ROSSANA (affacciandosi): Siete voi? Parlavamo di… di un…
CIRANO: Bacio. E’ una parola dolce. Non capisco perché voi non osiate pronunciarla. Se già questo vi fa bruciare tutta, che accadrà poi più avanti? Non abbiate paura. Non avete poco fa, quasi senza accorgervene, rinunciato a giocare? Non siete passata senza traumi dal sorriso al sospiro e dal sospiro al pianto? Andate avanti, ancora un poco, senza farci caso, e vedrete: dalle lacrime al bacio non c’è che un brivido.
ROSSANA: Tacete!
CIRANO: Un bacio – ma che cos’è poi un bacio? Un giuramento un po’ più da vicino, una promessa più precisa, una confessione che cerca una conferma, un punto rosa sulla “i” di “ti amo”, un segreto soffiato in bocca invece che all’orecchio, un frammento d’eternità che ronza come l’ali d’un’ape, una comunione che sa di fiore, un modo di respirarsi il cuore e di scambiarsi sulle labbra il sapore dell’anima! …
Cyrano de Bergerac, Edmond Rostand, atto 3 scena 10
È il primo bacio a dare le risposte all’attesa amorosa: un gesto semplice, carico d’aspettative, denso di delizie, ma anche naturale, arcano, intimamente istintivo. Le labbra si sfiorano, assaporano la pelle dell’amato, parlano e rispondono al mistero della passione, della fame e dell’amore.
Freud diceva che “il bacio è, per animali ed esseri umani, portatore di cibo: se non baciamo chi amiamo, a livello simbolico gli togliamo un nutrimento fondamentale, il nutrimento dell’anima”. Secondo la sua teoria impariamo l’arte del bacio appena nati, al primo contatto col seno materno, e quest'arte si andrà poi arricchendo nell’esperienza del nutrimento. Del resto, per quanto poco poetico possa apparire, anche gli uomini svezzavano i loro cuccioli nutrendoli per mezzo della bocca: quando non esistevano pappette preconfezionate, omogeneizzati e liofilizzati, le mamme svezzavano i pargoli passando loro il cibo da bocca a bocca, così come nella migliore tradizione animale. L’atto della “suzione” e del “tastare” con la lingua il capezzolo materno durante l’allattamento, corrispondono dunque esattamente al reciproco nutrirsi degli amanti nell’atto di baciarsi. Il bacio è dunque un atto carico di valenze ancestrali: è “nutrimento” di cui fruire e da donare all’altro, offrendosi nella morbidezza delle labbra congiunte, ma è anche consapevole abbandono ai denti ed alle fauci dell’altro in segno di fiducia e reciproco scambio.
Gustav Klimt esplora la psiche femminile nella vasta complessità delle pulsioni più intime, le sue donne sono sensuali e morbide dominatrici soggiogate dall'istinto. Gli occhi semichiusi, le labbra rosse semiaperte al respiro, al sospiro, raffigurano icone conturbanti dall’aspetto pienamente e maturamente pronto al piacere dell’eros, eppure ancora cariche di un’aura di freschezza che fonde erotismo e purezza nella piega del collo ricurvo, nell’atteggiamento d’attesa ed offerta espresso dal linguaggio del corpo.
“Va’, bacio mio, lascia il fragile asilo,
Il tuo amore è trovato, te lo porge una betulla.
La resina d’estate e la neve d’inverno
Si son date pena.”
(René Char, da “La double tresse”, traduzione di Giorgio Caproni)
Nel Bacio, Klimt fa un passo in avanti, descrivendo l’eros non solo come istinto al piacere, al nutrimento sensoriale, ma come abbandono di due esseri l’uno nell’altro in un abbraccio. L’uomo è proteso in avanti, virile nell’atteggiamento protettivo e teneramente possessivo nei confronti della donna che gli si offre totalmente. La loro unione ha una valenza spirituale quasi mistica: l’atto fisico trascende in totale corresponsione, sublime unione. La donna non è qui rappresentata come solitaria e ammaliante seduttrice, irraggiungibile icona di passione e desiderio, al contrario essa è attrice d’uno scambio di sensi morbidamente intessuto, condiviso. I corpi degli amanti sono uniti in un tutt’uno privo di dettagli realistici, le loro vesti sono tuniche geometricamente “intagliate” secondo il gusto tipicamente klimtiano per i costumi ed i decori della tradizione giapponese, mentre gli unici dettagli fisici pienamente definiti, sono il volto degli amanti e le loro braccia. I decori geometrici delle vesti sono allusivamente simbolici, con chiari richiami alle caratteristiche sessuali degli attori: la veste maschile appare decorata con figure geometriche verticali, al contrario la tunica femminile è ornata di ricami circolari che alludono palesemente ai genitali femminili.
Sullo sfondo prevale l’oro bizantino ad indicare l’assenza di tempo nella misticità dello scambio amoroso, che vede i due amanti inginocchiati su un terreno fiorito, simbolo della fertilità del loro incontro. Tuttavia, nell’idillio del dipinto appare chiaramente un altro forte elemento simbolico: la coppia strappata al tempo dalla sublimazione dell’amore, si trova a ridosso di una voragine che rimanda fortemente al tema della caducità delle cose stabilito nell’equilibrio delle forze di Hρος e Θαναθος, secondo cui, l’amore giunge alla propria sublimazione solo attraverso l’esperienza della fine/morte.
Eros e Thanatos dunque, ovvero la raffigurazione immaginifica delle principali pulsioni di vita e di morte che coabitano ed interagiscono nelle dimensioni/tensioni costruttive e distruttive sia a livello psichico che funzionalmente biologico e vitale di ogni individuo. In medicina (ad esempio nelle culture orientali che si basano sul bilanciamento degli equilibri di bene e di male, luce ed ombra: yin e yang) esse vengono rintracciate e suddivise a livello puramente metabolico e biologico nell’istinto al nutrimento (processo di alimentazione-assimilazione) e in quello alla eliminazione (processo di trasformazione-espulsione) di quanto “ingerito”: che sia cibo con conseguente eliminazione delle scorie (per mezzo di defecazione, minzione, sudorazione), ma anche nel caso “etereo” della respirazione: immissione dell’aria, assimilazione dell’ossigeno, espulsione dell’anidride carbonica. In questa proporzione di impulsi ed istinti, si costruisce dunque il gioco di equilibri in “dare/avere”, indispensabile per un corretto funzionamento a livello organico. Qualora uno di questi istinti dovesse venire meno o diminuire di intensità ed efficacia rispetto all’altro, si manifesterebbero patologie, affezioni organiche, quindi, malattie. A livello psichico/mentale avvertiamo pulsioni di vita e di morte, che verranno più ristrettamente identificati nell’impulso all’amore (alterità) e in quello all’odio (isolamento/egocentrismo/egoismo): tutti amiamo e odiamo, quando “amiamo” alimentiamo noi stessi e l’altro da noi, ad esempio nelle arti gli istinti propulsori sono determinati da impulsi di “amore”, passione, quindi impulsi positivi, che originano l’istinto alla ricerca ed allo studio (che si manifesta come desidero di nutrimento per la nostra anima/coscienza/ragione [comunque la si voglia chiamare]), diversamente quando “odiamo” siamo distruttivi verso noi stessi e verso l’altro da noi.
Ogni nostra scelta è “affetta” da impulsi di amore ed odio, se ci troviamo a passare davanti ad un cinema ed osserviamo le locandine dei film in programmazione, la nostra scelta ed il nostro occhio si poseranno su ciò che intimamente, già a priori, è determinato da mille altri fattori che acuiscono il nostro bisogno ed istinto positivo: se la locandina è esteticamente piacevole, “ammiccante”, “appetibile” ai nostri gusti, ci soffermeremo fino a leggerne titolo, nomi di attori e regista, e se tutto collimerà con i nostri canoni di “piacere” e quindi di istinto “all’alimentazione”, avremo bell’e fatta la nostra scelta cinematografica; mentre più o meno contemporaneamente, avremo “scartato” (espulso) ciò che ci genera istinto di “rigetto” [ad esempio la locandina con l’ultimo “pappone cinematografico natalizio” Boldi-De Sica (che nel mio personale caso, oltre all’istinto di rigetto, soleva una sorta di adirata “indignazione” per la triste massificazione del gusto e dell’educazione all’istinto)].
Quindi è chiaro come a livello dialogico con noi stessi strutturiamo il nostro equilibrio in dare/avere, fare-creare/disfare-distruggere.
Nel suddetto caso di Klimt, il concetto di “sublimazione” dell’amore nella morte, si rifa a quel senso di caducità ed impossibilità, riscontrabile in tanta letteratura, laddove si palesa quel senso di precarietà ed inattuabilità nell' “avere” (vivere un amore, un desiderio, una passione, che può essere anche intesa come politica e civile) che sfocia nella scelta della morte: suicidio d’amore.
Per rendere l’idea:
Avremo letti intrisi di sentori
tenui, divani oscuri come avelli,
sulle mensole nuovi e strani fiori,
nati per noi sotto cieli più belli.
Consumandosi a gara, i nostri cuori
come due grandi torce due ruscelli
verseranno di vampe e di fulgori
nei nostri spiriti, specchi gemelli.
Una sera di rosa e azzurro mistico,
un lampo solo ci vedrà commisti,
lungo singhiozzo carico d’addio.
Un Angelo, schiudendo indi le porte,
a ravvivar verrà, gaudioso e pio,
gli specchi opachi e le due fiamme morte.
Charles Baudelaire – La mort des amants – CXXI – trad. G. Bufalino
Ma anche quando gli amanti vengono uccisi, essi “sublimano” il loro stato di passione ed amore nel vivere il proprio inferno senza pentimento: Paolo e Francesca.
Nel caso del quadro di Klimt, ma anche nel quadro omonimo di Munch, si avverte una sorta di cappa che gravita sull’idillio del bacio, proprio in virtù della veridicità dell’esistenza: nulla può alimentarsi in eterno, tutto ha una fine. La sublimazione dell’amore nella morte può anche significare la completa comprensione di ciò che “è stato” quando questo continuerà ad essere solo memoria nell’assenza, nella fine.
Questo è l’imperfetto gioco di equilibri che ci viene fornito – privo di garanzie di tempo, qualità e durata – nell’atto d’espulsione (concepimento-parto) con data approssimativa di scadenza, che convenzionalmente chiamiamo principio-vita, ed inevitabilmente fine-morte. Il resto appartiene a quell’insieme di domande in cerca di risposte, che l’uomo in atto ed istinto positivo-creativo-nutritivo si pone, al fine di equilibrare la propria ansia verso la morte con l’istinto positivo alla speranza, che lo aiuti a superare il dolore ed il distacco da sé e da ciò che lo ha alimentato.