Lo scorso 16 Settembre il Presidente della Repubblica, in visita
all'Universita' di Lecce, si e' dichiarato preoccupato della
proliferazione delle sedi universitarie (vedi articolo
su Repubblica.it). Il solerte ministro Mussi, seppure si trovasse in
visita ufficiale in Cina, ha immediatamente dichiarato ai giornalisti
al seguito di trovarsi pienamente d'accordo con il Presidente.
"Napolitano ha ragione da vendere," avrebbe esordito il Ministro, per
poi continuare cosi': "Negli ultimi decenni si è assistito a una
scriteriata proliferazione di sedi, talora collegata alle ambizioni di
politici locali. Ho già cominciato a frenare questo fenomeno. In primo
luogo impedendo la creazione di nuovi atenei e di nuove facoltà di cui
non si avvertiva la necessità e poi inserendo nel decreto sulle classi
di laurea, emanato il 4 agosto, norme volte a frenare la frammentazione
e la proliferazione dei corsi. Nuove iniziative potranno vedere la luce
solo su elevati standard di qualità e sulle basi di effettive necessità
didattiche e di ricerca”.
Non ho dubbi che, in diverse circostanze, la creazione di nuove sedi
universitarie sia dipesa dall'ambizione di alcuni amministratori.
Quello che mi preoccupa maggiormente e' pero' la superbia con cui il
Compagno Mussi si arroga il diritto di decidere di quali facolta' e di
quali corsi ci sia bisogno. A giudicare da questi primi sei mesi di
legislatura, questa dichiarazione e' indicativa dei metodi del Compagno
Mussi. Dirigismo e' la parola chiave: sta al Ministro e ai suoi
accoliti regolamentare le attivita' delle universita' nel piu' piccolo
dettaglio, a colpi di decreti.
Il primo provvedimento del ministro è stato la revoca
dell'autorizzazione, concessa dal predecessore, all'istituzione
dell'Università (privata) di Studi Europei "Franco Ranieri", di Villa
San Giovanni (RC). Non voglio entrare nel merito delle attivita' che il
costituendo ateneo si proponeva di intraprendere. Il punto e' che il
potere di vita e di morte su un'istituzione accademica non dovrebbe
risiedere nelle mani di un politico. Il vero problema, e' ovvio, e'
quello del valore legale del titolo di studio. Il controllo politico
sull'attivita' delle Universita' deriva dal fatto che la laurea non e'
semplicemente un attestato di studi compiuti. Il pezzo di carta
attribuisce diritti, tra i quali quello di partecipare ai concorsi
pubblici riservati ai laureati. Negli Stati Uniti, un titolo di studio
non attribuisce alcun diritto. E' meramente un attestazione, un
segnale, per quanto imperfetto, delle capacita' di un individuo e delle
conoscenze che lo stesso ha maturato.
Nel 2003, negli Stati Uniti c'erano 2.474 Universita' che offrivano
corsi di laurea quadriennali, di cui 629 pubbliche. L' ottanta per
cento circa degli studenti frequenta queste ultime, che tendono essere
molto piu' grandi delle scuole private. Quindi c'e' un'universita' ogni
120mila abitanti negli Stati Uniti, contro una ogni 740mila in Italia.
Una prima, certamente semplicistica considerazione, e' che,
contrariamente a quanto il Compagno Mussi e il nonno Giorgio sembrano
suggerire, avere molte Universita' non comporta necessariamente
conseguenze disastrose. Pare anche discutibile che la dimensione ottima
di un ateneo sia quella italiana, ben maggiore di ogni altro Paese
sviluppato.
Un'ulteriore considerazione, meno ovvia, ha a che fare con
l'eterogenita' dell'offerta formativa e quindi con la varieta' di
segnali che gli studenti possono acquisire. Il fatto, da tutti
riconosciuto negli Stati Uniti, che vi siano Universita' di serie A, B,
C, e D, e' una ricchezza per il Paese, non un problema. Prendete
l'esempio della University of Texas. L'ho scelta perche' statale e
perche' la superficie del Texas e' circa il doppio di quella
dell'Italia. Lo UT system ha un campus principale ad Austin, con
cinquanta mila studenti e dipartimenti di ricerca attivissimi in ogni
campo dello scibile umano. E' il campus di eccellenza, destinato agli
studenti piu' meritevoli ed ambiziosi dello Stato. Il 19% degli
studenti appartiene ad una qualche cosiddetta minoranza (studenti di
colore, ispanici,...), la maggior parte dei quali ha accesso gratuito.
UT ha pero' anche campus cosiddetti minori, localizzati in pressoche'
tutto lo Stato, in megalopoli come Dallas, ma anche in cittadine come
Brownsville. Lo Stato riconosce che non tutti hanno il desiderio di
sbattersi per anni sui libri in un ambiente competitivo, e non tutti
vogliono o possono allontanarsi dalla mamma. Pertanto, lo studente
lavoratore di El Paso puo' frequentare i corsi serali nel campus
locale. UT at El Paso e' sostanzialmente un teaching college, senza
attivita' di ricerca rilevanti. Tutti comprendono che cercare di
instaurare centri di eccellenza in piccole e a volte inospitali
localita', sarebbe uno spreco dei denari guadagnati con tanta fatica
dai cittadini. Lo studente che inizia gli studi a El Paso, qualora
maturi un maggiore interesse negli studi, puo' fare domanda di
trasferimento ad Austin.
Un altro esempio di comportamento mussiano. Lo scorso 5 settembre, il Ministro ha partecipato ad un forum
organizzato da Repubblica.it, durante il quale ha risposto a domande
poste da semplici cittadini via email. Almeno uno degli interventi
merita di essere riproposto.
Domanda di Claudio Altafini, Sissa Trieste - "Sono un ricercatore. Si è
molto parlato di nepotismo del sistema di reclutamento universitario.
Ha sottomano una statistica di quanti vincitori di concorsi accademici
sono candidati interni della sede bandente? Indizio: è una percentuale
con due numeri interi, di cui il primo maggiore o uguale a 9... " ( e'
ovvio che il primo numero di una percentuale a due cifre non puo'
essere maggiore di 9 - il collega della Sissa era probabilmente molto
nervoso ndr)
Risposta di Mussi - " A parte i casi di aperta corruzione, per i quali
c'è la magistratura che mi auguro usi la mano pesante, nella
formazione, nella scienza e nella ricerca il corporativismo lobbistico
è una malattia e il nepotismo è un delitto. Sono stati provati tutti i
metodi concorsuali immaginabili senza ridurre significativamente quella
dose di arbitrio e di manipolazione che persiste. C'è una sola via:
fortissimi meccanismi di valutazione dei risultati che premino il
merito, e affidare alla valutazione una quota negli anni crescente del
budget complessivo dei finanziamenti. Per questo, dopo la positiva
esperienza CNVSU e del CIVR, intendo mettere in Finanziaria la delega
per la istituzione della Agenzia nazionale di valutazione. Se funziona
potrebbe essere una rivoluzione."
Un mio collega romano direbbe: "A Fabbioo, ma ce sei, o ce fai? An vedi
questo." Eh si'. Mussi realizza che i concorsi sono una grandissima
porcata, che incentivano comportamenti deteriori, e allo stesso tempo
cosa estrae dal cilindro? L'Agenzia nazionale di valutazione. Salvo poi
concludere: "Se funziona(sse) potrebbe essere una rivoluzione." Allore
ce fai... lo sai gia' che nessuna agenzia cambierebbe nulla. Bella idea
quella di assegnare ad insiders del sistema il compito di valutare e
distribuire i denari. Avete presente i criteri di attribuzione delle
risorse del CNR? E' chiaro che l'unica soluzione si chiama MERCATO. Una
volta abolito il maledetto valore legale del titolo di studio, la vera
riforma consisterebbe nell'attribuire agli studenti il diritto di
distribuzione delle risorse. Basterebbe erogare i denari agli studenti
stessi in forma di vouchers, da spendersi per l'acquisto di servizi
educativi presso l'istituzione che preferiscono. Le Universita', o
meglio coloro che le guidano, avrebbero finalmente gli incentivi a
comportarsi in maniera virtuosa, anche per quanto riguarda l'assunzione
del personale docente e di ricerca.
E' ovvio che la University of Texas non tiene concorsi, e non ha
neppure agenzie di valuazione. La valutazione la fa il mercato, e la fa
gratis. I vari campus dello UT system competono tra di loro e, molto
piu' importante, con le Universita' private, per accapparrarsi i
migliori ricercatori, i migliori docenti, e i migliori studenti. Di
indicatori di successo ce ne sono a bizzeffe: risultati dei laureati
sul mercato del lavoro, innumerevoli inchieste condotte tra i datori di
lavoro, statistiche sulla capacita' di ottenere donazioni e fondi di
ricerca da istituzione pubbliche e private, output di ricerca
quantificabile in brevetti e articoli scientifici.
Compagno Mussi, che i concorsi non funzionino e' un fatto ormai
assodato. Perche' perdere tempo e risorse con la menata della nuova
agenzia? L'unica soluzione e' il M-E-R-C-A-T-O. Quello che devi
sforzarti di capire e' che
incentivare le universita' alla competizione non implica effetti
redistributivi avversi alle classi deboli. Tutt' altro. L'uguaglianza
di opportunita', bastione irrinunciabile per chiunque si ritenga di
sinistra, puo' essere assicurata con il sistema dei vouchers e,
eventualmente, anche con iniziative di affirmative action, cioe' la
creazione di quote di posti riservate a studenti di umili origini.
Gian Luca, sono d'accordo sul giudizio di fondo su Mussi (ad essere teneri non ne capisce niente... consiglio questa spassosa intervista sul manifesto (non e' un caso che oggi si parla di eleganza delle formule matematiche!): www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/07-Ottobre-2006/art25.html).
Il problema e' che passare da un sistema universitario come quello Italiano (o europeo) ad un sistema simile a quello degli Stati Uniti (cio' che tu chiami MERCATO, mi sembra di capire..) e' piuttosto complicato (consiglio a proposito un interessante articolo di Mas-Colell: www.rivistapoliticaeconomica.it/premio_angcosta/Mas-Colell_eng.pdf)
La competizione fra universita', indispensabile affinche' il sistema funzioni e affinche' si possano (finalmente!) eliminare i concorsi, si puo' ottenere anche attraverso un esercizio di valutazione serio tipo quello che da anni avviene nel Regno Unito. Una peer review seria a volte e' meglio di un meccanismo basato sui prezzi. Soprattutto quando ci sono problemi di informazione (e.g. qual e' l'universita migliore), possibile crowding out di intrinsic motivation, mercati di capitali imperfetti (e.g. quante banche italiane sarebbero disposte oggi a dare finanziuamenti a studenti meritevoli che vogliono andare in buone universita?).
Senza considerare il lato di political economy: se a Mussi dici MERCATO non ti ascolta neanche.
Ciao Mauro, sono d'accordo sul fatto che una riforma nel senso che prospetto e' assai difficile da attuare in Italia. Ma lo stesso si puo' dire di qualsiasi altra riforma. Conseguenza ne e' che nulla cambia in quello che era il Bel Paese. Una peer review "seria", dici tu. Certo, se fosse "seria", sarebbe la benvenuta. Ma, come e' noto, l'Italia non e' il Regno Unito. La mia aspettativa e' che le corporazioni che gestiscono i concorsi pubblici e allocano i fondi CNR assumeranno anche il controllo dell'agenzia di valutazione voluta da Mussi. Quale meccanismo lo eviterebbe? Ne parlavo ieri con Alessandro Lizzeri. Io ho suggerito di bandire gli Italiani dall'Agenzia. Alessandro, giustamente, ha previsto che la reazione a tale disposizione sarebbe la convocazione di esperti di dubbia fama, provenienti da Paesi di altrettando dubbia tradizione di ricerca, e facilmente manipolabili dagli insiders. Alessandro ha proposto di dare la valutazione in outsourcing alla commissione di valutazione britannica. Mi sembra una buona idea. Il problema di informazione cui accenni, l'ho affrontato brevemente nel mio intervento. La competizione tra le Universita' (l'esempio americano ne fa fede) porta alla nascita di una vera e propria industria di information provision per gli studenti. Su mercati dei capitali imperfetti: con la riforma che suggerisco, non ve ne sarebbe piu' bisogno di quanto ve n'e' ora. E' necessario che lo Stato eroghi i soldi direttamente agli studenti, non alle Universita'.