La crisi greca ha preoccupanti implicazioni sistemiche. Da inizio anno i mercati globali sono stati influenzati fortememente dalle aspettative sul ritorno alla normalità nella politica monetaria e dalla situazione dei conti pubblici in Grecia. I due elementi sono strettamente collegati perché il rialzo dei tassi segnerebbe (almeno per molti analisti ed economisti di mercato) l'uscita dalla fase di emergenza, mentre la bancarotta di uno stato sovrano rappresenterebbe un vistoso fallimento della strategia di politica economica sin qui seguita a livello globale.
L'opinione pubblica e gli investitori erano stati indotti a credere che le misure eccezionali adottate a cavallo tra il 2008 ed il 2009 avrebbe stabilizzato la crisi e in breve tempo i germogli della crescita sarebbero spuntati. La ripresa avrebbe permesso di riassorbire gradualmente, ma senza traumi, i debiti accumulati durante la fase di emergenza. E infatti nella tarda primavera del 2009 i giornali, i discorsi dei banchieri centrali e le dichiarazioni dei Ministri erano infarcite di riferimenti a questi germogli. Ma a partire dall'autunno scorso, con il continuo aumento della disoccupazione in America e l'affievolirsi della crescita in Europa, gli atteggiamenti sono diventati più prudenti e i riferimenti ai germogli più sfumati, fino a sparire quando il tasso di crescita nel quarto trimestre del 2009 ha lambito lo zero.
I mercati -- che avevano scommesso sullo scenario della ripresa robusta (grazie ai prestiti a tasso quasi zero dalle banche centrali) -- sentono la fiducia vacillare da inizio anno. In questo clima la Grecia ha assunto il ruolo del canarino in miniera, al di là delle cifre in ballo per il rifinanziamento del suo debito che in una situazione normale non sarebbero tali da far deragliare l'economia mondiale.
La paura che aleggia non è legata in senso stretto alla sostenibilità del debito greco, ma all'ipotesi che le misure di stimolo si rivelino inefficaci a livello globale, e quindi a uno scenario in cui molti governi si ritroverebbero a fronteggiare una montagna di debiti e un'economia ancora più debole (per il peso degli interessi). Ecco perché le tensioni si scaricano non solo sulla Grecia ma sui mercati dei titoli a reddito fisso nelle economie mature (risparmiando molti mercati emergenti già usciti dalla crisi) a partire da quelli che rischiano di essere coinvolti in un effetto domino: nell'immediato Portogallo, Spagna, Irlanda, Italia. Ma l'onda d'urto si abbatterebbe poi sul Regno Unito (forse dopo le elezioni che potrebbero produrre un Parlamento senza maggioranza) e non risparmierebbe il Tesoro americano.
Per questo il test greco ha una valenza che trascende l'Europa e dovrebbe essere affrontato anche al di fuori delle chiuse stanze di Bruxelles e Francoforte. Dopo la presentazione del terzo piano di austerità in meno di tre mesi, bisognerebbe chiedersi quanto possano durare ancora minuetti e schermaglie tra Bruxelles, Atene e le altre capitali, e con quale credibilità le istituzioni europee possano convincere i mercati attraverso ambigui “contingency plans” tipo quello varato dai ministri dell'eurozona il 16 marzo.
In definitiva, le autorità comunitarie e quelle nazionali non solo in Europa dovrebbero aver chiaro che la strategia per evitare una ripetizione della Grande Depressione si incardina su un implicito contratto sociale: risorse senza precedenti in tempo di pace (finanziate con debiti che graveranno sulle generazioni future) e poteri vastissimi, sono stati concessi ai governi per ristabilire le condizioni di una crescita sostenibile attraverso riforme strutturali in quattro direzioni: a) l'architettura finanziaria e la regolamentazione dei mercati, b) l'eliminazione delle rendite e degli sprechi, c) la razionalizzazione dello stato sociale (a partire dai sistemi pensionistici fuori controllo quasi dappertutto), d) il riassetto degli squilibri nelle partite correnti.
Finora i progressi sono stati trascurabili, quindi le risorse sottratte alle generazioni future rischiano di essere semplicemente dilapidate nel vano tentativo di perpetuare uno status quo insostenibile. La Grecia è solo il caso più macroscopico, frutto avvelenato di una situazione disastrata già prima della crisi (e malamente celata da imbrogli contabili). Ma è solo una questione di tempo, probabilmente mesi, prima che altri paesi raggiungano un analogo punto critico. Quindi sarebbe meglio concentrarsi (non solo in Grecia) sulle riforme di ampio respiro che riportino il sistema economico su un binario di efficienza ed eliminino gli sperperi che la classe politica predilige per assicurarsi il consenso elettorale.
Il sostegno ai conti pubblici in Grecia (e ovunque si rendesse necessario) dovrebbe essere condizionato a misure chiare di medio periodo, sotto il controllo di un organismo indipendente dalle resistenze e dalle pressioni che inevitabilmente si scateneranno (anzi, si sono già scatenate) contro l'inversione di rotta. È facile fissare limiti al rapporto deficit/Pil o altri parametri macro, difficile è far approvare le leggi ed i provvedimenti che consentano di raggiungere gli obiettivi. Questo processo è lungo e irto di ostacoli, in Grecia come in qualsiasi nazione. Né la Commissione Europea, già emascolata sul rispetto dei parametri di Maastricht, né la BCE che non ne ha il mandato, possono esercitare un controllo pervasivo e inchiodare un governo al rispetto degli impegni sottoscritti. Creare il Fondo Monetario Europeo (anche volendo concedere in astratto che sia una buona idea, ma personalmente ne dubito) richiederebbe comunque troppo tempo. L'unica alternativa concreta rimane il Fondo Monetario Internazionale. Tergiversare è oltremodo pericoloso, non solo per la Grecia.
Guardando le ultime cifre di Eichengreen e O'Rourke, la mia conclusione e' che la Grande Depressione e' gia stata evitata. Vedi per esempio l'andamento della produzione industriale secondo questi due autori. Su questo sono piu ottimista di Lei.
Il problema adesso pero' sono (come dice Lei) gli enormi squilibri fiscali che si sono creati in molti paesi. Ma credo che il caso della Grecia e di UK/USA siano molto diversi:
1) La Grecia ha problemi urgenti, ma e' un paese piccolo. (GDP $ 340 billion 2008, contro 1817 billion per l' Italia per esempio). Il suo debito potrebbe in teoria essere risanato senza troppe difficolta dagli altri paesi europei o il FMI.
2) USA e UK hanno debito publico molto maggiore, ma non hanno la stessa urgenza della Grecia. Certo, devono sbrigarsi a trovare una soluzione, ma non sono con l'acqua alla gola come la Grecia.
Non credo che un accostamento di questi due casi, come fa Lei nel suo articolo, sia credibile o utile a risolvere questi problemi.
Caro Alex,
In effetti non intendo mettere sullo stresso piano della Grecia, UK e USA per i motivi che tu sottolinei. Infatti nel post sono esplicito nell'asserire che di per se' l'ammontare del debito greco non e' tale da far deragliare l'economia mondiale. Il punto che volevo sottolineare e' il segnale (l'effetto canarino) che i mercati trarrebbero dalla bancarotta della Grecia, che rischia di minare la fiducia sulla sostenibilita' del debito di tutti i paesi OCSE con un effetto domino.
Pochi giorni fa Moody's ha avvertito che la Tripla A sul debito di USA e UK e' a rischio. Questo debito rappresenta oggi il tritolo sotto le strutture portanti del sistema finanziario mondiale tenute insieme dalla fiducia sulla solvibilita' dei grandi debitori (inclusa l'Italia). La Grecia, a mio avviso, e' solo una miccia (se l'analogia con il canarino non sembra calzante).