Cosa hanno in comune Il Manifesto e il Wall Street Journal?

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A parte il fatto di essere quotidiani, s'intende.

Stando al Corriere della Sera, la redazione de Il Manifesto ha organizzato una protesta ad oltranza per combattere il taglio ai sussidi elargiti ai quotidiani italiani. A loro modo di vedere, la manovra mette a rischio la libertà d'informazione. Sul Wall Street Journal del 14 luglio, Lee Bollinger (il presidente della Columbia University) fondamentalmente condivideva la tesi: questi chiede infatti un aiuto ($$$) federale per mantenere libera e indipendente la stampa americana.

Per riassumere: i due giornali culturalmente più agli antipodi del mondo occidentale sono schierati sullo stesso fronte. Ad unirli, surprise surprise, è ciò che mette sempre tutti d'accordo: i piccioli, $$$, €€€.

La mia opinione è che i sussidi alla carta stampata né garantiscono la libertà d'informazione né tanto meno la buona informazione. Il Manifesto e il Wall Street Journal compiono infatti tre errori logici. In primo luogo, c'è un'equiparazione fallace tra libertà d'informazione ed esistenza dei quotidiani (e di questi alla buona informazione). Poi assumono erroneamente che l'informazione non sia un mercato. Il terzo errore consiste nell'ignorare le distorsioni provocate dai sussidi pubblici. In questo articolo parlo fondamentalmente dei quotidiani di partito, ma in realtà, visti i vistosi sussidi di cui beneficiano anche i grandi giornali, molte considerazioni riguardano anche questi ultimi.

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Quotidiani=Libertà di stampa?

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La libertà di stampa, l'esistenza dei quotidiani, e la buona informazione sono tre cose diverse. Confondendoli, Il Manifesto e il WSJ giungono alla proposizione per cui mantenendo in vita i quotidiani (attraverso i sussidi), si preserverebbe la libertà di stampa e/o la buona informazione. Hanno torto.

La libertà d'informazione e di stampa non equivale all'esistenza dei quotidiani. Le due cose sono connesse, ma restano distinte. La libertà (in tutte le sue forme) è un bene pubblico. I quotidiani sono un bene privato. La libertà di informazione pre-esiste ai quotidiani. Viceversa, la semplice esistenza dei quotidiani non garantisce la libertà d'informazione.

Ragioniamo insieme. Secondo i giornalisti de Il Manifesto, se il loro quotidiano dovesse chiudere, allora la libertà d'informazione diminuirebbe. Perchè questa affermazione sia corretta è necessario osservare una diminuizione dell'offerta totale del bene pubblico "libertà di stampa". In realtà, cosa osserviamo (al massimo) è una diminuzione dell'offerta di informazione, non della libertà d'informazione.

In breve: la questione della libertà di stampa e d'informazione, così posta, è semplicemente una boiata. Qualcuno potrebbe obiettare che senza giornali la libertà di informazione sarebbe solo formale e non sostanziale. E' vero?

La questione dipende, fondamentalmente, dal livello tecnologico di una certa società. Agli albori dell'era industriale, senza giornali non si aveva libertà d'informazione perchè non esisteva altra informazione. Oggi le cose sono diverse: esiste una pluralità di media. Si pensi a news.yahoo.com o alla TV satellitare o ancora alla free press e a internet: tutte le aziende, istituzioni e ministeri hanno un loro sito internet con i relativi press release. Senza i quotidiani verrebbe quindi a mancare l'informazione? Non mi pare. D'altronde, nulla vieta a Il Manifesto di diventare un quotidiano online: in questo modo, abbattendo i costi di produzione, avrebbero anche un break-even molto più basso e quindi potrebbero continuare ad esistere.

Con internet, infatti, è possibile sviluppare prodotti editoriali a costi ridotti e in grado di raggiungere un mercato molto più vasto. Questa è la ragione per cui internet offre una pluralità di fonti d'informazione. Dunque, se si ha a cuore il pluralismo (o la libertà di stampa sostanziale - sempre cara ai marxisti), più che sussidiare i quotidiani è necessario incentivare la diffusione della broadband in Italia.

Qualcuno potrebbe però avere ancora dei dubbi: e i lettori de Il Manifesto? Questi non verranno privati della loro libertà d'informazione? Per rispondere, bisogna concentrarsi sul secondo errore compiuto da Il Manifesto e da Bollinger: ignorano che l'informazione è un mercato

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Il mercato dell'informazione

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L'informazione è un mercato. E' un mercato particolare, ma resta pur sempre un mercato dove domanda, offerta e prezzi interagiscono e dove quindi gli attori sono soggetti a vincoli e incentivi.

La prima implicazione è che un sistema di sussidi ha due effetti negativi: eccesso di offerta e bassa qualità. Sulla qualità ci torno più tardi, ora guardiamo all'offerta.

Il Manifesto sta morendo economicamente. Non da oggi, non da ieri, ma da anni. La questione è banale: agli italiani il prodotto editoriale Il Manifesto non piace. Sussidiato in tutti i modi, in tutte le salse, con tutte le agevolazioni, Il Manifesto non riesce ad andare avanti. Qualcuno risponderà che la buona informazione non può avere mercato. E invece non è vero: il caso de Il Fatto dimostra chiaramente il contrario. Quindi la questione non è di libertà o di pluralismo d'informazione, ma semplicemente di prodotto editoriale scadente.

Questo punto è importante perchè, anche assumendo che l'esistenza de Il Manifesto rappresenti una condizione necessaria per la libertà di stampa, non vedo la logica nel sussidiare un prodotto che in ogni caso non viene, in larghissima parte, consumato e che, invece, va al macero.

Guardiamo però i dati: che informazione consumano gli italiani? Il Censis ha pubblicato nel 2009 una ricerca (non disponibile online), che offre i seguenti dati (relativamente alle Europee del 2009):

Il 69,3 per cento degli elettori si è informato attraverso le notizie e i commenti trasmessi dai telegiornali, per scegliere chi votare [...] i Tg restano il principale mezzo per orientare il voto, soprattutto tra i meno istruiti (il dato sale in questo caso al 76 per cento), i pensionati (78,7 per cento) e le casalinghe (74,1 per cento)”.

Lo studio prosegue poi affermando che la carta stampata e i giornali sono stati determinanti per il 25% degli elettori (circa il 35% fra i più istruiti).

In altre parole, nonostante l'informazione cartacea sia disponibile (e sussidiata), la maggior parte degli italiani non la consuma. Ma c'è un altro aspetto più interessante da considerare: se si ha a cuore la libertà d'informazione degli italiani, allora bisogna concentrarsi sulla televisione (75% della popolazione meno istruita, che poi sarebbe anche quella che ha più bisogno di informazione libera). In primo luogo, la libertà di informazione televisiva è effettivamente limitata dal sistema delle concessioni. Ciò, di conseguenza, ha anche poderosi effetti sul pluralismo televisivo. La soluzione è semplice: liberalizzazione delle licenze radio-televisive e privatizzazione della RAI. Non mi ricordo che Il Manifesto abbia mai avanzato una proposta simile.

Rimane però ancora aperta la questione dei lettori de Il Manifesto. Dai dati appena citati, emerge che il 25% degli italiani si informa attraverso i quotidiani e questi appartengono alle classi più istruite. Si noti: tra questi, una sparuta minoranza legge Il Manifesto. Quindi stiamo parlando di preferenze di lettura di qualche migliaio di persone, non di libertà di stampa. Di conseguenza i sussidi ai quotidiani rappresentano un semplice trasferimento di risorse dai poveri ai ricchi. D'altronde, leggere Il FoglioIl Manifesto non è l'espressione di una libertà individuale, ma piuttosto lusso che poche persone si possono permettere.

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In realtà la questione dei sussidi ai quotidiani crea anche enormi distorsioni, principalmente a livello giornalistico e politico. A livello giornalistico emergono due problemi: selezione delle aziende peggiori e produzione di una cattiva informazione.

C'è, in primo luogo, una questione di adverse selection, tipica conseguenza dell'allocazione delle risorse non tramite mercato ma attraverso la politica. Nei mercati esistono fondamentalmente due tipi di imprese, quelle che fanno innovazioni incrementali (sustaining innovations) e quelle che fanno innovazioni dirompenti (disruptive innovations: Christensen, 2003). Le prime migliorano i prodotti esistenti, le seconde sviluppano soluzioni davvero innovative (internet, google, facebook, etc. sono esempi di disruptive innovations). La differenza riguarda però anche la loro struttura e la loro capacità di lobbying: le prime sono grandi, consolidate e connesse all'establishment, e dunque sono in grado di esercitare forti pressioni politiche. Le seconde sono piccole, de-strutturate, e senza connessioni politiche. Se applichiamo il concetto ai settori altamente politicizzati (come la difesa o, appunto, l'informazione), il risultato è che, sebbene siano le seconde aziende (e innovazioni) a portare benefici alla collettività, saranno le prime ad ottenere il sostegno politico ($$$), con il rischio reale che le seconde non sopravvivano.

Nel caso dell'industria della difesa, per esempio, il Governo americano ci ha messo 3 anni per comprare i mezzi necessari per combattere in Iraq e in AfghanistanLa ragione è che le aziende esistenti erano più capaci a vincere contratti rispetto a quelle che producevano innovazioni utili.

Applichiamo ora il modellino di cui sopra all'informazione in Italia: prendiamo un'azienda esistente, come il Manifesto, e una recente e fortemente innovativa (tipo un sito internet a caso... per esempio nFA). Bene, il modellino di cui sopra mi dice che nFA è realmente disruptive: a costi minori offre maggiore e migliore informazione, analisi approfondite e anche la possibilità di dibattito. Ma ad avere, o comunque combattere, per i sussidi, sarà Il Manifesto. La moneta cattiva scaccia quella buona: e difatti se nFA non avesse alle spalle gente che di mestiere fa altro, non potrebbe esistere. Il mio punto è semplice: se si vuole pluralismo informativo, converrebbe guardare a questo lato dell'offerta. E se proprio di sussidi si vuole parlare, la soluzione migliore è il sussidio monetario all'acquirente, non al produttore. Tradotto: se devo essere tassato per avere pluralismo d'informazione, allora voglio che questi soldi vadano ai redattori di nFA (che poi mi pagano la cena), non a Il Foglio o a Il Manifesto.

Dunque, i sussidi vengono richiesti per favorire il pluralismo. In realtà, il loro effetto più diretto consiste nel limitare l'offerta informativa, sfavorendo imprese editoriali innovative.

C'è poi una seconda questione: questa dipendenza finanziaria dalla politica renderà l'informazione dipendente anche dal punto di vista editoriale, con conseguenze esiziali sulla qualità del prodotto finale. Per sopravvivere, infatti, i quotidiani non guardano ai lettori ma al loro lettore principale, la politica. Il mercato dell'informazione diventa così un monopsonio e come tale finisce per avere le sue tipiche disfunzioni: bassa qualità e totale controllo dell'acquirente principale sul produttore. Di conseguenza, con l'attuale sistema non si mantiene la libertà d'informazione ma invece si finanzia l'apparato propagandistico della politica. Non è un caso che i quotidiani italiani offrano un'informazione partigiana e parlino di politica politicante assai più che di questioni reali o che abbiano spesso schiere di editorialisti a dir poco imbarazzanti. A latere emerge, chiaramente, un'altra distorsione: a fare carriera non sono i giornalisti bravi ma quelli ammanicati politicamente (leggi=scarsi).

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La distorsione sulla qualità della politica

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Purtroppo i sussidi creano anche un secondo, forse più grave, problema: creano forti distorsioni politiche. Due mi sembrano particolarmente evidenti: assenza di controllo sulle agende dei partiti e cattiva selezione della classa politica.

Partiamo dalle agende dei partiti. Il Manifesto è in crisi da anni. Già in passato, il quotidiano era alle corde. Chi venne in loro aiuto? La Cina comunista? La FIOM? La classe operaia? No: l'allora Banca di Roma. Sarà certamente una coincidenza, ma guarda caso, dai partiti vicini a Il Manifesto non è mai arrivata una richiesta di apertura del sistema bancario italiano. Lo stesso ragionamento si può ovviamente applicare agli altri quotidiani politici e ai loro rispettivi finanziatori/inserzionisti: grandi monopolisti comprano spazi pubblicitari su quotidiani di partito senza alcuna ragione apparente (un monopolista deve guadagnare clienti?). Lo scambio, implicito, è chiaro: l'azienda compra pubblicità di cui chiaramente non ha bisogno. Il partito si vede così finanziare la sua attività di propaganda e, in cambio, si adopererà per farle avere dei benefici o almeno eviterà di metterle i bastoni tra lel ruote.  I sussidi, mantenendo in vita aziende editoriali decotte, favoriscono questa situazione poco trasparente, soprattutto per via della connessione tra giornali di partito e, appunto, la politica. Anche all'estero un monopolista può comprare le pagine pubblicitarie del WSJ: ma il quotidiano non può influenzare direttamente i politici.

Il secondo problema è di selezione della classe politica. Se i partiti decidono l'allocazione dei sussidi all'informazione è chiaro che ognuno stanzierà fondi per i propri quotidiani. Come ho già detto, la prima conseguenza è un giornalismo partigiano. Ancora più serie sono però le conseguenze sul sistema politico. Con questo sistema, i giornali di partito vengono a rivestire un ruolo centrale sia nella società che nel partito. Questo infatti diventa lo strumento principale attraverso il quale i politici possono avere visibilità. Ciò scatena chiaramente una lotta dentro al partito per il controllo del quotidiano. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: a salire le gerarchie politiche sono principalmente persone che vengono dal giornalismo politico (Veltroni, D'Alema, Gasparri, La Russa: tanto per fare qualche nome a caso). E, dall'altra parte, la politica  finisce per ricercare abili propagandisti. D'altronde, se io volessi diventare parlamentare, mi converrebbe cercare lavoro in un giornale di partito, più che fare un'onorata carriera professionale per poi rivendermi alla politica. Questa dinamica ha poi una seconda, grave, conseguenza. La politica incuba e sviluppa una classe politica totalmente avulsa da ragionamenti di lungo termine, conoscenze pratiche, o esperienza diretta. L'unico palestra che hanno vissuto è quella della propaganda politica, della polemica spiccia, giorno-per-giorno. Una delle ragioni per cui la politica italiana non è in grado di parlare d'altro che di se stessa e fa fatica ad affrontare i problemi reali è questa.

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Conclusione

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In conclusione, i sussidi non garantiscono la libertà di stampa. Rappresentano un trasferimento di risorse dai più ai pochi, per un servizio spesso di scarsa qualità: almeno se guardiamo al successo commerciale di questo prodotto. Da quanto ho scritto, emergono dunque una serie di elementi interessanti.

Se si ha a cuore la libertà d'informazione, allora più che spendere soldi per sussidiare i quotidiani bisogna incentivare la diffusione della banda larga. Se si teme comunque che troppe attività editoriali meritevoli non possano autonomamente sopravvivere sul mercato, allora il meccanismo migliore è quello del sussidio al consumatore, non al produttore.

In secondo luogo, i sussidi sembrano creare più distorsioni che benefici. Questi infatti permettono la sopravvivenza di attività editoriali che il pubblico non apprezza. Favoriscono una scarsa qualità dell'informazione, penalizzano le attività editoriali innovative e, infine, favoriscono anche una spirale perversa dentro la politica che tutti possiamo osservare.

In definitiva, senza sussidi vivremmo tutti meglio. Certo, eccezion fatta per tutti quelli che di sussidi ci vivono. Marx diceva che i valori etico-morali di cui si fanno portatori gli individui non sono altro che il prodotto dei loro interessi di classe. Bisogna dunque chiedersi se i giornalisti de Il Manifesto hanno a cuore la libertà d'informazione o il loro (bene o male remunerato che sia) posto di lavoro. Da quanto si può osservare sembra proprio che Marx avesse ragione - almeno questa volta.

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Commenti

Ci sono 92 commenti

Andrea, so di sfondare una porta spalancata, ma rammento a tutti che il tuo splendido ragionamento deve, e ripeto deve, essere esteso a tutti i settori economici. L'elenco è lungo, ma chiunque chiede un "sussidio" non sta facendo altro che cercare di portare a casa il suo (talvolta anche lauto) compenso.

A me viene sempre in mente il caso degli Enti Lirici: uno dei più massicci trasferimenti dai poveri ai divertimenti dei ricchi. Ovviamente la musica lirica mi piace, ma non capisco perchè i compensi del fu Pavarotti (e che compensi!) debbano essere stati pagati dallo Stato a fondo perduto.

Sui giornali: l'esempio da te posto de Il Fatto dimostra che si può fare un giornale di nicchia senza chiedere un cent a chicchessia. E pagare poi gli stipendi di Feltri (che è anche in pensione..), Belpietro e Ferrara.

Sono d'accordo. L'unica differenza è che la lirica non dice che rischiamo di diventare tutti sordi se vengono tagliati i sussidi che riceve. :)

 

aa

parzialmente OT, ma simile ai contributi per la lirica evidenziati da Marco, segnalo la posizione di  De Laurentiis per quanto riguarda i contributi al cinema:

«I film si finanziano con gli spettatori, non aspettando i fondi del governo o attraverso altri escamotage contabili»

 

 

 

 

Secondo me il nodo del problema è proprio quando si dice che la libertà di informazione è un bene pubblico, e l'informazione un mercato all'interno del quale i quotidiani sono un bene privato. Ineccepibile ma rimane da definire la qualità dell'informazione: un parametro soggetto alle leggi della domanda e dell'offerta o, anch'essa, un bene pubblico (perchè condizione necessaria alle diverse forme di libertà)?

Mi spiego meglio con l'esempio della sanità. La sanità è evidentemente un mercato, con una domanda e un'offerta. L'utente della sanità ricerca il bene salute (la propria salute). La qualità della sanità però è un bene pubblico, perchè gli esami e le terapie inutili hanno ricadute negative, e la prevenzione ricadute positive, sulla collettività più che sul singolo (questo sia in un sistema pubblico, che in un sistema assicurativo privato).

Questo appunto però non va a inficiare le conclusioni di Gilli perchè è evidente dalle sue argomentazioni che, tutto sommato, il mercato garantirà meglio la qualità dell'informazione che non i sussidi alla carta stampata. Anche perchè la classe politica non ha alcun incentivo a migliorare lo stato dell'informazione, anzi...

vorrei fare qualche osservazione:

Il Manifesto ai suoi tempi è stato una impresa innovativa (PC, fotocomposizione, stampa offset, teletrasmissione, quando i grandi quotidiani nazionali lavoravano ancora con la linotype);

difatti se nFA non avesse alle spalle gente che di mestiere fa altro, non potrebbe esistere. Il mio punto è semplice: se si vuole pluralismo informativo, converrebbe guardare a questo lato dell'offerta. E se proprio di sussidi si vuole parlare, la soluzione migliore è il sussidio monetario all'acquirente, non al produttore. Tradotto: se devo essere tassato per avere pluralismo d'informazione, allora voglio che questi soldi vadano ai redattori di nFA (che poi mi pagano la cena), non a Il Foglio o a Il Manifesto.

non capisco il ragionamento: parli di sussidio monetario all'acquirente e poi lo traduci in sussidi al produttore. E infatti dici che NfA esiste solo perché i suoi redattori hanno altre fonti di reddito...ma questo è il problema irrisolto del business model della stampa online. Sono perfettamente d'accordo sul fatto che il Manifesto farebbe meglio a diventare soltanto un quotidiano online e sono più che convinto che la libertà di stampa sostanziale sarà garantita dalla banda larga...ma nel medio periodo.
Nell'immediato siamo un paese dove si legge poco, ma anche dove la penetrazione di internet è bassa e segmentata su base di classe/reddito, ubicazione ed età. 

 

 

 

 

 

 

Il mio ragionamento è semplice. I consumatori sono gli unici ad aver ragione. Non ha senso sussidiare tutti i quotidiani politici quando poi nessuno li legge. Se qualcuno deve scegliere come garantire la mia libertà d'informazione (dando soldi a Il Foglio o Il Manifesto) allora preferisco scegliere io. Mi si chieda a quali quotidiani far sopraggiungere la mia quota di sussidi, e io voto tutto per nFA. 

Tu menzioni il problema che in Italia si legge poco. Appunto: e secondo te è sussidiando un giornalismo fatto per la politica che si incentiva la lettura? Non credo proprio.

Sull'informazione online e il modello di business. La questione, citata anche sopra da ME, riguarda la struttura organizzativa. E' ovvio che un sito internet non potrà mai generare gli introiti di un quotidiano. Ma a noi cosa interessa è il profitto non il fatturato. Se Il Manifesto si ristruttura e diventa una redazione di 5 persone ce la può fare. Certo: se a loro sta davvero a cuore la libertà d'informazione allora dovrebbero essere disposti a questi sacrifici. Il punto è che a questi interessano i vili denari dei sussidi pubblici...

Condivido l'articolo ma... mi viene in mente un'eccezione.

Una testata giornalistica locale, in due situazioni:

- se il mercato è troppo piccolo per permettere l'esistenza di un giornale locale (in questo caso effettivamente tutelo il diritto d'informazione delle persone)

- se il mercato è troppo piccolo per permettere l'esistenza di più di un giornale locale; in questo caso sussidio il quotidiano locale minore per eliminare una situazione di monopolio ed effettivamente garantire una pluralità di informazione (in caso contrario la testata monopolista sarebbe sicuramente "ammanicata" con il potere politico locale)

O no???

mah cosí di primo acchito mi verrebe da dire no.

Alla prima obiezione mi verrebbe da dire; e chi decide la scala di grandezza di mercato al di sotto della quale é auspicabile mantenere un giornale al di fuori delle regole di mercato? Un giornale provinciale? uno rionale?

Alla seconda: quindi l'allocazione ottima di informazione locale sono 2 giornali uno che dice A e uno che dice 1-A? E perché uno che dice B no?

Da quel poco di esperienza di giornali locali che ho a me sembra che la situazione attuale (con sovvenzione) porti ad avere un giornale sempre "governativo" con piú o meno gradi di lecchinaggio. Ad esempio il mio é forza leghista da quando posso avere coscienza immagino che a modena sia di sinistra e a Latina immancabilmente di destra.

 

L'articolo di Bollinger cita proprio l'esempio delle radio locali. Ci sono due problemi:

1) appunto, se non ci sono altri mezzi d'informazione, hai ragione. Ma con internet non vedo perchè devo sussidiare un mostro obsoleto. Capiscimi, la libertà di movimento è sacrosanta. Ma perchè devo sussidiare le carrozze (con relativi stallieri, cavalli, etc.) quando ci si può muovere in bicicletta?

2) bisogna sempre dividere due cose, una è la libertà d'informazione un'altra cosa è la stampa. Se vogliamo la libertà d'informazione in un piccolo paese, si paga una persona che fa un bollettino settimale in ciclostile e mette tutte le notizie del Paese. Un posto infimo di duemila anime deve raccogliere poco più di un euro a testa al mese per pagare questa persona. Altra cosa è mantenere una redazione di dieci persone che poi fa i reportage su quanto il sindaco ci fa splendere in Occidente... su quanto il parroco si è adoperato per far ripulire la scalinata della nostra chiesa, invidiata fino a Pechino, etc.

aa

A proposito di quanto sia abbastanza velleitaria la posizione di chi sostiene la banda larga come alternativa ai media tradizionali, stampa e TV, ecco fresco fresco un articolo sulla Stampa di oggi:

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7611&ID_sezione=&sezione=

 

 l’Italia è ventiduesima per percentuale di famiglie con accesso a Internet da casa. 
I primi della classe, ovvero il Nord Europa, hanno percentuali quasi doppie rispetto alle nostre (il 90% delle famiglie ha accesso Internet), ma anche Francia, Malta e Slovenia ci staccano nettamente. Peggio di noi solo Grecia, Portogallo, Romania e Bulgaria. Guardando al commercio, appena l’8% di italiani compra su Internet, contro il 45% di tedeschi e il 18% di polacchi. Uno stupefacente 41% di piemontesi non ha mai usato un computer - la stessa percentuale del distretto di Bucarest. E così via. Ma non sono solo le famiglie e i singoli ad essere indietro. L’Italia è anche ventesima (su 25) per spese in hardware, software e servizi relativamente al prodotto interno lordo; ciò significa che anche le imprese italiane adottano in media poche tecnologie digitali rispetto alle concorrenti europee, dato confermato anche da diversi altri indicatori relativi all’uso dei tali tecnologie nelle imprese. Infine la Pubblica Amministrazione: in questo ambito l'Italia si colloca sotto la media europea, anche se non di molto, ma con livelli medi di usabilità dei servizi e di monitoraggio della soddisfazione degli utenti molto bassi. Nelle scuole, poi, il numero medio di computer connessi a Internet per alunno è, secondo gli ultimi dati disponibili (2006), tra i più bassi dell’Unione Europea. 

A questi dati, duri nella loro oggettività, si affianca qualcosa di più qualitativo, allo stesso tempo sia causa sia effetto dello scenario sopra tratteggiato, ovvero, uno scetticismo, se non una diffidenza, nei confronti di Internet molto più diffuso che in altri Paesi avanzati. Uno scetticismo generico e non ragionato, spesso condiviso da esponenti della classe dirigente

Ora, anch'io preferirei Huffington Post e DailyKos al Manifesto, visto il differente impatto, ma:

un giornale cartaceo ha accessi alle pubblicità, alle conferenze stampa e ai dibattiti, ha visibilità e autorevolezza per il fatto stesso di essere un giornale (vedi nell'articolo, a proposito di scetticismo e diffidenza), un sito/blog/whatever no;
tecnologicamente un giornale online è fruibile a casa o in ufficio su un PC fisso, su uno smartphone (l'oculista NON è incluso nel prezzo) o sul portatile se c'è il WiFi (decreto Pisanu permettendo); finché i reader mobili tipo I-Pad non saranno una realtà di massa, puntare tutto sull'online è azzardato.

 

e se i sussidi statali andassero proprio alla banda larga?

Sono reduce da una settimana in agriturismo a San Gimignano: un'oasi di pace circondati dalle meraviglie della natura e dell'uomo; ma senza banda larga. Il proprietario mi ha detto che Telecom non ha alcuna intenzione di mettere la linea perche' ci perderebbero solo soldi (in effetti, posso capire il punto di vista di Telecom). Lui sta cercando di risolvere in altro modo (avete letto degli esperimenti wi-max?), ma il problema persiste. Sarei ben piu' felice che le mie tasse (anzi, non le mie, le mie le pago all'estero) andassero a pagare queste cose e non il Manifesto o altri quotidiani. Questo sarebbe un modo di difendere la liberta' di accesso all'informazione.

CITO: La libertà (in tutte le sue forme) è un bene pubblico.

 

Mi sfugge come la libertà possa essere non-rivale e non-escludibile. A me invece risulta che, a meno di restrizioni legali e/o statali, è l'informazione un bene pubblico, mentre la libertà è "semplicemente" una posizione giuridica.

Non essendomi chiaro questo passaggio, non sono andato avanti sul post.

anche a me la liberta' sembra un bene per lo meno escludibile, basti pensare ai regimi dove vige la schiavitu'. Si "produce" (whatever that means) la liberta' per alcuni ma si impedisce ad alcuni di goderne dei benefici.

e nemmeno l'informazione mi sembra un bene completamente pubblico (per lo meno in senso ristretto): anche l'informazione mi sembra un bene per lo meno escludibile to some extent (non tutti abbiamo accesso alle stesse informazioni: per esempio io non so nulla del dietro le quinte dei negoziati di pace tra israele e i palestinesi, mentre immagino Obama sappia di piu').

Questi trasferimenti si potrebbero giustificare se ci fossero esternalità positive; se per la lirica o "il mondo della cultura" (musica, teatro ecc.) si potrebbe azzardare qualche argomentazione decente (ma ne dubito) per la stampa non c'è niente da fare, da qualsiasi punto di vista si osserva, sono soldi  bruciati.

 

Caro Gilli,

vedo dal suo curriculum che si e' specializzato in Relazioni internazionali. Un interesse che e' stato per me la prima vera e significativa occasione di approfondimento delle conoscenze univ. (studi sul Duroselle, R.A. Carriè, ecc.) e quindi forse siamo entrambi un po' fuori tema. Comunque, come forse ricordera' qualcuno con cui qui ho fatto qualche chiaccherata, mi sono poi occupato soprattutto di economia e, infine, di giornalismo (economico). Mi piacerebbe capire se il suo contributo parte dall'interno o dall'esterno del settore giornalistico, perche' ovviamente non e' la stessa cosa, senza con questo discuterne ovviamente il valore. Ma veniamo a quel che voglio dire. 

Lei afferma:

Qualcuno potrebbe però avere ancora dei dubbi: e i lettori de Il Manifesto? Questi non verranno privati della loro libertà d'informazione? Per rispondere, bisogna concentrarsi sul secondo errore compiuto da Il Manifesto e da Bollinger: ignorano che l'informazione è un mercato... un mercato particolare, ma resta pur sempre un mercato dove domanda, offerta e prezzi interagiscono e dove quindi gli attori sono soggetti a vincoli e incentivi.

 

Ci sono delle liberta' un po' particolari, una di queste e' la liberta' di opinione. Che non e' un fatto solo individuale, ma che si intreccia profondamente con la possibilita' di formarsi un'opinione, quindi con la produzione delle notizie. 

Ora la notizia la produce il giornalista. In Italia c'e' l' O.d.G., ci sono delle leggi che disciplinano l'attivita', c'e' la carta dei doveri della professione: il giornalista deve pubblicare cio' di cui viene a conoscenza, ha l'obbligo del segreto professionale, deve rispettare i congiunti che non c'entrano in casi di cronaca, non puo' scrivere su titoli azionari o altri strumenti finanziari presenti in un suo portafoglio (diretto o indiretto), ecc.... Insomma e' tutto scritto. Bene, quindi la liberta' di tutti comincia da qui, cioe' nel fare in modo che sia sempre salvaguardata al massimo la possibilità di raccontare la verita'. Nei paesi anglosassoni la faccenda funziona(va) a dovere (un giornalista che raccontava balle era innanzitutto inconcepibile e poi, se ci provava, era finito, per via della pressione dell'ambiente e tutto quel che seguiva). Ora le cose stanno un po' cambiando. Sono arrivati editori "sovranazionali", e' arrivato internet. Ed e'arrivata la crisi della carta stampata. Si deve aiutarla? CdB ha dichiarato di recente che bisogna aiutare le aziende editoriali a migrare sulle nuove tecnologie. Certe cose, se provenienti da un simile personaggio, non sono dette per dire. Il problema non e' dunque solo WSJ o Il Manifesto, o solo la carta stampata. Il problema e' anche la migrazione ai nuovi media e quindi l'analisi della natura dei nuovi media.

Le nuove tecnologie. Molti soggetti, molta concorrenza, questa la base della/e libertà. Ebbene, mi sono permesso di chiederle se era del mestiere perche' non ha menzionato Google. 

La battaglia non si sta per ora sviluppando intorno al finanziamento pubblico (se vorra' spiegare meglio questa bizzarria del "sussidio al consumatore"...), quelli visti sono solo assaggi. Comunque ci si muove su scala internazionale (ricordera' che si parti' con un tentativo, anche italiano, di limitare, e tendenzialmente far chiudere, i Blog, tentativo tutt'altro che sconfitto).

Quel che bisogna capire invece è che la battaglia attuale ruota tutta intorno all'occupazione degli spazi creati dalle nuove tecnologie. E qui entra in ballo il ruolo di Google. Mi riferisco ovviamente a Google News 

Ora la struttura della Home di Google News e' semplice: sì raggruppano titoli su uno stesso argomento, e uno di questi va in testa, con un breve riassunto; seguono subito sotto i link di due/tre articoli con il solo titolo e poi altri 3/4/5 con il nome del solo sito di provenienza. Infine un link con "Tutte le notizie" (cioe' tutti i restanti link su quell'argomento che rimanda ad una pagina specifica di Google). 

Cosa succede nella pratica? Che il grosso delle visite, a parte gli aficionados, ad un sito arriva ormai solo da Google News. Una posizione in testa al raggruppamento di una notizia su Google News, per solo mezz'ora, puo' significare molte migliaia di visite, una seconda posizione poche decine, il resto come se non ci fosse. Ci sono poi le ricerche di Google News, ma tralascio di approfondirle perche' per il singolo sito incidono poco. Ora tra gli editori c'è rivolta. Oggi il francese Les Echos ha dato notizia di una iniziativa degli editori francesi per contrastare Google News. In Italia ci sono stati ricorsi davanti al garante... in tanti contestano questa posizione dominante di Google News; ed anche una economista deve considerarla semi-monopolistica (anche perche' oltretutto il sistema e' brevettato). La conclusione pratica e' questa: se non ti danno spazio su Google News la tua impresa giornalistica in internet non decolla o, se e' gia' decollata, ed è presente su quella piattaforma, ma poi ne viene esclusa, rischia di chiudere. Perché il problema è quello della pubblicità. C'è una soglia minima di visitatori piuttosto alta per poter avere contratti pubblicitari (che magari non sono la soluzione definitiva, ma permettono perlomeno di sopravvivere anche se con una redazione ridottissima). Questo è il problema.

Nel mio/nostro caso (borsaplus.com) in passato eravamo spesso su Google News in prima posizione sulla singola notizia (sez. Economia); da un certo momento in avanti non piu', al massimo solo quarti/quinti. Quindi sparite le visite che provenivano da quella fonte, una specie di "shock" esterno. Abbiamo fatto il diavolo a quattro (praticamente da soli, anche se il discorso era di tipo generale), scrivendo anche direttamente a Google, per dirgli che la loro iniziativa di fatto configurava una situazione di edicola virtuale (quasi) unica e che quindi la loro non poteva essere considerata alla stregua di un'iniziativa solamente di tipo commerciale, data anche la natura dello strumento con cui si aveva a che fare, cioè l'informazione. Era nostra intenzione chiedere quindi ufficialmente i criteri con cui erasno stati selezionati gli articoli in precedenza, e i criteri con cui venivano selezionati oggi. 

Abbiamo salvato delle pagine in cui La Repubblica ha la prima la seconda e la terza posizione in uno stesso articolo di borsa. Anche oggi (h. di merc. 19 luglio h. 19:42 - v. sotto) La Repubblica e' al primo posto nel commento di borsa. Dopo queste nostre osservazioni (ce ne sono state più di una), sarà stata una coincidenza, però la presenza e' stata un po piu' variegata, e il responsabile per l'Europa di Google, un italiano,  ha parlato di  evoluzione del sistema Google News verso articoli a pagamento. In sostanza, io faccio l'articolo, loro, previo accordo generale con l'editore, lo pubblicano e ci guadagniamo tutti e due se qualcuno lo compra. L'iniziativa francese (nata direttamente dagli editori) si contrappone a quella di Google, perché si tratta, in entrambi i casi, di piattaforme a pagamento. 

Come si vede c'è grande evoluzione nel settore, qualcuno chiede aiuti, non solo i giornali cartacei più sfigati, ma la battaglia vera è quella del mercato, in particolare su Internet. La battaglia e' iniziata solo ora e l'esito, come si dice, e' incerto.  Anche perche' i modelli di business non sono ne' chiari, ne' facili da fare.

Intanto per arricchire il quadro segnalo un articolo sul nostro sito (non per fargli pubblicità, abbiamo altro per la testa)  in cui si parla della crisi del Sole 24Ore.

Ci sarebbe da scrivere ancora tantissimo, ma credo che può bastare questo. Credo anche sia giusto ribadire la richiesta: Google N. deve pubblicare i criteri di selezione degli articoli. Loro dicono che la scelta è automatica. Io dico che prima era una cosa, e oggi un'altra. Lo stesso dicono tanti altri piccoli editori. Ho dati incontrovertibili a tal riguardo. 

Luciano Priori F.

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Es. (odierno) di Google News

G. News

 

 

Grazie per il commento. Non ho citato direttamente google.news perchè il mio interesse non è capire come funziona l'informazione su internet ma piuttosto spiegare come funziona la carta stampata. Tutto qui. Nessuno dice che tutto funzioni alla perfezione o che non ci siano problemi di percorso. La questione di google.news mi è nota, a grandi linee. Ma non credo infici la mia analisi.

Anzi, dal suo discorso mi sembra che una cosa sia chiaro: la carta stampata non ha proprio futuro. Un ragione in più per tagliare i sussidi, aa.

Inizio il commento richiamando Noam Chomsky e la sua analisi del mondo dell'informazione.

In Inghilterra, il Daily Herald (quotidiano socialdemocratico non di partito) vantava una circolazione quotidiana pari all'8,1% dei lettori nazionali (il doppio rispetto al The Times) ma aveva soltanto il 3,5% degli introiti pubblicitari. Era letto per lo più da operai (non dalla upper class) ed alcuni sondaggi mostravano che era molto apprezzato dai suoi lettori, di più rispetto ai lettori degli altri quotidiani.

Naturalmente, il The Times ancor oggi esiste, mentre il Daily Herald, pur vendendo il doppio, è fallito. La causa sta negli introiti pubblicitari. Le imprese investono in quotidiani che:

a) hanno un pubblico con un maggior potere d'acquisto (quelli letti dalle classi medio-alte)

b) creano un "ambiente favolrevole al consumo", cioè non fanno inchieste sulle aziende che investono in pubblicità sul quotidiano stesso (mai la Coca Cola comprerebbe uno spazio su Le Monde Diplomatique quando nella pagina precedente si racconta delle guerre per l'acqua in Colombia fomentate dalla multinazionale e delle concessioni sulle sorgenti acquisite attraverso la corruzione plateale)

Sostanzialmente, le imprese d'informazione private che si autodefiniscono "gratuite" (sostenute da vendite e pubblicità) hanno un contro, l'autolimitazione informativa.

Come mai il programma di maggior "approfondimento" e "giornalismo d'inchiesta" a mediaset si chiama "Le Iene" mentre quello della Rai "Report" e "Presa diretta"? La risposta è facile: raccolta pubblicitaria, nessuna causa da sostenere in Tribunale (Report ne ha forse una 50ina in corso, fin'ora tutte vinte). Fare informazione indipendente in una situazione di mercato costa.

Inoltre, a causa del requisito alla lettera a), i giornali di tendenza laburista o socialdemocratica sono sempre svantaggiati nel mercato (poichè hanno lettori, di solito, meno abbienti).

Passo alla critica, su queste basi, degli assunti del post:

- "La prima implicazione è che un sistema di sussidi ha due effetti negativi: eccesso di offerta e bassa qualità. Sulla qualità ci torno più tardi, ora guardiamo all'offerta. Il Manifesto sta morendo  economicamente. Non da oggi, non da ieri, ma da anni. La questione è banale: agli italiani il prodotto
editoriale Il Manifesto non piace.
"

Non tiene conto del mercato pubblicitario, che svantaggia i giornali come Il Manifesto. Il Fatto Quotidiano è un giornale di tendenza liberale-legalitaria e non incontra tali problemi.

- "Dunque, i sussidi vengono richiesti per favorire il pluralismo. In realtà, il loro effetto più diretto consiste nel limitare l'offerta informativa, sfavorendo imprese editoriali innovative."

nFA non è un quotidiano o periodico di carta stampata, invece i sussidi sono soltanto su di essa. Quindi, iniziate a stampare ed avrete i vostri sussidi. I sussidi servono per favorire l'inizio dell'attività, visti gli alti costi fissi. Dopo un breve periodo, se si raggiunge il numero di lettori sufficiente (e la quantità di pubblicità giusta) a reggere economicamente il quotidiano bene, sennò si chiude.

- "C'è poi una seconda questione: questa dipendenza finanziaria dalla politica renderà l'informazione dipendente anche dal punto di vista editoriale, con conseguenze esiziali sulla qualità del prodotto finale. Per sopravvivere, infatti, i quotidiani non guardano ai lettori ma al loro lettore principale, la politica."..."Il secondo problema è di selezione della classe politica. Se i partiti decidono l'allocazione dei sussidi all'informazione è chiaro che ognuno stanzierà fondi per i propri quotidiani."

Il problema non esiste, poichè (se hai letto la legge) i sussidi sono automatici, non discrezionali.

- "grandi monopolisti comprano spazi pubblicitari su quotidiani di partito senza alcuna ragione apparente (un monopolista deve guadagnare clienti?). Lo scambio, implicito, è chiaro: l'azienda compra pubblicità di cui chiaramente non ha bisogno. Il partito si vede così finanziare la sua attività di propaganda e, in cambio, si adopererà per farle avere dei benefici o almeno eviterà di metterle i bastoni tra lel ruote."

Questo vale per i giornali di partito (che hanno ulteriori finanziamenti, e quelli andrebbero aboliti). Nell'esempio da te cictato, quello de Il Manifesto, ciò non vale. Inoltre la pubblicità influenza, come spiegato da Chomsky e riportato sopra, sempre l'informazione. La minor dipendenza da essa, grazie ai sussidi, garantisce maggiore, e non minore, libertà.

 

Vedo una seri di problemi.

Sulla questione degli introiti pubblicitari e le inchieste contro la Coca-Cola: capisco che abbiamo due visioni diverse di giornalismo. Per me quella è propaganda anti-capitalista. Ci sono di sicuro casi di multinazionali che tengono comportamenti obiettabili, ma rimane da vedere se le cose andavano meglio prima. In secondo luogo, io ho visto qualche indagine di report, e sono indecenti. Le equiparerei alla truffa per la quantità di disinformazione e parzialità che offrono... Qualcuno, poi, mi deve spiegare perchè il Washington Post o il New York Times possono fare grandi inchieste e hanno lo stesso pubblicità.

Sussidi. Scrivi:

nFA non è un quotidiano o periodico di carta stampata, invece i sussidi sono soltanto su di essa. Quindi, iniziate a stampare ed avrete i vostri sussidi. I sussidi servono per favorire l'inizio dell'attività, visti gli alti costi fissi. Dopo un breve periodo, se si raggiunge il numero di lettori sufficiente (e la quantità di pubblicità giusta) a reggere economicamente il quotidiano bene, sennò si chiude.

 

 

Ma sei serio? Ma quotidiani come Il Foglio o Il Manifesto hanno sempre vissuto di sussidi. Oramai gli alti costi fissi sono ripagati. Qui stiamo finanziando al gestione corrente. Per favore.

Affermi poi che i sussidi sono automatici, dunque l'influenza della politica non esiste. NON E' VERO. Per ottenere i sussidi bisogna farne richieste. E per avere diritto bisogna avere dei membri del parlamento tra i propri fondatori/soci. Il punto è un altro: i giornali non vogliono che la legge cambi. E dunque rimangono molto cauti verso i loro sponsor politici.

aa

 

Non trovo nel tuo commento alcuna relazione fra il bilancio in perdita de "Il Manifesto" e i sussidi.

Il Manifesto è in vendita a € 1,30 (forse uno fra i più cari), e vende 22.000 copie giornaliere, il sabato, con l'inserto di Le Monde costa € 2,50 e vende qualcosina in più.

Con queste cifre vende molto meno del Daily Herald, ma potrebbe camparci alla grande, anche perchè essendo una cooperativa hanni tutti lo stesso stipendio. Il problema sono i costi, non i ricavi (un mio professore di Economia Aziendale ripeteva sempre: non conosco aziende fallite per mancanza di ricavi, ne conosco tantissime fallite per aumento dei costi), non è chiedendo "più sussidi" che Il Manifesto vive, Il Manifesto vive se riesce a dare un stipendio con circa € 900.000 di ricavi mensili (sola vendita del quotidiano, la Coop comunque fa pubblicità su Il Manifesto), tenendo presente che come cooperativa paga oneri sociali ridotti.

Non ti faccio il conto di quante persone possono lavorare con quelle cifre, ma ti garantisco che non sono poche.

Paradossalmente, altrimenti, l'informazione "di nicchia" de Il Manifesto potrebbe essere demandata a 1.000 giornalisti, tutti sussidiati. E perchè ?

E smettiamola con le fregnacce che "l'informazione alternativa costa", al momento Report ha vinto tutte le cause, e ci ha addirittura guadagnato. Basta che l'informazione sia ben documentata, nient'altro.

Capisco il punto generale, che si può riassumere così: chi parla contro il "sistema" in genere e contro il modo di vivere della maggioranza ha meno commercial appeal di chi invece va con la maggioranza, sia questa di destra, sinistra, sopra o sotto.

Condivido. È così: in ogni sistema sociale e ad ogni punto nella storia dell'uomo quelli che son stati "contro" la maggioranza e le credenze che questa accetta hanno avuto difficoltà a farsi ascoltare e ad avere successo.

So what? Pensaci: potrebbe essere altrimenti? Se chi è "contro" diventa maggioranza, allora non è più "contro" e sono gli altri che diventano "contro" e "minoranza" e con scarco commercial appeal e via così. Cambiano le parti, ma non l'esistenza di minoranze perdenti! Non vedo soluzione, proprio non la vedo.

E parlo per esperienza personale. Da sempre scrivo cose "contro", contro il mainstream, la "established wisdom", il punto di vista della maggioranza, le piccole e grandi certezze che la "maggioranza" (sia essa nella mia professione, in parrocchia, in paese, a scuola, o dove vuoi tu) accetta. Ho anche mandato a quel paese più di un posto o persona "che conta". Parecchi qui han fatto lo stesso. Risultato? Vendiamo meno; di certo molto meno di quello che "venderemmo" se avessimo fatto i bravi bambini e, come altri, ci fossimo attaccati ad uno dei carri della maggioranza. Perché la maggioranza ha tanti carri, non uno solo.

Che ci posso fare? È ingiusto il sistema? Non credo: basterebbe che ripetessi come un papagallo stupido ciò che pensa la maggioranza e moltiplicherei le vendite. Idem per gli altri che, qui ed altrove, tendono a parlare contro le verità accettate dalla maggioranza.

Nota anche che questo crea un interesse problema epistemologico: tutti quelli che parlano "contro" hanno ragione? Oppure hanno ragione solo alcuni di loro, quelli che dopo "vinceranno"? Quando "vinceranno", ossia a che momento nel tempo fissiamo la verifica di chi ha ragione e di chi ha torto? Oppure ha sempre e solo ragione la maggioranza, che per definizione è la vincitrice ad ogni dato momento nel tempo? Oppure non riesce possibile definire bene cosa intendiamo per "ragione"? Sia chiaro, non sto facendo il post-modernista cretinoide, mi limito all'ambito della politica e delle valutazioni politico-morali, economiche al più.

Pensaci: questi fatti (che son sempre veri) non implicano (di per se) che non vi sia libertà d'informazione. Implicano solo che il "popolo", la "gente", le "masse" sempre ed ovunque discrimina(no) contro, e non gradisce(ono) chi racconta cose diverse da quelle che ama(no) sentire, chi argomenta che lo stato di cose esistente, e le credenze che su di esso si edificano reggendolo, è forse meno che ideale, molto meno.

Eppoi non è nemmeno vero che la maggioranza va sempre dallo stesso lato. Per esempio, tu dici

 

a causa del requisito alla lettera a), i giornali di tendenza laburista o socialdemocratica sono sempre svantaggiati nel mercato

 

Pensa al NYTimes, ottimo contro esempio. O, in Spagna, a El Pais ... l'elenco è lungo. Forse il Daily Herald era solo un giornale mal fatto!

Tutto il resto che scrivi, spero tu lo capisca da solo, è perfettamente illogico. Tipo il fatto che per avere i sussidi buoni occorre "stampare" il giornale!!! E perché? Io sono un tree-hugger, non mi piace tagliare alberi senza una buona giustificazione!

 

b) creano un "ambiente favolrevole al consumo", cioè non fanno inchieste sulle aziende che investono in pubblicità sul quotidiano stesso (mai la Coca Cola comprerebbe uno spazio su Le Monde Diplomatique quando nella pagina precedente si racconta delle guerre per l'acqua in Colombia fomentate dalla multinazionale e delle concessioni sulle sorgenti acquisite attraverso la corruzione plateale)

Sostanzialmente, le imprese d'informazione private che si autodefiniscono "gratuite" (sostenute da vendite e pubblicità) hanno un contro, l'autolimitazione informativa.

 

Non credo a questa grande capacità degli inserzionisti di condizionare le linee editoriali, semplicemente perchè il mercato degli spazi pubblicitari non è un oligopsonio.

Mi viene in mente il caso scoppiato qualche anno fa, in seguito ad un pezzo del Sole in cui si 'stroncava' una cotoletta (pensa te!) del ristorante di Dolce e Gabbana e i due minacciarono di togliere la pubblicità dal giornale. Non so se la cosa sia poi avvenuta, ma De Bortoli non se ne curò molto, anzi si lasciò andare a critiche sui loro prodotti sartoriali.

Morto un inserzionista se ne fa un altro.