in fretta verso remoto".
Tant'è. Per ora, comunque, non resta che augurarsi un'urgente inversione di tendenza. Nel farlo, mi si consenta una non richiesta confidenza.
Grazie del tentativo, Oscar. À bientôt .....
I tempi in cui ho studiato francese sono lontani, ma mi sembra di ricordare che l'accento sulle maiuscole in francese non serve.
Right. Tolto dalla A iniziale ... le altre lettere sono minuscole, solo che secondo il codice del GT si scrivono minuscole anche le lettere maiuscole, quando vanno nei titoli. Non chiedere a me, chiedi a lui.
In altre parole, l'autore ha scritto
A bientôt
ed il codice del GT ha prodotto
A BIENTÔT