PK sostiene che, se gli obbiettivi dell'azione di governo non sono strettamente economici come nel caso della diminuzione di emissione di gas ad effetto serra, si dovrebbero utlizzare strumenti di policy capaci di riallineare gli incentivi all'obiettivo collettivo anche qualora tali strumenti distorcano gli incentivi individuali. Nel caso in questione, l'adozione di border adjustments porterebbe ad un calo nella domanda di beni prodotti con tecnologie particolarmente inquinanti, indipendentemente dal fatto che il paese dove avviene la produzione si sia formalmente impegnato o meno a ridurre le emissioni. Si ovvierebbe in questo modo ai problemi di free-riding fra differenti paesi che rischiano di compromettere le negoziazioni per il Post-Kyoto.
Le emissioni di gas ad effetto serra rappresentano infatti un classico esempio di esternalità transnazionale: gli effetti sull'ambiente associati alla loro emissione sono avvertiti in maniera uniforme a livello globale, indipendentemente dalla localizzazione specifica dell’emissore. L'imposizione di border adjustments o di tariffe doganali di carattere punitivo per quei governi che rifiutano di impegnarsi nella riduzione controllata delle emissioni di diossido di carbonio faciliterebbe dunque l'adozione di misure collettive. Il precedente più significativo al riguardo è certamente rappresentato dal Protocollo di Montreal. Entrato in vigore nel 1989 col fine di eliminare le emissioni di clorofluorocarburi e di altre sostante dannose per lo strato di ozono, il trattato autorizzava infatti molto esplicitamente l’uso di sanzioni commerciali verso i paesi non-firmatari.
Fin qui la teoria, resta da capire però se (i) border adjustments e misure tariffarie siano davvero "feasible", ovvero ammissibili nel contesto dell’impianto giuridico del GATT/WTO, e (ii) se siano effettivamente efficaci nel promuovere la riduzione di emissioni laddove stanno crescendo in maniera consistente e sembra mancare la volontà politica di combattere il fenomeno, ovvero molti Paesi in Via di Sviluppo (PVS).
Ammissibilità. La regolamentazione in materia di commercio internazionale ed ambiente è sostanzialmente contenuta nell'Articolo XX del GATT ed in due successivi accordi sottoscritti nell’ambito dell'Uruguay Round, il Sanitary and Phytosanitary agreement (SPS) ed il Technical Barriers to Trade agreement (TBT). Tale regolamentazione si sostanzia nell’elencare possibili eccezioni al principio generale di "non discriminazione" fra prodotti affini ("like products") che proibisce di discriminare le esportazioni di un pese membro a vantaggio della produzione locale (la clausola National Treatment contenuta nell'Articolo III del GATT) o di quella di un paese terzo (la clausola Most Favorite Nation contenuta nell'Articolo I del GATT). Eccezioni in deroga agli Articoli I e III risultano ammissibili quando si rendano "necessarie per la protezione della vita delle persone, degli animali, e la preservazione dei vegetali" (Articolo XX-b) o per "la conservazione di risorse naturali esauribili" (Articolo XX-g), ammesso che le misure adottate "non costituiscano un abuso o una discriminazione ingiustificata o aribitraria" ("cappello" dell’Articolo XX).
Proprio il "cappello" dell’Articolo XX costituisce una prima barriera alla introduzione di misure punitive del tipo di quelle suggerite da PK: provare la non arbitrarietà di tali misure o l'assenza di fini protezionistici potrebbe infatti rivelarsi un'impresa estremamente difficile. Ma l'ostacolo giuridico principale all’introduzione di border adjustments è rappresentato dal fatto che questi discriminerebbero fra i diversi prodotti sulla base delle emissioni di gas serra avvenute nel corso del processo produttivo (i cosiddetti PPMs, processes and production methods) piuttosto che alle caratteristiche del bene stesso. Beni idenditici, dunque, finirebbero per essere discriminati semplicemente in base alla tecnologia di produzione adottata.
Efficacia. Anche qualora misure restrittive del commercio disegnate per discriminare fra diverse tecnologie di produzione finiscano con l’essere accettate dal WTO (come qualche timido segnale sembrerebbe indicare), la loro adozione potrebbe rivelarsi controproducente sul piano politico, bad politics per dirla con l'ex commissario europeo per il commercio Peter Mandelson. Il cambiamento climatico rappresenta, come detto, un problema globale per la cui soluzione si rende necessaria l'azione coordinata di tutti i principali paesi emissori; in questo contesto, azioni coercitive ed unilaterali come quelle suggerite da PK rischiano di allontanare i PVS dal tavolo negoziale invece che riavvicinarli (come tra l’altro ha recentemente sostenuto Jagdish Bhagwati).
Border measures e tariffe doganali possono essere facilmente abusate ed i PVS temono appunto che le emissioni di diossido di carbonio possano diventare una scusa per introdurre misure puramente protezionistiche, sopratutto nel bel mezzo di una recessione. Indipendentemente dalla eventuale buona fede dei paesi promotori, se percepite effetivamente come protezionismo mascherato, tali misure si rivelerebbero un boomerang destinato a complicare sia le negoziazioni sul cambiamento climatico che quelle commerciali (se di complicazioni se ne sentisse ancora il bisogno).
Le recenti dichiarazioni di Shyam Saran, special envoy on climate change per l’India, ci offrono un'anticipazione delle reazioni che l'adozione della ricetta PK susciterebbe tra i principali PVS. Shyam Saran non più tardi di 3 mesi fa dichiarava:
Action on climate change cannot be based on conditions. Once we start going in that direction, then it means we start going for protectionism under the green label and it is harmful to India’s interest seeking sustainable development […] Collaborations become irrelevant when competitive tendencies prevail.
Ma i border adjustments potrebbero rivelarsi totalmente inefficaci non solo per ragioni politiche. Solo per pochi settori infatti l'adozione di tali misure potrebbe essere giustificata dalla perdita di competitività delle imprese operanti in paesi regolamentati; quei settori in cui i costi per l'approvvigionamento energetico rappresentano una percentuale significativa dei costi totali e che, al contempo, si trovino effettivamente a competere con controparti avantaggiate sotto questo profilo (produzione di ferro, alluminio, carta, prodotti chimici e cemento). Vi è poi un problema puramente tecnico, legato al calcolo del border adjustment e pertanto del diossido di carbonio effettivamente embodied nel bene oggetto della misura. Calcolo questo reso ancora più complesso dalla necessità di reperire informazioni di natura confidenziale, e spesso tutelate dalla legge, dalle singole imprese dedite all’esportazione.
Cosa fare dunque? Sarebbe a mio avviso più saggio utilizzare politiche commerciali cooperative piuttosto che punitive; liberalizzare ulteriormente il commercio di quei beni la cui produzione richiede livelli relativamente bassi di emissioni di gas-serra (low-emissions goods), facilitare le procedure operative per l'adozione di progetti nell'ambito del Clean Development Mechanism (CDM), ed aumentare lo spazio di policy per incentivare investimenti privati in fonti di energia rinnovabile e tecnologie a bassa emissione di gas serra (sulla base ad esempio dell'Agreement on Subsidies and Countervailing Measures sottoscritto nell'ambito dell'Uruguay Round). Utilizzare cioè il commercio internazionale più a mo' di "carota" che di "bastone" nel tentativo di sostenere la lotta al cambiamento climatico.
Insomma dalla carota alla teoria degli incentivi il passo è breve :)