Quanto interessa l’agricoltura agli economisti? Ogni volta che un economista spiega le leggi della domanda e dell’offerta, in particolare se le spiega a un pubblico non troppo preparato, o magari un po’ refrattario, fa il suo ingresso sulla scena il contadino con le sue mele: mele che probabilmente oggi costano 5 e domani 10, o viceversa, a seconda della domanda, ed è sempre chiaro che se le mele dovessero finire per costare troppo poco il contadino potrebbe smettere di produrle per darsi alle pere, o alle patate, o magari all’allevamento delle galline, oppure potrebbe acquistare nuovi terreni per produrre più mele, o scegliere di diversificare la produzione coltivando un po’ di mele e un po’ di pere, in modo da contenere i rischi.
Ecco, se c’è un settore in cui le cose non funzionano così quello è l’agricoltura, quantomeno l’agricoltura europea. Per questo penso che gli economisti tendano a dimenticarsi dell’agricoltura non appena riescono a superare lo scoglio del contadino con le mele, per passare a una dimensione più complessa.
Perché nel mondo reale il contadino che avesse difficoltà a vendere le sue mele (o i suoi cereali) si guarderebbe bene dallo smettere di produrle, se esse gli garantiscono l’accesso ai sussidi. Oppure potrebbe non avere nessun interesse a considerare l’andamento del prezzo delle mele (o del latte) se lo stesso viene stabilito non dal mercato ma da accordi interprofessionali di filiera. Magari potrebbe essere interessato a produrre mele col baco (le chiamano “biologiche”), dato che hanno ancora meno mercato ma gli garantiscono un sussidio maggiore, o decidere che sia un buon affare buttare le sue mele (o il suo mais) a fermentare in un vascone di liquame per produrre un biogas che nessuno farebbe se non ci fossero anche qui fior di incentivi.
Sicuramente non penserebbe ad incrementare la sua produzione di mele, dato che per farlo gli servirebbe più terra e la terra costa più di quel che vale, proprio per i sussidi che sono legati al possesso della medesima, oppure perché è espressamente vietato produrre più mele (o uva, o latte) di quelle che già produce, e se ne vuole produrre di più deve acquistare da qualcun altro il “diritto” di produrle.
Oltretutto da qualche parte hanno deciso che il fatto che lui continui ad essere uno sfigato produttore di mele bacate, magari col cappello di paglia e il filo d’erba in bocca, fa bene (chissà perché) all’ambiente, alla tutela del paesaggio agrario, alla lotta ai cambiamenti climatici, alla conservazione di antichi sapori, al massimo potrà godere della strabiliante opportunità di andare a vendere le sue mele ad un farmer’s market (sussidiato) alla città più vicina, cosa che faceva anche suo nonno da ragazzo (il quale nonno raccontava anche di come si patisse la miseria a quel tempo), che già suo padre si vantava di non aver mai fatto e che lui stesso non avrebbe mai immaginato di dover tornare a fare.
Certo, non è così dappertutto. Ci sono paesi, come il Brasile, in cui il contadino in soli dieci anni è riuscito a triplicare l’export delle sue mele (e di tutto il resto), ad aumentare la produzione di quasi l’80% utilizzando meno del 30% di terra in più. Ma queste cose il nostro di contadino non le deve sapere, anzi è meglio che continui a pensare che sia meglio fare sempre come l’anno prima, che se le sue mele non le vuole più nessuno è meglio beccarsi un po’ di elemosina pubblica piuttosto che cercare strade più redditizie, che le biotecnologie, l’intensificazione, l’efficienza e i mercati globali siano prodotti del demonio e che in quegli altri mondi lontani la produzione cresce e i contadini fanno soldi perché le multinazionali, perché la speculazione, perché i cinesi, perché la mano d’opera da tre soldi, perché il modello superfisso…
A meno che non si ricominci a ragionare di agricoltura e mercato, agricoltura e scienza, agricoltura e innovazione. In due parole, agricoltura e opportunità. Proprio per provare a ragionare di queste cose, e cominciare a raccontare questo mondo paradossale, quasi un anno fa ho cominciato a scrivere un blog, La Valle del Siele. Dapprima ci scrivevo solo io, poi, negli ultimi tempi, sono arrivati anche altri autori con maggiori competenze di quelle del sottoscritto (che non è né economista, né scienziato, ma solo un agricoltore a cui i sussidi hanno garantito, quantomeno, un po’ di tempo libero da passare davanti al pc).
La band al momento è composta da Claudio Costa alla zootecnia, Gianpaolo Paglia all’enologia, i ragazzi di Biotecnologie Basta Bugie agli Ogm, e la partecipazione straordinaria di Pierre Desrochers, Hiroko Shimizu e Antonio Pascale. Nella valle però si parla un po’ di tutto, in base al principio secondo il quale un buon agricoltore deve essere al tempo stesso agronomo, biologo, geologo, economista, ragioniere, metereologo, climatologo, chimico… meccanico, elettricista, idraulico, muratore e pure un po’ politico. E proprio per questo non ci dispiacerebbe riuscire a dire la nostra prima che il 2013 ci consegni la nuova, disastrosa, Politica Agricola Comune.
Quindi siamo aperti ai commenti e ai contributi di chiunque, per una ragione o per l’altra, abbia a cuore un’agricoltura libera. Libera, per dirla con la mission del sito, prima di tutto dai luoghi comuni che, nell’indifferenza generale e con l’accondiscendenza dei mezzi di informazione, orientano le politiche di spesa e di intervento pubblico, libera dai sussidi, libera di svilupparsi attraverso l’innovazione e il mercato. E libera di parlare di sé senza piangersi addosso.
Bellissimo articolo, complimenti! Devo dire che anch'io mi ero quasi convinto che l'agricoltura in Europa potesse sopravvivere soltanto grazie ai sussidi. L'esempio del biogas su "la Valle del Siele" è illuminante sulle storture che incentivi e i sussidi possono provocare.