Innanzitutto, conviene dire due parole sulle IR. Questa è una disciplina recente (la prima cattedra fu stablita nel 1919). Infatti, nonostante secoli di dispute filosofiche (da Tucidide a Kant), lo studio sistematico della politica internazionale è emerso solo alla fine degli anni '70.
Ciò è probabilmente dovuto alla complessità dell'oggetto di studio (la pace e la guerra) e alla sua incerta relazione con una serie infinita di variabili, tra di loro a loro volta,non chiaramente connesse (economia, diritto, storia, tecnologia, politica domestica, cultura, religione, etc.).
Inoltre, per via del suo oggetto di studio, l'agenda di ricerca delle IR è fondamentalmente dettata dalla politica corrente. Se ciò evita dispute irrilevanti il problema è anche una teorizzazione spesso vuota, lacunosa logicamente o empiricamente debole.
'<h' . (('4') + 1) . '>'Lo studio sistematico... e poi sistemico'</h' . (('4') + 1) . '>'
Nonostante tutte queste difficoltà, la disciplina è riuscita a sviluppare una sua sistematicità. Carr e Morgenthau hanno scritto delle pagine estremamente illuminanti. Ma questi cadevano spesso nella tautologia, nella confusione logica o metodologica. A risolvere il problema ci ha pensato Kenneth N. Waltz, con due volumi, il primo del 1959 e il secondo del 1979. Con il volume del 1959, Waltz ha creato l'analisi per livelli. Pensate alla semplice domanda: cosa causa le guerre? Qualcuno può dire che sono i regimi politici (autoritari). Altri possono affermare che la colpa va ricercata in individui folli o imbelli (Hitler o Bush). Waltz non rigetta nessuna delle due spiegazioni, ma ne avanza una terza che chiama permissiva. Avere un pazzo come Hitler non è causa sufficiente per avere una Seconda Guerra Mondiale. Ciò che serve è anche un sistema internazionale che possa permettere a Hitler di lanciare la sua crociata.
Nel libro del 1979 Waltz approfondisce questo ultimo appunto arrivando a formulare la Teoria delle Relazioni Internazionali. Waltz rileva come storicamente il sistema internazionale sia quasi sempre stato anarchico, ovvero senza un'autorità centrale in grado di far rispettare la legge. In tale sistema, non essendo protette da alcuno, le unità politiche sono preoccupate per loro sicurezza. Ciò genera competizione che a sua volta le porta ad omogeneizzarsi. Poichè gli Stati cercano sicurezza e poichè sono tutti simili, l'unico modo per proteggersi efficacemente è bilanciare la crescita di altre Potenze: la vera minaccia alla loro esistenza. Come? Rafforzandosi internamente o alleandosi con altri Stati. In altre parole (per il piacere dei ''neoclassici'' che mi leggono) il sistema tende sempre all'equilibrio.
'<h' . (('4') + 1) . '>'La fine della Guerra fredda e l'apertura all'eterodossia'</h' . (('4') + 1) . '>'
La grandezza di Waltz non può essere riassunta in poche righe. Per spiegare la sua influenza basti dire che il suo libro del 1959 ha segnato la disciplina per vent'anni fino al 1979, quando è uscito il suo lavoro successivo che ha poi definitivamente rivoluzionato la disciplina. E' interessante notare come i principali tentativi di rispondergli, l'istituzionalismo liberale d Keohane (1984), il razionalismo di Fearon (1995) o il costruttivismo di Wendt (1999), si sono di fatto piegati alla logica di Waltz (come Wendt e Keohane) oppure sono arrivati alle sue stesse conclusioni (Fearon). In altre parole, Waltz ha dettato l'agenda per almeno sessant'anni a tutta una disciplina. Chi non fosse ancora convinto, può leggersi questo passaggio (2000: 27-28). Allora in IR si parlava di pace democratica e globalizzazione. Pensate agli ultimi dieci anni di storia internazionale e giudicate voi chi aveva la teoria più robusta:
Upon the demise of the Soviet Union, the international political system became unipolar. In the light of structural theory, unipolarity appears as the least durable of international configurations. This is so for two main reasons. One is that dominant powers take on too many tasks beyond their own borders, thus weakening themselves in the long run [...]. The other reason for the short duration of unipolarity is that even if a dominant power behaves with moderation, restraint, and forbearance, weaker states will worry about its future behaviour.
Traduzione: Dopo la caduta dell'Unione Sovietica, il sistema politico internazionale divenne unipolare. Alla luce della teoria strutturale, l'unipolarità appare come la meno duratura delle configurazioni internazionali. Ci sono due ragioni principali per questo. Una è che le potenze dominanti intraprendono troppe attività oltre i propri confini, così indebolendosi nel lungo periodo [...]. L'altra ragione per la breve durata dell'unipolarità è che anche se una potenza dominante si comporta con moderazione, autolimitazione e tolleranza, gli stati più deboli si preoccuperanno per il suo comportamento futuro.
Nonostante la sua fama, la sua grandezza, nonostante il suo libro del 1979 sia il più citato in assoluto in IR, la disciplina non è waltziana. Anzi, solo il 30% degli studiosi mette Waltz al primo posto come influenza. Ma il dato ancora più paradossale è un altro: che la disciplina ha preso di gran lunga una piega contro Waltz. Come mai?
Dare una spiegazione è difficile. Innanzitutto va rilevato che chi studia scienza politica è più portato ad essere guidato da agende politiche o normative. Dunque l'evidenza dei fatti fa più difficilmente breccia in certe menti. Ciò spiega perchè nelle IR ci sia sempre stato una rumorosa minoranza marxista e post-modernista. Ma ciò non spiega ancora come mai questo abbia quasi preso il sopravvento negli anni Novanta.
Il punto centrale mi pare essere la fine, inaspettata, della Guerra Fredda. La confusione creata da quell'evento permise a chi per decenni era rimasto ai margini della disciplina di andare alla ribalta. In particolare, tutti quelli che avevano sempre criticato il neo-realismo (e in generale gli approcci epistemologici positivisti) presero questo evento come evidenza della sua incapacità di spiegare la politica internazionale. E di lì iniziò la discesa verso il baratro.
In primo luogo, tutti i tentativi di smentire Waltz non ebbero luogo sulla base di teorie esistenti. Al contrario, si prese quella poca evidenza empirica disponibile per tirare fuori dal cilindro modelli teorici in grado di "spiegare" il crollo dell'URSS. Come è evidente, più che di teorie si trattava principalmente di descrizioni ad-hoc. Ci siamo quindi trovati con un gran numero di "teorie" che spiegano la fine della guerra fredda: tutte diverse e tutte in contraddizione.
Il secondo problema riguarda, appunto, l'evidenza empirica. Raccogliere dati, in economia, al giorno d'oggi è relativamente facile (d'accordo, facile per alcuni problemi e meno facile per altri). In relazioni internazionali non è lo stesso. Molti dati sono segreti. Quelli resi pubblici sono pochi, difficilmente utilizzaibili e imprecisi. Inoltre molti dati sono muti. La spesa in armamenti di per sè non dice nulla se non è accompagnata da descrizioni minuziose sulla sua allocazione: per esempio, il numero di ore di addestramento è fondamentale per capire la preparazione di un'aeronautica militare.
Ciononostante, tutti i giornali iniziarono a pubblicare questi articoli basati su teorie discutibili ed evidenza empirica scarsa.
'<h' . (('4') + 1) . '>'I fatti'</h' . (('4') + 1) . '>'
Per riassumere, conviene concentrarsi sull'articolo che ha fatto più rumore, quello di Wendt del 1992. A suo modo di vedere, la causa permissiva individuata da Waltz, la natura anarchica del sistema internazionale, non sarebbe sufficiente a spiegare le relazioni tra Stati. Invece, sarebbe necessario considerare il ruolo delle norme intersoggetivamente condivise e di come esse determino la natura (pacifica, conflittuale, competitiva, etc.) del sistema internazionale. In particolare, partendo dallo strutturazionismo di Giddens, Wendt identifica la causa della fine della Guerra Fredda nell'abbandono della dottrina Breznev da parte dell'URSS. Così, in breve, si favorì un cambiamento della comprensione intersoggettivamente condivisa delle relazioni internazionali (ovvero la fine della Guerra Fredda). Fate una prova: andate nel dipartimento di scienze politiche accanto a voi, e chiedete cosa causò la fine della Guerra Fredda. Con poche eccezioni, la risposta sarà "a change in norms". Esattamente la spiegazione di Wendt. Come stanno le cose? Un po' diversamente.
In primo luogo, Wendt afferma fondamentalmente che la causa della fine della Guerra Fredda fu , per così dire, ideazionale. Fu dovuta ciò alle idee intersoggettivamente condivise tra gli Stati. Ciò significa che se questo cambiamento fosse avvenuto all'apice del potere sovietico, la Guerra Fredda sarebbe finita lo stesso. Il problema è che la Guerra Fredda è finita quando l'URSS era in declino. Prima di definire se Wendt ha torto o ragione, rileviamo in primo luogo un problema di "co-variation" che rende difficile valutare la sua affermazione. Se leggete il suo saggio, però, ad un certo punto Wendt dice che i fattori che portarono ad abbandonare la dottrina Breznev furono molti...."tra cui il declino economico". A me questa sembra una chiara sconfessione di tutto il polpettone costruttivista proposto in precedenza, perchè prima si discute per pagine e pagine sul ruolo indipendente delle idee e poi, alla fine, si afferma che queste idee sono il prodotto di altri fattori (quelli materiali, come sottolineano i neorealisti).
Tutto qui? Non proprio. Nonostante questi problemi di metodo e di logica, l'articolo di Wendt ebbe un enorme successo. Ricordiamo però che l'articolo fu scritto quando di dati non ce n'erano ancora. Bisogna dunque chiedersi cosa sia successo quando gli archivi sovietici sono stati aperti. Come Wohlforth (1993) e Brooks e Wohlforth (1999) hanno documentato, non ci fu nessun abbandono compassionevole della dottrina Breznev, né tanto meno un approccio più disteso nelle relazioni tra Washington e Mosca (vedi il famoso "oh... I am weeping for you Mr. Gorbachev" di Baker). L'Unione Sovietica è crollata sotto il peso delle sue contraddizioni politiche ed economiche. I suoi gerarchi hanno cercato di tenerla in vita fino all'ultimo. In particolare, la loro disponibilità al dialogo (e quindi la moderazione delal loro politica estera) aumentava man mano che venivano aggiornati sulla tragicità della situazione. In altre parole, "anarchy is what it is". Non ci fu nessuna norma sociale che favorì la fine della Guerra Fredda. E soprattutto, senza declino economico non ci sarebbe stato nessun abbandono della Dottrina Breznev. Ma non è tutto, ex-post, la teoria che spiega meglio la fine della Guerra Fredda è il (neo)realismo (la questione è controversa e non posso dilungarmi oltre: chi è interessato veda Wohlforth, 1998 e Wohlforth and Schweller, 2000).
'<h' . (('4') + 1) . '>'Le implicazioni sulla disciplina'</h' . (('4') + 1) . '>'
Alla luce degli studi di Wohlforth e Brooks, ci si aspetterebbe che Wendt ora sia rinnegato. Invece tutti continuano a dire che la fine della Guerra Fredda fu dovuta ad un "change in norms". Singolare, no? La mia spiegazione è semplice. La disciplina si aprì metodologicamente e ciò portò a dibattiti (che vi risparmio) anche epistemologici ed ontologici. In questa maniera, per dirla in breve, la disciplina si è aperta a tutto. Basti pensare al femminismo (vedete voi se ridere o piangere). Una volta aperte le gabbie è poi difficile chiuderle. Tre problemi mi sembrano di particolare rilevanza.
In primo luogo, c'è una divisione all'interno della disciplina che non giova a nessuno, specie alla disciplina stessa. I dibattiti sono utili, non le guerre ideologiche. Non avendo fondamentalmente idee innovative o problemi da affrontare, gran parte di questa metà della disciplina passa il suo tempo solo a criticare positivismo e neorealismo, spesso facendone parodie più che descrizioni, o ad accusarlo per i mali del mondo. A ciò si somma la sua totale indisponibilità al dialogo, come dimostra il fatto che la spiegazione di Wendt sia ancora accettata sebbene sia stata empiricamente sconfessata.
Ciò ha poi, a sua volta, favorito il settarismo. Se i positivisti hanno dato accesso ai costruttivisti pensando, in buona fede, che questi avessero qualcosa da dire, ora sta avvenendo l'opposto. I costruttivisti tendono a organizzare i loro corsi sulla base di un punto di vista parziale, dove le letture chiave (come quelle che ho indicato) mancano e si favoriscono interpretazioni ridicole del positivismo. Il problema è che non solo si spinge per un'ideologizzazione degli studenti (che è ciò che i costruttivisti chiamano "socializzazione delle idee"), ma le ripercussioni si vedono poi anche nell'assegnazione delle tenure (la promozione a membro permanente di un dipartimento). Quando dei professori esterni vengono chiamati per identificare il candidato più promettente, sembra ci sia la tendenza tra i costruttivisti ad aiutarsi a vicenda. Ciò spiegherebbe una serie davvero singolare di tenure negate a docenti di primissimo piano (positivisti) e accordate ad individui di terzo o quarto rango (costruttivisti) (vedi Mearsheimer, 2005a e 2005b).
In secondo luogo, si è avallato un approccio non scientifico. Non mi riferisco tanto ai problemi tautologici del costruttivismo (Desch, 1998), parlo proprio di come la ricerca venga pensata in maniera non scientifica. Studiosi come Wendt, Finnemore, Tannenwald, Barnett, Adler, Katzenstein sono diventati famosi non dimostrando i problemi del neorealismo (o degli approcci positivisti più in generale), ma facendone uno straw-man così da giustificare la necessità di un nuovo quadro teorico. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è che la maggior parte dei paper presentati alle conferenze si inventa un problema per giustificare il suo metodo prediletto. Detto semplicemente: si offrono lunghissime pappine basate su "norms", "embeddedness", "social construction" e "intersubjectivity" per spiegare "puzzle" che in realtà, usando game-theory, la statistica o case-studies deduttivi, non sarebbero "puzzles". Un esempio? Nel 2004 il mio ex-professore Barry Buzan ha scritto un libro sugli Stati Uniti. Secondo la sua prospettiva, l'egemonia americana, parafrasando Wendt, sarebbe "what states make out of it". Tradotto: l'egemonia americana si reggerebbe sulla sua accettazione e legittimità da parte della "comunità internazionale" (qualunque cosa questa parola significhi). Il mio dubbio è semplice: è davvero il caso di spendere soldi, tempo ed energie per scrivere tali banalità quando abbiamo studi che già spiegano l'egemonia americana sulla base di una nuova computazione dell'indice CINC del COW (Wohlforth, 1999) o sulla base del "command of the commons americano" (Posen, 2003)? No, anche perchè la logica controfattuale (Fearon, 1991) smentisce Buzan: come mai l'egemonia è americana e non, che ne so, del Vaticano? (devo davvero rispondere?)
Qui arriviamo all'ultimo problema. L'apertura all'eterodossia ora significa che chiunque può dire cosa vuole, ignorando allegramente gli studi che lo smentiscono e addirittura la letteratura esistente, per non parlare poi dei dati. Per criticare il costruttivismo io mi sono letto gran parte dei lavori di questa branca. Purtroppo, non si può dire il contrario: gran parte dei costruttivisti semplicemente non ha mai letto non solo il neo-realismo ma anche tutti i lavori semplici semplici in political economy che potrebbero servire per spiegare molte delle questioni che indagano (vedi questo paper: Goddard, 2006).
'<h' . (('4') + 1) . '>'Conclusioni'</h' . (('4') + 1) . '>'
Siamo partiti dal dibattito aperto dalla lettera dei cento economisti per capire quali potrebbero essere le conseguenze di un'apertura agli studiosi critici. Vediamo quali insegnamenti ci dà la storia delle IR.
In primo luogo, i costruttivisti (come gli eterodossi in economia) hanno sempre avuto ampio spazio accademico (Kratochwil, 1982: si anche il suo CV). Il dato interessante è che questi si lamentavano allora della loro emarginazione (Ahsley, 1984) e si lamentano ancora oggi, nonostante adesso siano sovrarappresentati (specie rispetto alla qualità delle loro pubblicazioni: per un esempio di queste degenerazioni si veda Smith in Reus-Smith and Snidal, 2008). Dunque questi richiami possono essere tranquillamente lasciati cadere nel silenzio: non smetteranno mai.
C'è la questione della maggiore apertura. In IR è avvenuta in maniera quasi incondizionata verso l'ondata post-modernista prima ancora che questa portasse dati a suo favore (Schweller, 1999) o teorie vere e proprie. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Tantissima speculazione basata sul nulla. Moltissime pseudo-teorie che oscillano tra l'irrilevanza e la tautologia.
Ciò di fatto ha aperto l'accademia a moltissima gente che in realtà voleva fare politica ma non aveva doti carismatiche o retoriche adeguate. La comunità scientifica si è così spaccata, si è dovuta occupare di dibattiti in larga parte futili e soprattutto ha visto lo spezzettamento dei propri fondi verso individui o progetti che semplicemente non valgono neppure l'imballaggio nel quale sono spediti (vedesi Katzenstein, 1996).
Una seconda, importante, implicazione si è avuta sulla formazione dei nuovi studiosi. Si è favorito l'indottrinamento degli studenti e si è cercato di interferire con il sistema di tenure sostenendo non i candidati più validi ma, invece, quelli ideologicamente più vicini. Tutto ciò per difendere il "pluralismo".
Le ultime due implicazioni sono a livello scientifico. In primo luogo, le IR hanno perso quella già scarsa comulatività che avevano cercato di guadagnare. Oramai la teorizzazione degli ultima anni assomiglia ad un "liberi tutti", dove ognuno spiega un problema sconnesso dagli altri. E' probabile che ciò derivi anche dalla natura dell'oggetto di studio. La mia impressione è che l'ondata costruttivista abbia contribuito a questo fenomeno sia per via della sua epistemologia critica che per via del suo approccio anti-scientifico: anziché partire dalle teorie esistenti i costruttivisti ne hanno volute fare di nuove.
In secondo luogo, c'è stata un'ondata di pubblicazioni e agende di ricerca inutili (perchè metodologicamente e teoricamente infondate). Per darvi un'idea, guardate le conclusioni di questo forum: dopo dieci e più anni anni di lavoro, questi signori ammettono che l'evidenza non va a loro favore. Si fossero fermati al 1998 con il libro di Moravcsik (che non è un realista) ci sarebbero arrivati prima e ci avremmo guadagnato tutti. Il dato drammatico è che non si sono fermati neppure nel 2005: nonostante l'evidenza, tirata per i capelli in tutti i modi, non li sostenga, questi continuano imperterriti.
Come concludere? Forse basta semplicemente prendere quanto diceva Denimg, "In God we trust. All others must bring data." Che tradotto vuole dire che chi si vuole sedere a tavola deve rispettare le norme minime di igiene ed educazione. Questa almeno è la ricetta per preservare una disciplina. Altrimenti si può sempre prendere la strada percorsa dalle IR.
Grazie per l'articolo. Per una persona profana come me, questo articolo ma il sito intero, sono non solo una bilbliografia utilissima ma una scuola di metodologia ed un avvicinamento al mondo accademico e scientifico che arricchisce chi lo frequenta.