L’idea che voglio sostenere è che la causa principale della non crescita italiana degli ultimi 10 anni è che le generazioni che dovrebbero fare da traino del paese, immettendo innovazione e reggendo la sfida della competitività, non sono in condizioni di farlo.
Esiste una sofisticata letteratura economica su crescita economica, struttura demografica e capitale umano, ma non baserò la mia argomentazione su questa letteratura. Cercherò di spiegare perché la/le generazione/i che avrebbero l’onere e l’onore di trainare la crescita italiana, non sono in condizioni di farlo, evidenziando le condizioni “oggettive” per cui questo accade, le ragioni perché queste condizioni si sono create, e la condizione “soggettiva” o “psicologica” che, fino ad oggi, ha impedito che questo fatto si sia tradotto in vero e proprio conflitto.
Cominciamo dalle condizioni oggettive. La mia generazione (ho avuto il primo contratto co.co.co il 1 gennaio 1996 e quindi sarò una delle prime pensionate contributive al 100 per cento), e quelle che seguono, stanno oggi sostenendo il debito pubblico, il debito pensionistico e il costo della trasformazione del mercato del lavoro avvenuta negli ultimi 15 anni. Di questi tre costi, solo il primo viene sostenuto insieme alle altre generazioni, via pressione fiscale.
Per capire meglio, sono utili i c.d. conti intergenerazionali, che considerano i benefici della spesa pubblica, l’onere delle imposte e dei contributi pensionistici su ciascuna coorte di popolazione. Per l’Italia mostrano che coloro che sono nati dopo il 1955 daranno allo Stato più di quanto riceveranno nel corso della loro vita, mentre coloro che sono nati prima del 1955 riceveranno più di quanto hanno dato (si veda Rizza e Tommasino, 2008).
A proposito del mercato del lavoro, la legge Treu è entrata in vigore nel giugno del 1997 e ha codificato tipologie contrattuali che si erano diffuse in Italia dall’inizio degli anni novanta.
I suoi effetti, attesi e non, sono stati i seguenti:
a) “il salario relativo dei lavoratori dipendenti più giovani si è ridotto nel corso degli anni novanta e negli anni successivi. Alla fine degli anni ottanta le retribuzioni nette medie mensili degli uomini tra i 19 e i 30 anni erano del 20% più basse di quelle degli uomini tra i 31 e i 60 anni, e la differenza era salita al 35% nel 2004. Un andamento simile si osserva per le retribuzioni orarie, che non risentono della crescente diffusione del lavoro part-time, ed è riscontrabile a tutti i livelli di istruzione”. (tratto da Rosolia e Torrini, 2007).
b) in condizione di crisi sono i giovani a perdere il posto di lavoro per primi. "La riduzione rispetto al 2008 della quota di occupati tra i giovani è stata quasi sette volte quella osservata tra i più anziani. Hanno pesato sia la maggiore diffusione fra i giovani dei contratti di lavoro a termine sia la contrazione delle nuove assunzioni, del 20 per cento. Da tempo vanno ampliandosi in Italia le differenze di condizioni lavorativa tra le nuove generazioni e quelle che le hanno precedute, a sfavore delle prime. I salari d’ingresso in termini reali ristagnano da quindici anni" (dalla Relazione Generale di Banca d’Italia, maggio 2010).
c) i nuovi entrati non hanno la forza per “ingaggiare una salutare dialettica generazionale tra senior insider e junior insider”, che sarebbe benefica per innovare. Questo perché i giovani che lavorano alle stesse condizioni dei meno giovani sono numericamente molto pochi. Lo sono per due ragioni: la prima è che sono diminuiti come coorte di popolazione; se negli anni ‘70 la classe di età 20-29 sovrastava nettamente la classe 60-69, ora il progressivo calo dei primi e l’aumento dei secondi ha portato ad una situazione di sostanziale equilibrio. La seconda è che la probabilità di essere uno junior insider è molto bassa –Boeri e Garibaldi hanno stimato la probabilità di avere un contratto a tempo indeterminato, partendo da un contratto a termine, tra il 5 ed il 10 per cento. La dialettica junior e senior insider, per quanto poco studiata -almeno con riferimento all’Italia-, è particolarmente importante se si guarda alla possibilità di sfruttare le nuove conoscenze e la capacità di adattarsi al nuovo che coloro che sono di più recente formazione dovrebbero avere.
Come è possibile che queste condizioni si siano create?
Sicuramente le ragioni per cui queste condizioni si sono create sono molte. Però, per capire perchè le importanti riforme fatte (due per tutte, quella delle pensioni tra 1992 e 1995, e quella del mercato del lavoro) sono state "spalmate" in maniera così iniqua tra generazioni, può essere utile guardare a come le generazioni sono rappresentate.
Billari e Galasso nel 2007 osservavano che dei 45 membri del Comitato del Partito Democratico, che avrebbe dovuto guidarne la nascita, due terzi erano uomini e non c’era nessuno che avesse meno di 40 anni. Se si guarda alle istituzioni, la quota dei deputati under 40 è passata dal 7,9 per cento alla XIII legislatura, al 5,4 per cento nella XIV per poi risalire all’8,4 per cento nell’ultima. Poco, se di considera che gli eleggibili della coorte 25-40 anni sono oltre il 30 per cento del totale (Billari, 2007).
Amato e Sartori etichettano la discussione come giovanilismo. Secondo me si tratta di avere chiaro che, dalle condizioni oggettive illustrate sopra, in Italia chi ha più di 40 e chi ha meno di 40 sono due gruppi di persone che hanno interessi diversi, trasversalmente rispetto alla condizione socioeconomica e territoriale. Alle ultime elezioni regionali, nelle cinque regioni dove a sfidarsi non sono stati candidati coetanei la differenza di età a favore del candidato di centrodestra è di 19 anni abbondanti (Antonio Funiciello, Cooptazione e clonazione in Mondoperaio, maggio 2010). Quando però, in uno dei suoi rari interventi del 2010, Prodi ha detto che i giovani devono cacciare i più anziani a calci nel culo, Bersani si è affrettato a dichiarare che aveva fatto un segreteria di 40-enni e che i segretari regionali nell'80 per cento dei casi sono dei quarantenni e che di diecimila amministratori, ottomila sono tra i 30 e i 40 anni.
Detto questo, concludo rispondendo a queste due domande:
- Perché il conflitto non è ancora esploso?
- Se è vero che il PD ha molti giovani dirigenti, che la maggioranza degli amministratori locali sono sotto i 40 anni, e che il centrodestra è stato anche più rapido in questo passaggio, cosa stanno dicendo/facendo questi coetanei?
Perché il conflitto non è ancora esploso? Il conflitto non è ancora esploso per almeno due ragioni. La prima è che si tratta di una bomba disinnescata. “I giovani italiani siano indotti a chiedere come favore dai genitori quanto negli altri Paesi si ottiene dallo Stato come diritto. La famiglia di origine, unico e vero «ammortizzatore sociale », compensa quello che non offre il sistema di Welfare pubblico (e/o un mercato che funziona, aggiunta mia). Aiuta a trovare lavoro, a integrare il magro stipendio iniziale, a pagare affitto o mutuo, a fronteggiare le varie situazioni di difficoltà nel processo di conquista di un propria autonomia. Ma una società nella quale conta soprattutto scegliersi bene la famiglia nella quale nascere, e poi tenersi buoni i genitori il più a lungo possibile, non è l’esatto ritratto di una società equa e dinamica” (cit. Rosina, 2008. Perché non scoppia la rivoluzione giovanile?, Il Mulino).
La seconda è che: “La condizione di precarietà costringe i giovani a rimanere quotidianamente preoccupati del proprio percorso individuale a mantenere quindi costantemente lo sguardo verso il basso per decidere come e dove posare il piede, passo dopo passo. Più difficile allora, in queste condizioni, riuscire ad avere il tempo, la condizione psicologica e le energie intellettuali, per sollevare lo sguardo e cercare di capire cosa sta accadendo al di sopra delle loro teste”. (cit. sempre Rosina, 2008).
Cosa fanno i giovani politici che sia il PD sia il centrodestra hanno sponsorizzato? Luigi Marattin, ricorrendo alla genetica per descrivere il meccanismo della “cooptazione fidelizzante”, dice "Questo meccanismo raffigura una riproduzione della classe dirigente per mitosi: una riproduzione asessuata che trasmette copie esatte di cromosomi dai genitori ai figli. Il figlioccio così ha davanti a sé non una rendita di posizione già godibile ma, il che è molto peggio, la prospettiva/ certezza di ereditarla; la drammatica conseguenza di tutto questo è che, spesso, i giovani fanno blocco con i padrini per ostacolare riforme strutturali: lo vediamo succedere, prima di tutto, nelle università. Ecco perché l’età anagrafica è una categoria necessaria ma non sufficiente per garantire un vero ricambio" (Assemblea Annuale Libertauguale, 2006).
Come giustamente osservato, l’età anagrafica è una categoria necessaria ma non sufficiente per garantire un vero ricambio. La condizione necessaria e sufficiente è che i giovani tirino su la testa, la tengano ben dritta e pretendano di entrare nel palazzo.
Molto suggestivo e pienamente condivisibile, anche nella conclusione così amara. Ma allora cosa dobbiamo fare?
Sono convinta che siano veramente migliaia le persone, giovani anagraficamente o solo nell'animo, che non attendono altro che il modo di avviare un riscatto collettivo che meritiamo, come Paese, come popolo e come individui.