Se c’è una cosa che il referendum di giovedì scorso nel Regno Unito ci ha insegnato è che con il voto non si scherza: i dilettanti non sono ammessi al gioco della democrazia e chi viola questa regola ne paga le conseguenze in maniera devastante, soprattutto in termini di credibilità. Comunque la si pensi, che si fosse tifosi del “Leave” o del “Remain”, non si può nascondere la clamorosa impreparazione con la quale le classi dirigenti inglesi hanno affrontato il referendum. Meglio, le sue possibili conseguenze e quella della vittoria del "Leave" in particolare.
Poche ore sono bastate per dimostrarlo: già venerdì Nigel Farage ha dichiarato in diretta TV che uno dei cavalli di battaglia del fronte favorevole all’uscita – la possibilità di riversare sul sistema sanitario nazionale i danari fino ad oggi versati all’UE - era una panzana bella e buona, “uno degli errori della campagna del Leave”; con la stessa faccia di tolla, e sempre a poche ore dal responso delle urne, l’altro leader dei brexiters, Boris Johnson, si è lasciato andare a un discorso estremamente conciliante verso la UE, condito di inviti alla cautela, addirittura affermando che “nulla cambierà nel breve termine” e che non c’è “alcuna fretta” di affrontare i negoziati per l’uscita.
Nel frattempo il premier scozzese Nicola Sturgeon, forte della larga maggioranza riscontrata dal “Remain” nel suo Paese, fa gentilmente presente che di lasciare la UE senza il consenso del Parlamento di Edimburgo non se ne parla, e ciò non per semplice amore del caos, ma perché le leggi sulla “devolution” (leggi britanniche, leggi in materia costituzionale) prevedono che, guarda un po’, quel consenso, probabilmente, è necessario.
Infine, ieri mattina, il Cancelliere dello Scacchiere Osborne ha dichiarato candidamente: “Usciremo dalla UE solo quando avremo un piano”, implicitamente ammettendo di non averne uno! Oggi invece, come sappiamo, il Parlamento Europeo, su esplicito invito del Presidente della Commissione Juncker, ha votato a grande maggioranza per l'avvio immediato delle trattative con il governo UK per l'uscita del medesimo dalla UE. È istruttivo dare un'occhiata alla distribuzione dei voti ed alle motivazioni espresse dai vari capi-gruppo per il voto a favore e, soprattutto, contro tale mozione. Potrebbe far capire a qualcuno come il campo "anti-UE" abbia un disperato bisogno della UE medesima come uomo di paglia su cui riversare l'animosità dell'elettorato "arrabbiato" al solo fine di raccoglierne il voto. Il quale, una volta raccolto, verrà usato per ben altri fini. Ma andiamo avanti e torniamo al Regno Unito.
In altre e meno diplomatiche parole, cari attoniti cittadini continentali dell’UE, i brexiters volevano solo fare un po’ di casino, divertirsi un po’, buttarla in caciara: loro per primi non pensavano che potesse vincere il “Leave”. Stavano solo scherzando.
La confusione istituzionale britannica si riflette, inevitabilmente, anche nella confusione di decine, forse centinaia di migliaia, di cittadini inglesi che hanno (almeno a dare credito alle molte dichiarazioni di queste ore) votato per il “Leave” ed hanno ammesso di averlo fatto “solo per protesta”, confidando che il senso di responsabilità degli altri alla fine avrebbe fatto prevalere il “Remain”.
Insomma, se fino al 23 giugno avevamo un popolo di euroscettici, oggi ci troviamo davanti a un popolo di pentiti.
Come finirà non lo sapremo presto. Ci vorranno mesi o anche anni per capire quali saranno le reali conseguenze del voto del 23 giugno sull’Unione Europea e sulla Gran Bretagna, sulla tenuta di un sistema istituzionale che, almeno dai tempi di Guglielmo d’Orange, si era sempre contraddistinto per un amore incondizionato per la stabilità e per la conservazione.
Alcune riflessioni però possiamo farle già ora:
1) È altamente probabile che molti dei movimenti politici e d’opinione comunemente etichettati come “euroscettici”, e sorti un po’ ovunque in Europa, non abbiano la minima idea delle conseguenze delle varie proposte che sbandierano;
2) È, anzi, altamente probabile che l’unico vero obbiettivo di molti di questi movimenti sia semplicemente “agitare lo stomaco” dell’elettorato, senza curarsi di dare un vero costrutto all’alternativa che propongono;
3) È ancor più probabile, infine, che questo pressappochismo sia il sintomo di un’altra più profonda debolezza: la sfiducia di quegli stessi movimenti nella bontà delle proprie battaglie. Credono che la disgregazione dell’Unione sia un valore solo perché sanno che in fondo non vinceranno mai e mai dovranno assumersi la responsabilità di gestire le conseguenze delle proprie “vittorie”.
Del resto anche il dibattito italiano sull’Euro rimane asfitticamente privo di valide risposte ai numerosi, banalissimi, quesiti che nascono innanzi alle incomprensibili certezze di chi propaganda l’uscita dall’Unione e altre amenità: e poi? Un minuto dopo la liberazione dalla “dittatura di Bruxelles” che si fa? A chi lo vendiamo il debito pubblico italiano? Come finanziamo l’enorme macchina amministrativa di questo infelice Paese? Chi sostituisce la BCE nel ruolo di stampella delle banche italiane piene zeppe di sofferenze?
Non voglio annoiarvi coi soliti, noiosissimi, slogan europeisti del tipo “Ci vuole più Europa” o “L’Europa si cambia da dentro” (che peraltro reputo gli unici sensati, di questi tempi); non voglio fare terrorismo prevedendo il disastro per gli inglesi e minacciando il disastro a italiani, francesi e olandesi: la verità è che nessuno, davvero nessuno, sa cosa succederebbe se l’UE deflagrasse, nessuno dei vari Otelma anti-UE ha anche solo uno straccio di modello di previsione, una striminzita statistica sulla quale ragionare. Anzi, nemmeno hanno idea di dove sia Dublino.
E, dunque, mi limito a chiedere ai molti espertoni della sovranità monetaria, neo-nazionalisti della quota-latte, revanchisti della vongola, imbonitori del popolo affamato: ditemi, miei cari, fate sul serio?
Il terzo paragrafo e il quarto sono uguali al primo...
E' il sommario che viene ripetuto nell'articolo.
Ho provato a toglierlo ma non funziona