La mia opinione è che i sussidi alla carta stampata né garantiscono la libertà d'informazione né tanto meno la buona informazione. Il Manifesto e il Wall Street Journal compiono infatti tre errori logici. In primo luogo, c'è un'equiparazione fallace tra libertà d'informazione ed esistenza dei quotidiani (e di questi alla buona informazione). Poi assumono erroneamente che l'informazione non sia un mercato. Il terzo errore consiste nell'ignorare le distorsioni provocate dai sussidi pubblici. In questo articolo parlo fondamentalmente dei quotidiani di partito, ma in realtà, visti i vistosi sussidi di cui beneficiano anche i grandi giornali, molte considerazioni riguardano anche questi ultimi.
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Quotidiani=Libertà di stampa?
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La libertà di stampa, l'esistenza dei quotidiani, e la buona informazione sono tre cose diverse. Confondendoli, Il Manifesto e il WSJ giungono alla proposizione per cui mantenendo in vita i quotidiani (attraverso i sussidi), si preserverebbe la libertà di stampa e/o la buona informazione. Hanno torto.
La libertà d'informazione e di stampa non equivale all'esistenza dei quotidiani. Le due cose sono connesse, ma restano distinte. La libertà (in tutte le sue forme) è un bene pubblico. I quotidiani sono un bene privato. La libertà di informazione pre-esiste ai quotidiani. Viceversa, la semplice esistenza dei quotidiani non garantisce la libertà d'informazione.
Ragioniamo insieme. Secondo i giornalisti de Il Manifesto, se il loro quotidiano dovesse chiudere, allora la libertà d'informazione diminuirebbe. Perchè questa affermazione sia corretta è necessario osservare una diminuizione dell'offerta totale del bene pubblico "libertà di stampa". In realtà, cosa osserviamo (al massimo) è una diminuzione dell'offerta di informazione, non della libertà d'informazione.
In breve: la questione della libertà di stampa e d'informazione, così posta, è semplicemente una boiata. Qualcuno potrebbe obiettare che senza giornali la libertà di informazione sarebbe solo formale e non sostanziale. E' vero?
La questione dipende, fondamentalmente, dal livello tecnologico di una certa società. Agli albori dell'era industriale, senza giornali non si aveva libertà d'informazione perchè non esisteva altra informazione. Oggi le cose sono diverse: esiste una pluralità di media. Si pensi a news.yahoo.com o alla TV satellitare o ancora alla free press e a internet: tutte le aziende, istituzioni e ministeri hanno un loro sito internet con i relativi press release. Senza i quotidiani verrebbe quindi a mancare l'informazione? Non mi pare. D'altronde, nulla vieta a Il Manifesto di diventare un quotidiano online: in questo modo, abbattendo i costi di produzione, avrebbero anche un break-even molto più basso e quindi potrebbero continuare ad esistere.
Con internet, infatti, è possibile sviluppare prodotti editoriali a costi ridotti e in grado di raggiungere un mercato molto più vasto. Questa è la ragione per cui internet offre una pluralità di fonti d'informazione. Dunque, se si ha a cuore il pluralismo (o la libertà di stampa sostanziale - sempre cara ai marxisti), più che sussidiare i quotidiani è necessario incentivare la diffusione della broadband in Italia.
Qualcuno potrebbe però avere ancora dei dubbi: e i lettori de Il Manifesto? Questi non verranno privati della loro libertà d'informazione? Per rispondere, bisogna concentrarsi sul secondo errore compiuto da Il Manifesto e da Bollinger: ignorano che l'informazione è un mercato
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Il mercato dell'informazione
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L'informazione è un mercato. E' un mercato particolare, ma resta pur sempre un mercato dove domanda, offerta e prezzi interagiscono e dove quindi gli attori sono soggetti a vincoli e incentivi.
La prima implicazione è che un sistema di sussidi ha due effetti negativi: eccesso di offerta e bassa qualità. Sulla qualità ci torno più tardi, ora guardiamo all'offerta.
Il Manifesto sta morendo economicamente. Non da oggi, non da ieri, ma da anni. La questione è banale: agli italiani il prodotto editoriale Il Manifesto non piace. Sussidiato in tutti i modi, in tutte le salse, con tutte le agevolazioni, Il Manifesto non riesce ad andare avanti. Qualcuno risponderà che la buona informazione non può avere mercato. E invece non è vero: il caso de Il Fatto dimostra chiaramente il contrario. Quindi la questione non è di libertà o di pluralismo d'informazione, ma semplicemente di prodotto editoriale scadente.
Questo punto è importante perchè, anche assumendo che l'esistenza de Il Manifesto rappresenti una condizione necessaria per la libertà di stampa, non vedo la logica nel sussidiare un prodotto che in ogni caso non viene, in larghissima parte, consumato e che, invece, va al macero.
Guardiamo però i dati: che informazione consumano gli italiani? Il Censis ha pubblicato nel 2009 una ricerca (non disponibile online), che offre i seguenti dati (relativamente alle Europee del 2009):
“Il 69,3 per cento degli elettori si è informato attraverso le notizie e i commenti trasmessi dai telegiornali, per scegliere chi votare [...] i Tg restano il principale mezzo per orientare il voto, soprattutto tra i meno istruiti (il dato sale in questo caso al 76 per cento), i pensionati (78,7 per cento) e le casalinghe (74,1 per cento)”.
Lo studio prosegue poi affermando che la carta stampata e i giornali sono stati determinanti per il 25% degli elettori (circa il 35% fra i più istruiti).
In altre parole, nonostante l'informazione cartacea sia disponibile (e sussidiata), la maggior parte degli italiani non la consuma. Ma c'è un altro aspetto più interessante da considerare: se si ha a cuore la libertà d'informazione degli italiani, allora bisogna concentrarsi sulla televisione (75% della popolazione meno istruita, che poi sarebbe anche quella che ha più bisogno di informazione libera). In primo luogo, la libertà di informazione televisiva è effettivamente limitata dal sistema delle concessioni. Ciò, di conseguenza, ha anche poderosi effetti sul pluralismo televisivo. La soluzione è semplice: liberalizzazione delle licenze radio-televisive e privatizzazione della RAI. Non mi ricordo che Il Manifesto abbia mai avanzato una proposta simile.
Rimane però ancora aperta la questione dei lettori de Il Manifesto. Dai dati appena citati, emerge che il 25% degli italiani si informa attraverso i quotidiani e questi appartengono alle classi più istruite. Si noti: tra questi, una sparuta minoranza legge Il Manifesto. Quindi stiamo parlando di preferenze di lettura di qualche migliaio di persone, non di libertà di stampa. Di conseguenza i sussidi ai quotidiani rappresentano un semplice trasferimento di risorse dai poveri ai ricchi. D'altronde, leggere Il Foglio o Il Manifesto non è l'espressione di una libertà individuale, ma piuttosto lusso che poche persone si possono permettere.
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In realtà la questione dei sussidi ai quotidiani crea anche enormi distorsioni, principalmente a livello giornalistico e politico. A livello giornalistico emergono due problemi: selezione delle aziende peggiori e produzione di una cattiva informazione.
C'è, in primo luogo, una questione di adverse selection, tipica conseguenza dell'allocazione delle risorse non tramite mercato ma attraverso la politica. Nei mercati esistono fondamentalmente due tipi di imprese, quelle che fanno innovazioni incrementali (sustaining innovations) e quelle che fanno innovazioni dirompenti (disruptive innovations: Christensen, 2003). Le prime migliorano i prodotti esistenti, le seconde sviluppano soluzioni davvero innovative (internet, google, facebook, etc. sono esempi di disruptive innovations). La differenza riguarda però anche la loro struttura e la loro capacità di lobbying: le prime sono grandi, consolidate e connesse all'establishment, e dunque sono in grado di esercitare forti pressioni politiche. Le seconde sono piccole, de-strutturate, e senza connessioni politiche. Se applichiamo il concetto ai settori altamente politicizzati (come la difesa o, appunto, l'informazione), il risultato è che, sebbene siano le seconde aziende (e innovazioni) a portare benefici alla collettività, saranno le prime ad ottenere il sostegno politico ($$$), con il rischio reale che le seconde non sopravvivano.
Nel caso dell'industria della difesa, per esempio, il Governo americano ci ha messo 3 anni per comprare i mezzi necessari per combattere in Iraq e in Afghanistan. La ragione è che le aziende esistenti erano più capaci a vincere contratti rispetto a quelle che producevano innovazioni utili.
Applichiamo ora il modellino di cui sopra all'informazione in Italia: prendiamo un'azienda esistente, come il Manifesto, e una recente e fortemente innovativa (tipo un sito internet a caso... per esempio nFA). Bene, il modellino di cui sopra mi dice che nFA è realmente disruptive: a costi minori offre maggiore e migliore informazione, analisi approfondite e anche la possibilità di dibattito. Ma ad avere, o comunque combattere, per i sussidi, sarà Il Manifesto. La moneta cattiva scaccia quella buona: e difatti se nFA non avesse alle spalle gente che di mestiere fa altro, non potrebbe esistere. Il mio punto è semplice: se si vuole pluralismo informativo, converrebbe guardare a questo lato dell'offerta. E se proprio di sussidi si vuole parlare, la soluzione migliore è il sussidio monetario all'acquirente, non al produttore. Tradotto: se devo essere tassato per avere pluralismo d'informazione, allora voglio che questi soldi vadano ai redattori di nFA (che poi mi pagano la cena), non a Il Foglio o a Il Manifesto.
Dunque, i sussidi vengono richiesti per favorire il pluralismo. In realtà, il loro effetto più diretto consiste nel limitare l'offerta informativa, sfavorendo imprese editoriali innovative.
C'è poi una seconda questione: questa dipendenza finanziaria dalla politica renderà l'informazione dipendente anche dal punto di vista editoriale, con conseguenze esiziali sulla qualità del prodotto finale. Per sopravvivere, infatti, i quotidiani non guardano ai lettori ma al loro lettore principale, la politica. Il mercato dell'informazione diventa così un monopsonio e come tale finisce per avere le sue tipiche disfunzioni: bassa qualità e totale controllo dell'acquirente principale sul produttore. Di conseguenza, con l'attuale sistema non si mantiene la libertà d'informazione ma invece si finanzia l'apparato propagandistico della politica. Non è un caso che i quotidiani italiani offrano un'informazione partigiana e parlino di politica politicante assai più che di questioni reali o che abbiano spesso schiere di editorialisti a dir poco imbarazzanti. A latere emerge, chiaramente, un'altra distorsione: a fare carriera non sono i giornalisti bravi ma quelli ammanicati politicamente (leggi=scarsi).
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La distorsione sulla qualità della politica
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Purtroppo i sussidi creano anche un secondo, forse più grave, problema: creano forti distorsioni politiche. Due mi sembrano particolarmente evidenti: assenza di controllo sulle agende dei partiti e cattiva selezione della classa politica.
Partiamo dalle agende dei partiti. Il Manifesto è in crisi da anni. Già in passato, il quotidiano era alle corde. Chi venne in loro aiuto? La Cina comunista? La FIOM? La classe operaia? No: l'allora Banca di Roma. Sarà certamente una coincidenza, ma guarda caso, dai partiti vicini a Il Manifesto non è mai arrivata una richiesta di apertura del sistema bancario italiano. Lo stesso ragionamento si può ovviamente applicare agli altri quotidiani politici e ai loro rispettivi finanziatori/inserzionisti: grandi monopolisti comprano spazi pubblicitari su quotidiani di partito senza alcuna ragione apparente (un monopolista deve guadagnare clienti?). Lo scambio, implicito, è chiaro: l'azienda compra pubblicità di cui chiaramente non ha bisogno. Il partito si vede così finanziare la sua attività di propaganda e, in cambio, si adopererà per farle avere dei benefici o almeno eviterà di metterle i bastoni tra lel ruote. I sussidi, mantenendo in vita aziende editoriali decotte, favoriscono questa situazione poco trasparente, soprattutto per via della connessione tra giornali di partito e, appunto, la politica. Anche all'estero un monopolista può comprare le pagine pubblicitarie del WSJ: ma il quotidiano non può influenzare direttamente i politici.
Il secondo problema è di selezione della classe politica. Se i partiti decidono l'allocazione dei sussidi all'informazione è chiaro che ognuno stanzierà fondi per i propri quotidiani. Come ho già detto, la prima conseguenza è un giornalismo partigiano. Ancora più serie sono però le conseguenze sul sistema politico. Con questo sistema, i giornali di partito vengono a rivestire un ruolo centrale sia nella società che nel partito. Questo infatti diventa lo strumento principale attraverso il quale i politici possono avere visibilità. Ciò scatena chiaramente una lotta dentro al partito per il controllo del quotidiano. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: a salire le gerarchie politiche sono principalmente persone che vengono dal giornalismo politico (Veltroni, D'Alema, Gasparri, La Russa: tanto per fare qualche nome a caso). E, dall'altra parte, la politica finisce per ricercare abili propagandisti. D'altronde, se io volessi diventare parlamentare, mi converrebbe cercare lavoro in un giornale di partito, più che fare un'onorata carriera professionale per poi rivendermi alla politica. Questa dinamica ha poi una seconda, grave, conseguenza. La politica incuba e sviluppa una classe politica totalmente avulsa da ragionamenti di lungo termine, conoscenze pratiche, o esperienza diretta. L'unico palestra che hanno vissuto è quella della propaganda politica, della polemica spiccia, giorno-per-giorno. Una delle ragioni per cui la politica italiana non è in grado di parlare d'altro che di se stessa e fa fatica ad affrontare i problemi reali è questa.
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Conclusione
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In conclusione, i sussidi non garantiscono la libertà di stampa. Rappresentano un trasferimento di risorse dai più ai pochi, per un servizio spesso di scarsa qualità: almeno se guardiamo al successo commerciale di questo prodotto. Da quanto ho scritto, emergono dunque una serie di elementi interessanti.
Se si ha a cuore la libertà d'informazione, allora più che spendere soldi per sussidiare i quotidiani bisogna incentivare la diffusione della banda larga. Se si teme comunque che troppe attività editoriali meritevoli non possano autonomamente sopravvivere sul mercato, allora il meccanismo migliore è quello del sussidio al consumatore, non al produttore.
In secondo luogo, i sussidi sembrano creare più distorsioni che benefici. Questi infatti permettono la sopravvivenza di attività editoriali che il pubblico non apprezza. Favoriscono una scarsa qualità dell'informazione, penalizzano le attività editoriali innovative e, infine, favoriscono anche una spirale perversa dentro la politica che tutti possiamo osservare.
In definitiva, senza sussidi vivremmo tutti meglio. Certo, eccezion fatta per tutti quelli che di sussidi ci vivono. Marx diceva che i valori etico-morali di cui si fanno portatori gli individui non sono altro che il prodotto dei loro interessi di classe. Bisogna dunque chiedersi se i giornalisti de Il Manifesto hanno a cuore la libertà d'informazione o il loro (bene o male remunerato che sia) posto di lavoro. Da quanto si può osservare sembra proprio che Marx avesse ragione - almeno questa volta.
Ma sei serio? Ma quotidiani come Il Foglio o Il Manifesto hanno sempre vissuto di sussidi. Oramai gli alti costi fissi sono ripagati. Qui stiamo finanziando al gestione corrente. Per favore.
Affermi poi che i sussidi sono automatici, dunque l'influenza della politica non esiste. NON E' VERO. Per ottenere i sussidi bisogna farne richieste. E per avere diritto bisogna avere dei membri del parlamento tra i propri fondatori/soci. Il punto è un altro: i giornali non vogliono che la legge cambi. E dunque rimangono molto cauti verso i loro sponsor politici.
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