Il Monte dei Paschi ha vissuto una serie di eventi alquanto straordinari nelle ultime settimane. A fine luglio, la banca è risultata la peggiore d’Europa negli stress tests della European Banking Authority, ritrovandosi con un'ipotesi di capitale negativo nel così detto. “scenario avverso” per il 2018. Lo stesso giorno, il suo Consiglio di Amministrazione aveva annunciato un piano di ristrutturazione e ricapitalizzazione estremamente ambizioso, inizialmente da realizzarsi interamente con capitali privati, sul quale da settimane circolano le voci e indiscrezioni più svariate. Più di recente, a seguito di voci su un disaccordo tra il management della banca e i suoi consulenti finanziari, l’amministratore delegato del Monte, Fabrizio Viola, veniva invitato a farsi da parte dal Ministro dell’Economia, che rappresenta il primo azionista della banca. La ricerca per un nuovo amministratore delegato si apriva e chiudeva in meno di una settimana, con l’assegnazione dell’incarico a Marco Morelli, al momento responsabile per l’Italia di Merrill Lynch – Bank of America e in passato già Chief Financial Officer di MPS e banchiere al servizio di Morgan (che è anche tra gli autori del nuovo piano di ricapitalizzazione di MPS). Il giorno stesso in cui il CdA nominava Morelli, il presidente della Banca, Massimo Tononi, presentava le sue dimissioni, apparentemente per disaccordi sulla sostituzione dell’AD.
Tutto questo si svolgeva sullo sfondo di dichiarazioni apertamente contrastanti tra il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi e il Ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, circa la tempistica dell’aumento di capitale. Infine, dopo l’ottimismo associato all'annuncio iniziale del piano, nelle fonti di stampa e sui social abbondano da qualche settimana le indiscrezioni su un probabile coinvolgimento dei detentori delle obbligazioni subordinate di MPS nel piano di ristrutturazione, nonostante questo fosse stato esplicitamente escluso all’inizio. Una notizia di Reuters del 22 settembre suggerisce addirittura che tre funzionari dell’EU avrebbero dichiarato che si aspettano che il salvataggio di MPS necessiterà di fondi pubblici. Non sorprende che le azioni della banca scambino ai minimi storici assoluti e che i prezzi delle obbligazioni subordinate siano pure prossime ai minimi. Come è possibile che un piano di ristrutturazione di importanza strategica per l’Italia e il suo sistema bancario venga a trovarsi in una situazione così caotica?
I mercati finanziari, già ai primi di agosto, avevano accolto il piano di ristrutturazione con un certo scetticismo. Vi sono probabilmente diverse cause dietro a questa reazione iniziale, ma due risaltano in modo particolare. In primis, i mercati hanno preso coscienza, forse un po’ in ritardo, della differenza tra superare gli stress tests e superare gli stress tests senza subire una marcata riduzione delle riserve di capitale di vigilanza (nel cosiddetto “scenario avverso 2018”). Il superamento degli stress tests con il mantenimento da parte delle banche in questione di un rapporto di capitale CET1 al di sopra di una soglia minima significa semplicemente che tali istituti non sarebbero stati immediatamente soggetti a una dichiarazione di insolvenza di fatto. Ma questo non vuol dire che la banca in questa situazione non avrebbe dovuto raccogliere capitale aggiuntivo. Il secondo fattore riguarda la redditività delle banche. L’annuncio di Commerzbank su un previsto calo dei suoi utili, pubblicato a inizio agosto, ha probabilmente giocato un ruolo importante. Anche in questo caso, gli annunci da parte di banche sulla redditività futura non sono una novità. Ma un conto è fare considerazioni sulla possibilità di una contrazione dei margini per via dei tassi negativi, altra cosa è trovarsi di fronte a un avvertimento circonstanziato e puntuale da parte della seconda maggior banca della prima economia dell’Eurozona.
Vi sono poi i dettagli specifici del piano proposto per MPS, di quanto questo piano avrebbe potuto fare per porre fine a mesi di incertezza sul sistema bancario italiano, e di quali sarebbero state le sue implicazioni per le valutazioni del resto delle banche italiane. Prima di passare un analisi dettagliata del piano, vale la pena di fare un passo indietro nel tempo e considerare come si sia arrivati al punto in cui ci troviamo.
Il problema degli NPL e la ricerca del capitale
Il piano MPS è stato il momento culminante (sinora) di una serie di tentativi da parte delle autorità italiane di risolvere il problema dell’elevato livello delle esposizioni creditizie dubbie (NPL) del sistema bancario. A gennaio di quest’anno, dopo un negoziato che secondo alcune fonti di stampa era durato un anno, il ministro delle finanze italiano Padoan apparentemente falliva nell'intento di convincere i suoi pari nell’Eurogruppo e la Commissaria Margarethe Vestager ad autorizzare l’Italia a creare una bad bank, appoggiata dal settore pubblico e a condizioni che l’Italia avrebbe ritenuto accettabili. Come soluzione di ripiego, e con l’accordo della Commissione Europea (EC) le autorità decisero di varare un meccanismo di garanzie fornite dal settore pubblico, ma a prezzi di mercato (chiamate Garanzia Cartolarizzazioni e Sofferenze, abbreviato in GACS) che avrebbero dovuto incentivare la cartolarizzazione dei crediti deteriorati. Nonostante gli annunci iniziali che programmi di cartolarizzazione per decine di miliardi si sarebbero realizzati in tempi brevi grazie alle GACS, fino ad oggi tali annunci non hanno avuto seguito. La dismissione dei portafogli delle NPL bancarie a valutazioni vicine a quelle di mercato avrebbe portato, anche in presenza delle GACS, alla creazione di vaste perdite contabili per le banche venditrici. Poiché nessuna delle banche in questione beneficia di un surplus di capitale di vigilanza, aumenti di capitale corrispondentemente elevati si sarebbero resi necessari. Ma qualsiasi ipotesi di raccolta di nuovi capitali dal mercato viene vista come un’alternativa sempre più difficile da percorre da parte delle banche e dei loro C.d.A.
L’unica alternativa plausibile ad aumenti di capitale così onerosi sarebbe stato un intervento del governo utilizzando fondi pubblici, analogamente a quanto fu fatto negli Stati Uniti durante il programma TARP-2 nel 2008-2009. Ma, nell’ambito della nuova normativa EU per la risoluzione e ristrutturazione bancaria (BRRD), entrata in vigore il 1 gennaio 2016, qualsiasi forma di intervento pubblico per ricapitalizzare le banche avrebbe richiesto un coinvolgimento forzoso, o “bail-in”, di obbligazionisti privati, spesso piccoli risparmiatori e famiglie. In alternativa, un’iniezione di capitale pubblico avrebbe potuto svolgersi, senza bail-in per gli obbligazionisti, nel contesto di una adesione dell’Italia al programma ESM (quello usato per la ricapitalizzazione delle banche spagnole nel 2012/13). Questo però avrebbe comportato per l’Italia la sottoscrizione di un “memorandum of understanding” con le Istituzioni (la cosiddetta “troika” di Fondo Monetario, CE e BCE). Nessuna di queste due opzioni è stata ritenuta politicamente fattibile, e certamente non fattibile in alcuno scenario che contemplasse la sopravvivenza del governo Renzi.
In aprile il governo riuscì a mettere insieme una soluzione basata sul settore privato (con la partecipazione di capitali pubblici di Cassa Depositi e Prestiti) per garantire gli aumenti di capitale, imposti dalla BCE per insufficienza del patrimonio di vigilanza, di Banca Popolare di Vicenza (BPVI) e Veneto Banca (VB), il fondo a sponsorizzazione governativa “Atlante”. Purtroppo si verificarono due circostanze avverse. Primo, alcuni degli investitori privati che avevano inizialmente accettato di partecipare al progetto Atlante, si sono poi ritirati dopo averlo valutato più attentamente. Invece di essere inaugurato con la dotazione prevista di più di sei miliardi di euro, Atlante ne ha raccolti solo 4,25. Secondo, poiché il mercato non aveva sottoscritto piú dello 0,5% degli aumenti di capitale di BPVI e VB, la garanzia fornita da Atlante dovette essere usata per quasi il 100% di entrambe le emissioni. La dotazione di Atlante si era ridotta a 1,7 miliardi, importo troppo contenuto per giuocare l’atteso ruolo in una soluzione di sistema nel problema degli NPL.
Verso la fine di giugno trapelò una lettera che la BCE aveva inviato al CdA di Monte dei Paschi, esigendo che la banca riducesse la sua esposizione complessiva ai crediti dubbi o in sofferenza (NPE) di 26 miliardi entro il 2018, un tasso di riduzione doppio rispetto a quello che MPS aveva previsto nel suo piano industriale. MPS aveva al momento una esposizione NPE lorda di ca 47 miliardi di euro, che si riduceva a 26 miliardi comprendendo i relativi accantonamenti. Nella categoria più rischiosa già nota come “sofferenze”, l’esposizione lorda era di 26 miliardi e quella netta 9,7, un valore di bilancio netto di 37% per le sofferenze – il che rappresenta qualcosa come il 50% al di sopra del loro plausibile valore sul mercato e un deficit di 3,7 miliardi di euro di capitale nel caso di una dismissione di questi prestiti a un tale prezzo.
Per alcune settimane, sui media si erano inseguite varie versioni di presunti negoziati tra il governo italiano e la Commissione Europea su come arrivare a un compromesso per cui l’Italia avrebbe potuto iniettare capitali pubblici in MPS in forma preventiva, ma con la cruciale esenzione da qualsiasi forma di bail-in o altre forme di perdite per gli obbligazionisti subordinati dei Monte. Si riteneva che anche solo prospettare delle perdite sulle obbligazioni per i piccoli risparmiatori sarebbe equivalso a un suicidio politico per il governo Renzi. Finalmente, il 3 luglio, in un intervista televisiva Renzi annunciò, con una certa sorpresa di alcuni osservatori, di essere a favore di “una soluzione di mercato” per MPS. Il risultato politico di queste considerazioni fu quello di ignorare o posticipare la questione di un possibile intervento pubblico a sostegno del Monte. Il risultato concreto fu invece il piano di dismissione di NPL e di ricapitalizzazione delle banca che venne annunciato dal suo Consiglio di Amministrazione alle 20:45 del giorno 29, a meno di due ore dall’annuncio degli stress tests dell’EBA.
Il piano
I dettagli specifici del piano sono ormai abbastanza noti ed è sufficiente citarli solo per sommi capi.
MPS creerà una “bad bank”, con una dotazione di capitale di 1,6 miliardi di euro e trasferendo questa tranche “junior” ai suoi azionisti attuali, i quali diventeranno così azionisti della “bad bank”. La banca svaluterà il suo intero portafoglio di sofferenze (gli “NPL” veri e propri) e incagli (i cosiddetti “unlikely to pay loans”), rispettivamente al 33% e al 40% del valore nominale. L’insieme di questi trasferimenti e svalutazioni porterà a una perdita di poco piú di 4,8 miliardi di euro.
MPS trasferirà il 100% degli NPL alla bad bank al nuovo prezzo contabile di 33%, per un importo di 27,7 miliardi nominali e quindi di 9,2 miliardi netti, la quale a sua volta li finanzierà in due tranche. Una mezzanina, per 1,6 miliardi, comprata da Atlante 2 (un nuovo fondo misto pubblico privato nel quale confluiranno anche alcuni dei capitali rimasti a Atlante). E una “senior”, per 6 miliardi (i restanti 1.6 miliardi verranno assorbiti dal capitale della bad bank che MPS gli avrà conferito). La porzione della tranche senior che otterrà un “rating” investment grade potrà essere ceduta a investitori terzi con una garanzia pubblica a pagamento (le GACS create a gennaio 2016). Il resto della tranche (che potrebbe anche essere una percentuale importante dei 6 miliardi) che non sarà investment grade, dovrá essere collocata senza garanzie.
JP Morgan, uno degli architetti del piano, fornirà alla bad bank un prestito ponte per 6 miliardi di euro, di modo che questa potrà acquistare gli NPL senza attendere il collocamento delle tranches, consentendo alla banca di de-consolidare le sofferenze Immediatamente.
Infine, anche per fornire un incentivo e un compenso aggiuntivi per il suo acquisto delle tranche mezzanina dalla bad bank, Atlante 2 riceverà un’opzione a 5 anni per l’acquisto di azioni MPS, fino a un importo del 7% del capitale della banca.
Un’analisi piú approfondita permette di capire perché i mercati non abbiano mai mostrato grande entusiasmo per il piano, e perché si stiano al momento dibattendo così tante sue modifiche. Il capitale CET1 non varierà per effetto dell’operazione. Il 100% del nuovo capitale azionario raccolto verrà impiegato nell’assorbire le perdite a bilancio. Il rafforzamento verrà esclusivamente da una riduzione dei risk weighted assets (gli attivi pesati per il loro fattore di rischio), cioè l’alienazione degli NPL (si veda questo documento a pagina 7). Il patrimonio netto della banca rimarrà presumibilmente invariato a 9,9 miliardi di euro (dati del bilancio al 2° trimestre) e il patrimonio netto tangibile (cioè al netto delle attività immateriali) pure rimarrà invariato a 9,6 miliardi.
Anche tenendo conto del probabile sconto rispetto alla parità teorica che verrà offerto ai sottoscrittori dell’aumento di capitale (il quale sconto, si può ragionevolmente presumere, sarà intorno al 30-40% offerto di recente in operazioni simili – nel caso dell’aumento di capitale per Banco Popolare lanciato a inizio giugno è stato del 37%), secondo i calcoli di chi scrive, agli investitori delle nuove azioni verrà implicitamente chiesto di sottoscriverle a un multiplo di 0,57 volte il patrimonio netto tangibile (TNE); e di 0,55 volte il patrimonio netto (NE). La banca ha anche dichiarato che, a operazione completata, il rapporto tra i residui NPE netti e il patrimonio (“Texas ratio”) sarà di circa il 120%, una riduzione molto significativa rispetto all’attuale 265%.
Ciononostante, dando una rapida scorsa ai valori equivalenti per altri istituti, il prezzo del potenziale aumento di capitale sembra essere un bersaglio estremamente ambizioso. Intesa San Paolo è valutata sul mercato a 0,80 volte il patrimonio tangibile. Ma la sua posizione dominante nel mercato retail, la robusta governance, la sua elevata capitalizzazione (in termini assoluti) e il livello contenuto di NPE la mettono quasi in una categoria a sé stante. Le altre due principali banche italiane per dimensioni del bilancio, Unicredit (UCG) e Unione di Banche Italiane (UBI), sono valutate a un multiplo rispettivamente di 0,30 e 0,25 volte il TNE. La “Texas ratio” di UBI è intorno al 117%, vicina a quella che il management di MPS si attende di avere al completamento della transazione. Quella di UCG è marcatamente piú bassa a 87%. La Banca Popolare di Milano, l’istituto italiano con l’esposizione a NPL minore (almeno tra le banche di dimensioni significative) ha una Texas Ratio di 80% e tratta a un multiplo di 0,35 volte il TNE (le cifre riportate sono basate su dati ottenuti dai bilanci societari, prezzi di mercato aggiornati ai prezzi di chiusura del 22 settembre 2016 ed elaborazioni dell’autore).
Anche valutando l’aumento di capitale dal lato della reddittività, si ottengono risultati simili. Gli utili operativi lordi di MPS, tornati a un modesto valore positivo dopo aver sofferto perdite di circa 15 miliardi nei quattro anni precedenti (si veda il Monte dei Paschi di Siena Investor relations website, progetti di bilancio annuale MPS 2011-2015, trimestrale 1o trimestre 2016 e semestrale 1o semestre 2016), non sono solo stati influenzati dagli accantonamenti per gli NPL. I margini netti di interesse sono scesi considerevolmente e i costi sono rimasti elevati, principalmente a causa di un network di filiali molto vasto. Secondo Bloomberg, la media degli analisti prevede, per la redditività di MPS nel 2017, un utile netto (corretto per gli elementi non ricorrenti) di 0,072 €/azione, cioè di 210 milioni di euro. I sottoscrittori dell’aumento di capitale si troverebbero dunque a comprare le azioni di MPS a un multiplo di circa 25 volte il reddito netto (''PE ratio''). Anche prendendo la media delle cinque stime più ottimistiche nel gruppo di analisti nel campione Bloomberg, arriviamo a una previsione di utile per il 2017 di ca 0,18€/azione, ossia 540 milioni di euro. In questo caso il multiplo PE implicito nella valutazione sarebbe di 10,1 volte l’utile netto rettificato. Guardando ancora una volta ai valori analoghi di altri istituti, UBI è valutata a un multiplo di 6.4 volte gli utili previsti per il 2017 (sempre parlando di utili netti corretti per elementi straordinari, sulla base delle previsioni del campione di analisti seguito da Bloomberg), UCG di 5,0 e BPM di 6,4. Intesa, la banca italiano con la valutazione piú elevata, scambia a 9.0 volte gli utili netti previsti per il 2017. È quindi legittimo domandarsi come gli autori del piano abbiano potuto realisticamente aspettarsi che il mercato avrebbe investito 5 miliardi di euro in azioni ordinarie MPS a un multiplo di piú del 50% superiore a quello dei suoi concorrenti piú diretti sulla base dei rapporti di capitale e, anche nelle ipotesi più ottimistiche, a un multiplo mediamente superiore del 58% sulla base dei rapporti di redditività.
Anche sul fronte della bad bank rimane almeno una domanda essenziale. La tranche mezzanino sarà certamente collocata presso Atlante 2. Il classamento della tranche senior potrebbe essere piú problematico. Come menzionato poc’anzi, solo la parte di questa tranche che verrà accettata come “investment grade” potrà beneficiare della copertura delle GACS. Per il resto, si dovranno trovare investitori disposti a comprare questa tranche senza la garanzia governativa. Nessuno sa ancora quale percentuale di questa tranche sarà “investment grade”, il “whisper” è che potrebbe essere non piú di 2-3 miliardi sui sei totali. Saranno disposti gli investitori a sottoscrivere questa tranche, non protetta da garanzie governative, per importi che potrebbero arrivare a svariati miliardi di euro?
Infine, vi è la questione del prestito ponte. Visto che è possibile che una buona parte della senior tranche non sarà accompagnata dalle GACS e quindi sia più difficile da classare, chi o cosa garantirà il prestito ponte concesso da JP Morgan alla “bad bank”? In altre parole, cosa succederà se una parte della tranche senior non sarà sottoscritta alla scadenza del prestito ponte? Li ritirerà JP Morgan stessa? Altrimenti, chi? Se le tranche invendute rimarranno sul bilancio della “bad bank”, come potrà rifinanziare il prestito ponte?
Quando si tenga pieno conto di queste considerazioni, è meno sorprendente che il mercato abbia avuto inizialmente una reazione negativa. I media si sono focalizzati sulla caduta quasi immediata di piú del 15% che le azioni di MPS hanno subito nei primi due giorni dopo l’annuncio e sulla successiva ulteriore discesa del prezzo del 25%. In realtà, visti i dettagli della transazione annunciata il 29 luglio, il prezzo dell’azione è pressoché irrilevante. La diluizione che attende gli azionisti attuali di MPS anche nello scenario piú roseo, è così vasta che il prezzo attuale delle azioni ordinarie di MPS rappresenta al più una piccola opzione sull’andamento futuro delle banca. L’unica vera fonte di redditività futura per gli azionisti attuali è la tranche junior della bad bank che riceveranno, ma saranno necessarie circostanze estremamente favorevoli perché i detentori della tranche junior possano ricevere degli utili.
Un metodo piú accurato per valutare la reazione del mercato è l’osservazione dei prezzi del debito subordinato di MPS. Prima di tutto, gli importi sono molto più grandi. L’intera capitalizzazione di mercato della banca arriva al momento a poco piú di 550 milioni di euro. I titoli subordinati ancora in circolazione, per contro, arrivano a un importo nominale di più di 5,2 miliardi e una capitalizzazione di mercato vicina ai 3,5 miliardi (elaborazioni dell'autore da dati tratti da Bloomberg, EuroTLX, Bourse de Luxembourg, MPS Capital Services). Il dato comprende sia le “obbligazioni subordinate” che i cosiddetti strumenti di “Additional Tier 1 Capital (AT1)” ossia le obbligazioni perpetue e convertende. I prezzi dei titoli subordinati sono meno facilmente tracciabili e meno liquidi di quelli delle azioni, ma quello che succederà a questi strumenti avrà un impatto di mercato (e sul valore dei portafogli dei detentori) molto superiore alle valutazioni che gli attuali azionisti di MPS riusciranno a ottenere sui loro titoli dopo l’aumento di capitale.
La reazione iniziale delle subordinate di MPS era stata migliore di quella delle azioni. I prezzi di questi titoli (guardando per esempio le emissioni liquide con scadenza aprile 2020) erano saliti di circa 5 punti nei giorni prima dell’annuncio del piano e di altri 5 il lunedì dopo l’annuncio, arrivando a una quotazione di 85. Ciononostante, già alla chiusura del 3 agosto, le subordinate aprile 2020 erano tornate appena sotto il prezzo fissato prima dell’annuncio e, dopo aver inizialmente oscillato intorno a questo livello, hanno poi ripreso a scendere gradualmente. Questa discesa ha iniziato ad accelerare a partire dal 29 agosto, data in cui hanno nuovamente cominciato a circolare voci sempre piú frequenti e precise sul possibile coinvolgimento degli obbligazionisti nella ristrutturazione (si veda, per esempio, l'articolo di Andrea Fontana su Il Sole 24 Ore del 29 agosto). Prima della pubblicazione della lettera della BCE e dell’intervista di Renzi del 3 luglio, i prezzi di questi titoli si erano attestati al livello di 90-91, per poi scendere a 65 dopo quegli eventi. Alla chiusura del 22 settembre, il prezzo è sceso a 63.1, cioè addirittura inferiore ai livelli osservati subito dopo il drammatico annuncio della BCE. Gli obbligazionisti di MPS hanno dunque continuato a esprimere quantomeno un’incertezza crescente sul successo della transazione.
È difficile sovrastimare gli effetti negativi del protrarsi di questa incertezza. Uno scambio di obbligazioni per azioni ben strutturato, che avesse dato agli obbligazionisti una partecipazione al futuro aumento di capitale su basi pari passu con i nuovi sottoscrittori, avrebbe potuto quantomeno dare loro certezza sul futuro del loro investimento. Se fosse stato possibile convertire in azioni solo una parte delle obbligazioni subordinate in circolazione, i rimanenti azionisti subordinati avrebbero addirittura forse beneficiato, ancora come obbligazionisti, del rafforzamento complessivo del bilancio della banca. Una transazione di successo così strutturata, avrebbe posto basi credibili per una sua ripetizione in altri casi, ridando fiducia agli investitori in tutto il comparto obbligazionario subordinato. Il fatto che un debt-equity swap non sia stato compreso nell’annuncio iniziale della transazione ha lasciato gli obbligazionisti esposti alla possibilità che, se vi fossero delle difficoltà nella sottoscrizione dei 5 miliardi dell’aumento di capitale, potrebbero trovarsi coinvolti in un debt-equity swap o un haircut in circostanze però di emergenza, e quindi in condizioni meno favorevoli di quelle che si sarebbero verificate con maggiore pianificazione.Gli importanti cali dei prezzi delle obbligazioni registrati da quando hanno cominciato a circolare indiscrezioni sul coinvolgimento degli obbligazionisti sono la manifestazione piú evidente di questi timori.
Il problema. E la soluzione
Arrivare a una soluzione definitiva per Monte dei Paschi, per non parlare di tutto il segmento delle banche italiane gravato da NPL elevati, richiederà iniziative molto piú ponderate e ben strutturate del piano presentato il 29 luglio. La soluzione di questo problema sarà un compito arduo, sia sul fronte tecnico che su quello politico. Una serie di indagini giudiziarie ha implicato negli ultimi anni gli alti dirigenti, gli amministratori e persino i presidenti di alcune banche regionali e inter-regionali con accuse che includono falso in bilancio, bancarotta fraudolenta, transazioni create al solo scopo di occultare perdite e varie altre. In aggiunta è stato dimostrato che le banche coinvolte sono state afflitte da favoritismi verso clienti, una frequenza anomala di prestiti ad amministratori o parti a essi collegate, e a dir poco a procedure disinvolte per la gestione dei conflitti di interesse.
Considerando anche un altro tema normativo, è noto che la legge italiana consente alle banche di vendere direttamente ai proprio clienti obbligazioni ordinarie e altri titoli. Questa prassi, che è in vigore in Italia da decenni, ha senz’altro avuto anche dei risvolti positivi: molte banche locali o regionali potevano così far leva sui rapporti di fiducia che esisteva tra loro e i propri clienti per emettere obbligazioni a rendimenti competitivi, peraltro considerati al pari di titoli di stato in quanto a garanzie di rimborso e affidabilità. Per contro, le banche “reinvestivano” questi benefici nel loro territorio sotto forma di mutui e prestiti a imprenditori e famiglie.
I dettagli emersi da alcune delle indagini sopracitate, ed altre ancora, hanno dimostrato un abuso sistematico del quadro normativo che regolava questi rapporti. Intanto perché, nel frattempo, era entrata in vigore la BRRD e la vecchia norma, nelle prassi se non nella legge, per cui un’obbligazione bancaria era sicura quanto un titolo di stato, non valeva più (e, ciononostante, molte banche continuarono a commercializzare i loro titoli come se la BRRD non esistesse). In secundis, perché le banche coinvolte non si sono limitate a vendere alla clientela obbligazioni ordinarie, ma hanno elaborato complessi piani di promozione per vendere ai piccoli risparmiatori obbligazioni subordinate, obbligazioni convertende e azioni a valutazioni artificiosamente elevate. La maggior parte di questi investitori erano stati consigliati di acquistare i titoli senza nessuna considerazione per la idoneità o il profilo del cliente, e spesso senza diversificazione.
Le autorità di vigilanza bancaria e di borsa sono poi intervenute (va detto che, in parecchi dei casi citati, sono stati gli ispettori della Banca d’Italia a coinvolgere i magistrati delle Procure ai termini di indagini ispettive) ma in generale questi interventi sono arrivati solo dopo che vasti danni erano già stati fatti o alle finanze delle banche coinvolte, o al patrimonio dei risparmiatori. È un dato di fatto che un vasto e prolungato abuso diffuso della fiducia dei clienti e risparmiatori da parte delle banche in questo pur piccolo gruppo si è consumato davanti all’assetto di supervisione e vigilanza sul sistema bancario e di borsa. La risultante perdita di fiducia è un prezzo che l’Italia, con la sua economia centrata sull’intermediazione bancaria del risparmio, non può permettersi di pagare, soprattutto in un momento di ripresa economica ancora debole. Contestualmente, governi di centro-destra, centro-sinistra e coalizioni bipartisan, invece di svolgere il loro ruolo istituzionale di arbitri delle norme vigenti, di promotori di nuove norme presso la legislatura e, dove necessario, di riformatori delle norme inadeguate, hanno giocato alla meglio un ruolo di osservatori impotenti e, in alcuni casi, di partecipanti e complici nell’abuso della governance del sistema bancario per favorire alleati, sodali ed amici con prestiti, posti di lavoro e iniziative privilegiate.
Le indagini hanno anche portato alla luce un vasto corpus di rivelazioni da parte di banchieri, esponenti politici locali e altri testimoni riguardo alle intricate reti di alleanze che esistevano tra la banca, il suo allora azionista di riferimento, la Fondazione Monte dei Paschi di Siena (che, a sua volta, era controllata dal Comune di Siena, allora feudo politico dei partiti della sinistra) e figure politiche nazionali. Questi retroscena sono essenziali per capire perché la soluzione del “problema Monte dei Paschi” è così carica di valenze politiche. In tutta probabilità, molti dei contribuenti e dei risparmiatori plausibilmente mal consigliati che potrebbero trovarsi a soffrire perdite finanziarie a seguito di un intervento pubblico in MPS penserebbero, a torto o a ragione, che stanno pagando gli errori dei passati misfatti dei partiti antecedenti del PD, e per i benefici ricevuti dai suoi amici e sodali. Renzi e la generazione di dirigenti che oggi controllano il PD non ebbero niente a che fare con questi abusi.Ed è vero quello che ha detto il Presidente del Consiglio nell’intervista del 3 luglio, quando affermava che “siamo il primo governo che si è impegnato per far uscire i politici dalle banche”. Ciononostante, è lecito chiedersi se qualsiasi governo a leadership PD potrebbe sopravvivere a un “bail in” di piccoli risparmiatori di Monte dei Paschi.
Tutte queste questioni dovranno essere prima o poi affrontate per arrivare a una soluzione definitiva di problemi del sistema bancario italiano qui esposti. Chi scrive ritiene che questa soluzione dovrà comprendere, in una qualche forma, un intervento con capitali pubblici. Per arrivare a un accordo con i partners europei su questo punto, la questione dominante non sarà se i piccoli risparmiatori dovranno subire un “bail in” in forma mite o draconiana, o i termini nei quali sarà concesso al governo italiano di compensarli per le perdite subite. Piuttosto, la Commissione e i partner dell’Italia nell’Unione, in tutta probabilità esigeranno che le leggerezze nella governance bancaria, l’inadeguata protezione dei risparmiatori e le norme di vigilanza solo parzialmente efficaci che hanno consentito a un gruppo di banche e banchieri di infliggere tali danni alla fiducia in tutto il sistema bancario, siano oggetto di una approfondita indagine, revisione e riforma, con l’obbiettivo di assicurare che questi abusi non possano ripetersi in futuro. Qualunque cosa uno pensi dei progetti per il completamento dell’Unione Bancaria nell’Eurozona, è semplicemente naif attendersi che l’Italia possa recuperare la fiducia dei suoi partners comunitari sufficiente a procedere verso la creazione di una garanzia sui depositi comune a tutta l’Eurozona, o altre forme di condivisione di rischi, senza prima procedere a una revisione come quella qui prospettata, e all’adozione di norme per la vigilanza e la governance bancaria ispirate alla “best practice” europea. Tutto ciò è anche nell’interesse dell’Italia stessa e, come Nicolas Veron ha fatto recentemente notare in un articolo per l’Istituto Bruegel, è fonte di qualche perplessità il fatto che una tale riflessione non sia finora stata suggerita o avviata in Italia.
Peraltro, la lamentevole storia delle lacune della governance e la supervisione prudenziale in Italia, non è certo l’unico problema che affligge il sistema bancario. Come nel caso di altre parti d’Europa, le banche italiane soffrono di una redditività inadeguata. Lo stesso Presidente Draghi ha discusso questo punto in modo piuttosto diffuso nella sua conferenza stampa del 21 luglio 2016 ed è tornato sull'argomento in un recente intervento (vedasi Mario Draghi, Benvenuto all'Apertura dei lavori della Prima Conferenza Annuale del Consiglio Europeo sui Rischi Sistemici, Francoforte, 22 settembre 2016).
I margini di intermediazione del credito sono in declino da anni, le commissioni sono sotto pressione da parte di nuovi concorrenti e altre forme di introito, come la vendita ai risparmiatori di titoli strutturati, si sono in gran parte esauriti. Inoltre, molte tra le banche italiane, con redditività più modesta di quella dei pari europei, sono gravate da un numero di filiali proporzionalmente ancora elevato, e quindi da costi maggiori. E, come in altre parti dell’Eurozona, ci sono troppe banche.
I consolidamenti, la chiusura di filiali (e quindi le riduzioni del personale occupato), altre razionalizzazioni dei costi e le nuove norme sul diritto fallimentare e la liquidazione delle garanzie, tutti questi fattori aiuteranno a migliorare la situazione, col tempo. Ma, anche in questo caso, ciò rappresenterà un problema politico oltre che economico. Alcune recenti stime sull’entità degli esuberi necessari tra i trecentomila attuali dipendenti del sistema bancario italiano, che oscillano tra le 16 e le 30 mila unità, sono probabilmente troppo timide. Il processo di riportare le banche italiane a un’adeguata redditività richiederà tempo, capitale e una accurata gestione politica, oltre al ribaltamento di vaste rendite di posizione e interessi precostituiti.
Precisamente per via dell’enormità del compito, non è forse così sorprendente che il governo abbia deciso di non affrontarlo integralmente già da oggi e che abbia cercato invece di trovare, forse peccando di timidezza ma senz’altro non in mala fede, altre soluzioni piú a breve termine, almeno per il maggiore dei problemi, e cioè il Monte dei Paschi. Questo articolo presenta un’interpretazione forse piú benevola di quelle attribuite da alcuni organi di stampa (nazionali e esteri) alle motivazioni e le intenzioni del governo Renzi e delle altre autorità coinvolte nel grande dramma estivo di questo 2016. Ma sono quelle che paiono, a chi scrive, essere le motivazioni che meglio combaciano con i fatti e le informazioni disponibili.
Complimenti, uno degli articoli migliori che ho letto sulla vicenda MPS!
Una domanda sulla valutazione di MPS in base alla redditività:
"Secondo Bloomberg, la media degli analisti prevede, per la redditività di MPS nel 2017, un utile netto (corretto per gli elementi non ricorrenti) di 0,072 €/azione, cioè di 210 milioni di euro. [..] Anche prendendo la media delle cinque stime più ottimistiche nel gruppo di analisti nel campione Bloomberg, arriviamo a una previsione di utile per il 2017 di ca 0,18€/azione, ossia 540 milioni di euro. In questo caso il multiplo PE implicito nella valutazione sarebbe di 10,1 volte l’utile netto rettificato."
Visto che nel primo semestre è stato realizzato un utile di ca. 300 mln, non è realistico assumere un utile più elevato una volta messa in sicurezza la banca tramite vendita sofferenze e adc?
Sarebbe interessante capire se le stime aggiornate degli analisti sono basse per l'elevato execution risk del piano, si potrebbe p.e. immaginare un utile intorno agli 800 mln in caso di riuscita, di soli 300 in caso di fallimento del piano, probabilità di riuscita 50%, ponderando i due: utile medio 550 mln ca.
In questo caso la valutazione sui multipli economici della banca risanata sarebbe più elevata dei 5 mld di nuove risorse che si vogliono chiedere al mercato.
Cosa ne pensate?