Cambia il mondo e cambiano le professioni. Un economista oggi non è semplicemente, come da definizione di dizionario, una persona che si occupa di economia. Tanti si occupano di economia in un modo o nell'altro, dagli economisti accademici a coloro che lavorano presso banche centrali o organismi internazionali come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale; dai giornalisti economici, ai banchieri, ai direttori finanziari delle grandi aziende, ai consulenti, etc. Non tutti sono economisti.
Col rischio di schematizzare troppo, e cosciente delle varie eccezioni che però credo confermino la regola, un economista tende a soddisfare alcune proprietà e caratteristiche fondamentali.
1. Un economista ha un Dottorato di ricerca (PhD nella dizione anglosassone comune). Il dottorato è il titolo accademico più avanzato che viene rilasciato dalle università dopo un corso di studi specifico. In Italia e nel mondo ci sono moltissimi programmi di dottorato in economia, ma quelli veramente buoni sono pochi, non più di una cinquantina in totale, ed è difficilissimo entrarvi. Questi dipartimenti ricevono ogni anno in totale alcune decine di migliaia di domande da parte di studenti qualificati e non ne ammettono che una quindicina l’uno [NdA: Antonio Rosato (grazie) mi fa notare una imprecisione: 15 e' ovvimanete in media il numero della classe del primo anno non degli ammessi, che sono di piu (c'e' parecchio overlap tra scuole in chi si ammette); ho anche controllato i dati di NYU e ho capito di aver esagerato sul numero totale di domande - credo che 10-15 mila per i migliori 50 programmi sia una stima piu' appropriata]. Moltissimi studenti hanno già dei master quando fanno domanda. In questi programmi di alto livello, il corso di studi comprende un primo anno durissimo, in cui lo studente è introdotto agli strumenti di base della disciplina, che sono molteplici e complessi: microeconomia, macroeconomia, ed econometria (statistica). Nei dipartimenti migliori una notevole conoscenza di quella matematica che gli economisti usano è condizione necessaria all’ammissione; in altri dipartimenti si fa anche un bel po’ di matematica il primo anno. Il secondo anno gli studenti scelgono due campi di specializzazione (anche se di solito ne fanno tre). Questi sono campi vasti, tipo macroeconomia, teoria, econometria, economia del lavoro, …, nulla di troppo specializzato. Su questi si concentrano arrivando vicini alla frontiera della ricerca del momento. Gli ultimi due anni (che poi son spesso diventano quattro) sono dedicati alla ricerca: seminari, seminari, discussioni con i professori e altri studenti, e poi ancora seminari,.. Il passaggio dallo studio alla ricerca è spesso difficile, perché le qualità intellettuali richieste sono diverse e complementari – spesso ottimi studenti scoprono di non essere sufficientemente creativi o semplicemente di non amare le notti insonni cercando di limare un modello, una dimostrazione, una serie di dati pieni di buchi, l'introduzione di un'articolo. Molti di questi lasciano gli studi dopo un paio d'anni o appena finito il PhD e finiscono a lavorare in finanza, in organismi internazionali, in consulenza. Ovviamente, ci sono programmi di dottorato meno impegnativi di quello descitto, ed anche più brevi. Il dottorato in Italia dura tre anni, più uno di proroga senza borsa (a discrezione dell'università). Più o meno tutti seguono questo modello pero'. Non si esce da un dottorato senza una solida preparazione, senza una conoscenza degli strumenti essenziali della disciplina, e senza una tesi, un lavoro innovativo che dimostri capacita' nella ricerca economica. Nessuno senza questa preparazione può nemmeno avvicinarsi ai lavori di ricerca moderni: semplicemente non sarebbe in grado di leggerli.
Nota: la generazione dai 55 in su, fuori dal mondo anglosassone, aveva tipicamente scarso accesso ai dottorati. In Italia il dottorato è stato istituito solo nel 1980 ed ha iniziato a funzionare un paio di anni dopo. Gli economisti di questa generazione si sono formati facendo da assistenti ad un professore più anziano dopo la laurea. In alcuni casi con successo, in altri favorendo il baronato che ancora affligge l’università ad esempio italiana.
2. Un economista fa ricerca. Fare ricerca significa tipicamente scrivere articoli per riviste scientifiche in economia (non libri, o per lo meno non solo libri). Pubblicare in una buona rivista è difficile e sta diventando sempre più difficile, perchè il numero degli economisti aumenta e il numero delle pagine pubblicate dalle riviste che contano - che sono al massimo una decina – è pressoché costante. Il direttore della rivista (editor) chiede il parere anonimo di altri economisti, esperti dell'argomento, detti "referees". In moltissimi casi, il parere è negativo (reject) e la rivista non pubblica l'articolo, che in genere viene ripresentato in riviste meno prestigiose. Le migliori riviste rifiutano la stragrande maggior parte degli articoli che ricevono (che sono già auto-selezionati). Se va bene, i referee chiedono modifiche spesso fondamentali (revise and resubmit). L'autore rimanda la versione rivista e la giostra ricomincia, finchè l'editor accetta l'articolo o lo rifiuta definitivamente. Insomma, è normale che un articolo impieghi 2 anni o più dalla prima presentazione alle pubblicazione.
E‘ importante notare che non solo economisti accademici, nelle università, fanno ricerca. La fanno anche quelli che lavorano presso i servizi studi di banche centrali, organismi internazionali etc. Come per gli accademici l’insegnamento e l’attività amministrativa è tipicamente un dovere contrattuale di cui essi farebbero spesso volentieri a meno, così gli economisti alle banche centrali fanno rapporti sui mercati dei cambi o dei titoli per dovere, ma appena possono si dedicano alla ricerca. Nelle istituzioni internazionali è il rapporto sulla Grecia o il Ghana ad essere dovere per gli economisti. Questo non significa che questi rapporti vengano fatti male o di malavoglia necessariamente, o che gli accademici non amino l’insegnamento. Ma il lavoro vero per un economista è la ricerca.
3. Un economista ascolta seminari e presenta regolarmente il proprio lavoro, a seminari e a conferenze; e poi fa referee report. Non è possibile fare l’economista senza andare ai seminari, le presentazioni della ricerca di altri economisti (due o tre la settimana, tipicamente, della durata di circa 90 minuti). Lo scambio delle idee, la discussione, è un piacere ed una necessità. Allo stesso modo non si invia un articolo ad una rivista senza averlo presentato almeno cinque o sei volte in dipartimenti diversi (spesso molti di più, decine). I commenti sono fondamentali. Lo stesso per le conferenze: ci si va per avere idea di dove va la professione, di che direzione sta prendendo la ricerca all’interno di un campo specifico o tra campi diversi. Anche qui, tra cinque e dieci l’anno è più che normale. Di referee report se ne fanno almeno uno o due al mese (a volte di piu') e con l’età (e il prestigio) spesso si diventa editor di una qualche rivista e se ne fanno molti di più. E poi un economista tende a partecipare al mercato dei giovani, perché è lì che nascono le idee più nuove ed interessanti, naturalmente. Anche qui, tutto questo non avviene solo nelle università, ogni banca centrale ad esempio ha un servizio studi con una serie di seminari importante e centrale alla sua vita interna.
4. Un economista insegna ad un dottorato di ricerca e cura l’attività di ricerca degli studenti di dottorato. Quella di seguire un gruppo di studenti all’inizio del proprio lavoro di ricerca e di portarli alla tesi di dottorato, che consiste in due o tre articoli, è una grossa parte del lavoro di un economista. In accademia, sia gli studenti che i professori vivono in dipartimento, gli studenti e i professori più giovani spesso fino alle tarde ore della notte. Il rapporto è solitamente estremamente informale, rari gli appuntamenti: lo studente entra nell’ufficio e si mette alla lavagna a spiegare la sua nuova idea per ricevere commenti o suggerimenti. Questo ovviamente avviene soprattutto per gli economisti accademici, ma anche nelle banche centrali o nelle istituzioni internazionali i più vecchi sono mentori dei più giovani, e spesso chi sta in questi centri di ricerca prende sabbatici o altro per insegnare in un qualche dipartimento ed avere accesso agli studenti.
Il lettore comprenderà che quella dell’economista, così come l’ho caratterizzata, è una professione specifica. È difficile che un giornalista o un trader possano farlo. E‘ impossibile fare l’economista senza passare quasi tutto il proprio tempo a fare l’economista. Naturalmente, con l’età l’attività di ricerca ogni tanto rallenta (spesso anche no, fino ai 70) e a volte finisce. Alcuni economisti finiscono a fare consulenze o attività pubblicistica o semplicemente ad andare in barca a vela. Dopo quanto tempo un economista che si dia ad altro smette di essere un economista? Dipende da tante circostanze – cruciale è quanto ci si mantiene al corrente con la ricerca (andando ai seminari ad esempio). Un esempio per tutti: Ben Bernanke è entrato ottimo economista alla Fed e ne uscirà a breve come tale. Alan Greenspan non è mai stato un economista e mai lo sarà. Nemmeno Paul Volcker, che pure è stato a mio parere uno dei migliori governatori della Fed del dopoguerra.
Il lettore penserà che la mia caratterizzazione della professione di economista è essenzialmente quella di un economista accademico; e che pur includendo alcuni economisti che non sono in accademia, ho comunque ammesso nella categoria solo quelli che si comportano essenzialmente come gli accademici. Che male c’è invece a chiamare economista anche il trader, il giornalista economico e altre figure professionali di questo tipo, che pur non essendo accademici, di economia si occupano comunque? In effetti non vi è nulla di male, dopotutto le definizioni sono convenzioni e basta intendersi. Anche se le definizioni servono a distinguere cose diverse e il lettore ammetterà che l’economista di cui parlo io è molto diverso ad esempio da un trader che operi con competenza sui mercati finanziari e abbia opinioni al proposito.
Ma il punto cruciale è che il giornalista economico o il trader che si auto-definiscano "economista" tipicamente lo fanno per millantare conoscenze che non hanno; questo è il caso dei miei due interlocutori, che hanno motivato questo post. Il trader che scrive di mercati finanziari – o il giornalista che commenta gli ultimi dati sul mercato del lavoro in Italia – non si auto-definisce economista. Lo fa chi commenta sulla disciplina, così come essa è praticata, e che auto-definendosi "economista" mira a far credere al lettore di essere all’interno della disciplina che sta criticando. O lo fa chi sfrutta la psicologia di massa per proporre soluzioni a problemi economici che pur se errate (o incorrette, o imprecise, o mal formulate) sono quello che la massa desidera sentirsi dire. Il venditore di olio di serpente contro il cancro deve dire di essere un medico; un medico critico della disciplina, ma un medico; altrimenti la massa lo prende per venditore di olio di serpente quale e'. È ovvio, in altre parole, che una critica interna alla disciplina abbia molto più valore, negli occhi del lettore che non ha gli strumenti per distinguere, di una critica esterna. Per questo l’operazione di auto-definirsi "economisti" è disonesta intellettualmente – proprio perché con "economisti" essi intendono proprio "economisti accademici", così come io li ho caratterizzati. Non è un caso che queste persone (Borghi, Gawronski, Napoleoni sono esempi perfetti) tipicamente cerchino contratti di insegnamento all'università. Per quanto diano, in Italia, diritto a auto-qualificarsi "professore" nei biglietti da visita, i contratti di insegnamento sono oggetti diversissimi dalle posizioni accademiche e non soddisfano nessuna delle proprietà di cui sopra. Sono sabbia negli occhi del lettore.
Un trucco tipicamente usato da questi sedicenti economisti (e dai venditori di olio di serpente) e quello di lamentare il "pensiero unico" che li esclude. Non e' cosi'; essi sono esclusi semplicemente perche' son fuori - non sono economisti, non partecipano al dibattito disciplinare ne' lo comprendono (il dibattito sulla stampa e' ben altra cosa, ovviamente; a quello partecipano e fan bene a farlo se hanno qualcosa da dire). Ma il "pensiero unico" e' un'invenzione. Critiche interne all'economia esistono eccome. Lo sono naturalmente quelle di P. Krugman o di J. Stiglitz (su di esse io ho i miei dubbi, ma per questioni diverse, perche' sono motivate dalla retorica politica). Ma soprattutto, critiche interne sono ad esempio quelle di D. Laibson e M. Rabin (economisti comportamentali; ad Harvard e a Berkley, non tra gli infedeli). E' che essendo queste critiche intelligenti e complesse, pochi le comprendono al di fuori del dibattito accademico, dove si blatera invece di "pensiero unico". Invece critiche da parte chi non ha mai praticato la professione come tale ma si ostina a millantare di farne parte sono innanzitutto disoneste, indipendentemente dal fatto che siano critiche solide o meno.
Naturalmente non penso affatto che il dibattito economico debba essere riservato agli “economisti”, come ho gia' detto. Ci mancherebbe, idee intelligenti riguardo a temi economici possono venire da molte parti. Succede spesso. Io credo che gli economisti tendano ad avere maggiore comprensione della struttura logica degli argomenti economici e anche una superiore capacita' di analisi dei dati. Essi hanno anche una maggiore comprensione dei limiti della disciplina: mi verrebbe da dire che proprio per questo gli economisti tipicamente non fanno previsioni - ma mi rendo conto che ci sono molte eccezioni e me ne dispiaccio - in ogni caso, diciamo che ci stanno piu' attenti. In questo senso credo che gli economisti siano essenziali nel dibattito economico. Ma le discipline accademiche tendono a chiudersi su se stesse verso l’esterno e anche per questo un dibattito aperto è cosa buona e giusta; di più, necessaria. Trader, giornalisti, ma anche imprenditori, consulenti, portano competenze diverse e utilissime al dibattito sulla stampa riguardo a temi economici. Non dico questo cosi' per dirlo con snobistica magnanimita'. Lo penso veramente. In Italia ad esempio c'e' un blogger che fa il trader, alcuni giornalisti economici che bloggano e twittano, e almeno un ex-consulente che scrive sui giornali, che non mi perdo mai; e da cui imparo sempre qualcosa. Nessuno di loro si definisce "economista", che io sappia.
Ma un dibattito che inizia con la disonestà intellettuale non è accettabile. La disonestà va smascherata prima di iniziare a dibattere, per rispetto al lettore. Non è un caso che chi senta il bisogno di millantare conoscenze spesso abbia anche pochi argomenti degni di questo nome, come nel caso dei miei interlocutori che hanno motivato il post; e anche, dal quel che capisco, di Loretta Napoleoni. Che ognuno dichiari con onesta' cosa fa nella vita prima di iniziare. L'onesta' intellettuale e' cosa su cui un intellettuale non transige - per questo le accuse ricevute da parte della buona e benpensante borghesia milanese di voler "srotolare" il CV mi hanno fatto molto male. Non "srotolo" nulla, non lo ho mai fatto, ma non accetto che si "srotoli" quello che non si ha, da parte di nessuno, traders, giornalisti, o buona borghesia milanese che essi siano.
Un esempio finale che spero chiarisca la mia posizione. Io mi sono occupato e mi occupo tra l’altro di economia matematica. Ho insegnato matematica per vari anni. Naturalmente ho insegnato matematica a studenti del college e del dottorato di economia e ho insegnato quella matematica che conosco e che gli economisti usano, diciamo teoria della misura e processi stocastici. Ora, potrei definirmi matematico? No. Ma diciamo di si, con un bel po’ di vanità, attribuendo a me stesso quella superiore intelligenza che indubbiamente i matematici possiedono. Se fiero della mia mia auto-qualifica di matematico scrivessi in un blog letto da matematici potrei (forse) anche dire cose intelligenti, avendo sui processi stocastici una prospettiva diversa (da economista); potrei magari porre questioni a cui matematici veri non hanno pensato o proporre una diversa e interessante interpretazione o applicazione di un teorema; se fossi piu' intelligente di quello che sono potrei anche magari provare un nuovo teorema o un corollario ad un teorema esistente. Ma se invece fiero della mia auto-qualifica di matematico scrivessi i) che la disciplina sta prendendo una piega pericolosa, che troppi matematici si occupano di teoria dei numeri, campo troppo astratto e assolutamente inutile, anzi socialmente dannoso perché le sue poche applicazioni sono in crittografia e quindi utilizzate dai servizi segreti di vari paesi per ragioni di spionaggio online; ii) che troppo pochi si occupano di teoria della misura e processi stocastici (la sola piccolissima parte della matematica che io un po' conosco); se scrivessi questo in pubblico auto-definendomi "matematico" non starei facendo una operazione intellettualmente disonesta? Da economista potrei dire tutto questo ed il lettore capirebbe subito il mio giochetto interessato, ma se mi qualificassi come matematico la cosa sarebbe profondamente diversa, disonesta appunto.
Un caveat finale, che dovrebbe essere chiaro ma che fa probabilmente bene specificare esplicitamente: non voglio creare l'ordine degli economisti certificati, ne' tanto meno assurgere a giudice di chi puo' dichiararsi economista o meno. Voglio solo informare il lettore riguardo a cosa e' tipicamente un economista nella sua professione per permettere al lettore stesso di meglio distinguere chi, millantando critiche esterne per critiche interne, compie una operazione di disonesta' intellettuale. Poi gli economisti sono molto diversi tra loro. Chi voglia comprare olio di serpente, liberissimo di farlo.
P.S. Per chi conosce Newsroom: ha un PhD ma anche Soal Sabbith millanta: non e' un'economista, purtroppo.
Caro Bisin,
se la cosa puo' essere consolante le diro' che la dinamica di attribuzione di competenze fasulle giustificata dall'esclusione dagli ambienti ufficiali che e' tipica dei complottari non e' confinata solo all'economia. La rete, la stampa le TV sono piene di pseudo-scienziati che affermano enormita' su ambiente, alimentazione, cure mediche etc. Prenda per esempio il caso Stamina, oppure l'atteggiamento che e' montato in Italia sugli OGM e che ha portato all'approvazione all'unanimita' di una legge talebana. Questo tipo di ondate di idiozia vengono alimentate dai cosiddetti esperti che ricevono queste investiture sui media. E' paradigmatica la storia della fragola pesce nata anche grazie all'invito di un noto "scienziato" ed "esperto" del problema ad uno mattina Mario Capanna
www.liberidaogm.org/liberi/capannaunomattina.php
bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2007/09/13/logm-che-non-e-mai-esistito/
Haha. Capisco, non mi stupisce anche se in cuor mio speravo fosse piu' difficile millantare di essere uno scienziato vero.
... potrebbe arrivare sulla scena un nuovo luminare, introdotto nell'ambiente or ora proprio da Capanna:
http://www.fondazionedirittigenetici.org/fondazione/new/displaynews.php?commenti=s&id=748
Concordo in pieno. Prendendo questo post e cambiando la parola "economista" con fisico/chimico/biologo/storico/latinista tutto il discorso sta ancora in piedi con pochissime modifiche.