Due professori corrono sotto la pioggia in un campus americano. Uno dei due è più anziano e di origine Europea (io dico che è italiano, ma andrò all'inferno perché penso male). Mentre corrono, al primo sfugge una battuta un po' inappropriata: "sai che se fossimo in Europa toccherebbe al giovane assistente reggere l'ombrello al professore?" L'altro senza scomporsi risponde:
"se hai nostalgia di certe pratiche, perché non te ne torni in Europa?"
Questo aneddoto è uno dei passaggi più interessanti di un volume che ho molto apprezzato e credo sia un utile punto di partenza per parlarne. Manifesto Capitalista è il titolo (infelice, a mio avviso, traduzione di A capitalism for the people) dell'ultimo libro di Luigi Zingales, un testo che parla di economia, ma anche di etica; dei benefici che il capitalismo può portare alla collettività, ma anche delle sue possibili degenerazioni, il tutto analizzando e illustrando in modo asettico ruolo e responsabilità degli intellettuali, in primis degli economisti e delle classi dirigenti. Il libro è diviso in due parti, nella prima c'è una diagnosi dei motivi alla base del calo di popolarità registrato dal modello capitalista negli Stati Uniti e nella seconda una serie di proposte per non gettare l'acqua col bambino, ossia evitare che l'avversione, giustamente suscitata da alcune degenerazioni clientelari, possa rivoltarsi contro il meccanismo virtuoso del mercato.
Il giovane dell'esempio iniziale si è potuto permettere una risposta di quel tipo, rara tra molti suoi omologhi d'oltreoceano (e non solo), perché l'accesa concorrenza tra i vari atenei per aggiudicarsi i talenti migliori lo mette al riparo dalle eventuali decisioni arbitrarie di colleghi più anziani. Dunque la concorrenza promuove il merito e questo meccanismo consente ad alcune delle istituzioni che competono tra loro di raggiungere l'eccellenza. Tuttavia, man mano che la concorrenza diventa globale, il premio per il ristretto numero dei vincitori si fa smisuratamente grande rispetto a quel che ottiene chi è rimasto indietro: nel 1948 il primo premio dei Masters di golf negli stati uniti era pari a 3 volte il salario annuo di un addetto alla cura del green, nel 2008 questo rapporto era salito a 103 volte. Dunque la disuguaglianza aumenta e si porta a livelli ritenuti preoccupanti anche dall'Economist che a questo tema ha dedicato un recente special report.
Ma non è tanto la disuguaglianza in sè, ancorché in crescita, a suscitare l'indignazione popolare, quanto la percezione che essa non sia il risultato di un processo di competizione meritocratica ad armi pari e che non sia più accompagnata da una crescita generalizzata del benessere per tutta la popolazione. Le due facce di questa indignazione sono rappresentate dai movimenti, in apparenza antitetici, di Occupy Wall Street e del Tea Party. Che si tratti dello stato ipertrofico o delle banche troppo grandi per fallire il popolo americano sente una crescente avversione verso quella che percepisce come una specie di scommessa truccata del tipo "testa vinco io, croce perdi tu". E' esattamente questo il meccanismo dei salvataggi delle imprese operati dallo stato che, alimentando il moral hazard, gettano le basi per disastri ancora maggiori in futuro. Come Zingales ripete spesso, un cartello nel Grand Canyon dice di non dare da mangiare agli animali, altrimenti perdono l'abilità di cacciare e procurarsi il cibo da soli. I sussidi e i salvataggi delle imprese funzionano allo stesso modo.
Ma come si può evitare che il paese delle opportunità, nella quale l'autore ha trovato riparo 25 anni fa, degeneri per rassomigliare sempre più alla "terra dei cachi" da cui era scappato? La soluzione non può venire dal protezionismo (come ottimamente illustrato nell'esempio di un immaginario torneo di Wimbledon riservato solo agli inglesi) né tanto meno da un maggiore intervento dello stato, che è parte integrante del problema. Occorre livellare il campo di gioco per garantire eguali opportunità in partenza (ancora un calzante esempio sportivo, il sistema degli handicap nel golf) in modo che in seguito la concorrenza possa dispiegare i suoi effetti positivi contribuendo a ridurre le disuguaglianze. Occorre un'etica basata sul mercato e per svilupparla gli economisti dovrebbero abbandonare le loro reticenze nei confronti delle considerazioni morali. Occorre infine che vi sia semplificazione nelle norme, nei sistemi fiscali e nella regolamentazione finanziaria e la massima trasparenza e diffusione delle informazioni in modo i risultati delle analisi basati su di esse, se sufficientemente indipendenti (anche qui la garanzia è data dalla concorrenza) ed espressi in linguaggio divulgativo, possano esercitare una positiva moral suasion sui politici e le grandi imprese.
A capitalism for the people (non me ne vogliano i titolisti dell'editore italiano) è una lettura raccomandabile sia per chi è digiuno di economia che per gli economisti di professione. Ai primi consentirà di comprendere una serie di concetti di base (come la distinzione tra il capitalismo e la sua degenerazione clientelare) attraverso esempi e aneddoti di immediata comprensione. Ai secondi suggerirà nuovi percorsi di autocritica, soprattutto per quanto riguarda le implicazioni morali di una materia che troppi di loro vorrebbero fosse più vicina alle scienze naturali, e la necessità di scendere dal piedistallo per divulgare le proprie analisi ed esporle al vasto pubblico in linguaggio comprensibile.
Per concludere, vista l'adesione del sottoscritto e di questo blog a Fermare il declino, movimento che l'autore ha contribuito a fondare, ho regalato una copia del libro a mia moglie e una a mia zia, che generalmente sono poco sono interessate alle tematiche economiche. Hanno accolto il dono con un certo scetticismo, inizialmente. Cambieranno idea? Forse la via per fermare il declino passa anche da qui, dall'essere meno elitari.