Il 27 luglio alle ore 11.30 è ripresa al Senato della Repubblica la discussione sul disegno di legge 1905 di riforma dell’Università, licenziato (così si dice) dalla Commissione competente (?) dopo una serie di modifiche. Discussione già interrotta e rinviata nell’ultima seduta del 22 luglio scorso dopo una breve introduzione del relatore, Sen. Valditara del PdL. Non è chiaro dunque quando avrà termine questa lenta agonia che ci porterà all’approvazione del testo. Ma quando vi arriveremo una cosa è certa: nulla cambierà nell’Università italiana. Una sconfitta che ha la pesantezza di una pietra tombale sulle speranze di tanti che avevano creduto fortemente in una riforma efficace (vedi www.gustavopiga.it per una proposta che presentammo con Elisabetta Iossa a Firenze agli incontri di NFA nel 2009).
I perché di questo fallimento non interessano più di tanto. Un misto di mancanza di decisionismo, interessi vari delle lobby (tutte rappresentate come sempre meno le uniche che contano, quelle dei giovani studenti, utenti del servizio), consulenti del Ministro incompetenti o, qualora competenti, con logiche diverse perché docenti in università private ed infine un interventismo contestuale, ragionieristico ed erratico del Ministro Tremonti non coordinato con il Ministro Gelmini, che impattava sulle risorse a disposizione un momento sì ed un altro pure. Come se quello su cui conta impattare all’interno dell’Università italiana fosse il “quanto si spende” e non piuttosto il “come si spende”.
Mi interessa invece molto sottolineare perché questa, come tante altre riforme dell’Università non avrà impatto alcuno su quanto succede nei nostri Atenei. Anzi forse li renderà ancora più farraginosi e inefficaci.
Primo effetto. Un incremento verticale della burocrazia concorsuale. Viene da piangere a leggere l’articolo 14 del DDL che instaura l’idoneità nazionale per identificare i “migliori”. Per selezionare i commissari di concorso, che dovranno decidere dell’idoneità del candidato, è previsto il sorteggio da una lista. Già questa scelta la dice lunga sulla capacità del meccanismo di riforma di incidere sui comportamenti: se il meccanismo veramente funzionasse che bisogno ci sarebbe di non fidarsi dei giudicatori usando una lotteria sconosciuta in tutto il resto del mondo? Ma la ciliegina sulla torta è stata introdotta in Commissione parlamentare: essa prevede la presenza nella commissione di concorso di “studiosi e di esperti di pari livello in servizio presso università di un Paese aderente all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE)”. L’OCSE? Sì l’OCSE. Non “qualsiasi paese del mondo”. Non “dell’area dell’euro”. Non “dell’Unione Europea”. No. L’OCSE, compresi esperti messicani e coreani. Ma non della Romania o dell’Uruguay. Non è chiaro se la legge abbia un contenuto leggermente anti-semita ,visto che Israele è in questo momento listata come “paese che cerca di accedere all’OCSE”. Certo che non farsi giudicare da un professore israeliano è un chiaro segnale di serietà riformatrice (qualcuno mi dice che devo specificare che sono ironico).
Chi volesse, tra i docenti italiani, partecipare come commissario di concorso dovrà aver “presentato domanda per esservi inclusi, corredata della documentazione concernente la propria attività scientifica complessiva, con particolare riferimento all’ultimo quinquennio”. Ma sì, l’esame agli esaminatori! E perché non l’esame agli esaminatori degli esaminatori, già che ci siamo? Magari fosse finita qui. Il DDL prevede che “la commissione può acquisire pareri scritti pro veritate sull'attività scientifica dei candidati da parte di esperti revisori in possesso delle caratteristiche”. Pro veritate? Esperti revisori? E chi sarebbero?
E poi? Una volta selezionati gli “idonei”? Prosegue il DDL: “Le procedure di reclutamento sono programmate e avviate nel rispetto dei seguenti criteri: a) una percentuale non superiore alla metà dei posti di professore di ruolo di prima e di seconda fascia, la cui copertura è programmata da ciascun dipartimento … può essere destinata a procedure di chiamata diretta al personale in servizio nell’ateneo, assicurando alle stesse la pubblicità all’interno dell’ateneo; b) almeno uno su tre dei posti di professore di prima e di seconda fascia disponibili in ciascun dipartimento è coperto da professori che non hanno prestato servizio presso l’università banditrice nei precedenti tre anni.“ Dopo che avete capito bene questo linguaggio da pianificatore centrale, vi sarete resi conto che, ai sensi dei punti a) e b), combinati con un sano pragmatismo e cinismo sulle cose della vita, il 50% dei posti sarà riservata ai docenti interni, ed il rimanente 50% ad ex-interni che hanno passato gli ultimi tre anni a bagnomaria in un altro ateneo, magari a seguito di uno scambio con un’altra università per ospitare per 3 anni un loro interno. Tutto questo ovviamente perché non vi è alcun beneficio o guadagno dal chiamare i migliori ricercatori, un punto su cui torniamo a breve.
Sarebbe stato semplicissimo e fondamentale lasciare libere le Università di selezionare chi volevano e come volevano, purché i fondi che avrebbero poi ricevuto fossero stati basati su valutazioni oggettive della qualità delle ricerca di costoro. Ma era troppo chiedere, la semplicità.
Secondo effetto. Non c’è. Cioè non c’è l’effetto sulla qualità della ricerca. Certo ci sarà la famosa ANVUR, che “… verifica e valuta i risultati secondo criteri di qualità, trasparenza e promozione del merito, anche sulla base delle migliori esperienze diffuse a livello internazionale, garantendo una distribuzione delle risorse pubbliche coerente con gli obiettivi, gli indirizzi e le attività svolte da ciascun ateneo” . Tutto bene? Beh no. Tanto per cominciare l’ANVUR dovrà anche agire “nel rispetto del principio della coesione territoriale del Paese”. Tradotto: se l’università di Bolzano fosse 100 volte peggio di Palermo avrebbe un appiglio giuridico splendido per ricevere gli stessi fondi di Palermo. Certo c’è sempre speranza: il “Governo è delegato ad adottare, entro il termine di dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi finalizzati a riformare il sistema universitario per il raggiungimento dei seguenti obiettivi: a) valorizzazione della qualità e dell’efficienza delle università e conseguente introduzione di meccanismi premiali nella distribuzione delle risorse pubbliche, anche mediante previsione di un sistema di accreditamento periodico delle università.” Al di là del fatto che potremmo aspettare ben più di un anno per vedere questi decreti approvati, essi saranno comunque inutili. E questo perché, grazie al Sen. Possa del PdL, sei piccole parole hanno levato qualsiasi forza a qualsiasi meccanismo premiale si volesse introdurre. L’art. 5 comma 5, punto a), che prima recitava “attribuzione di una quota del Fondo di Finanziamento Ordinario correlata a meccanismi di valutazione delle politiche di reclutamento degli atenei, fondati su: la produzione scientifica dei professori successiva al loro inquadramento in ruolo; la percentuale di ricercatori a tempo determinato in servizio che non hanno trascorso l’intero percorso di dottorato e di post-dottorato nella medesima università; la percentuale dei professori reclutati da altri atenei; la percentuale dei professori e ricercatori in servizio responsabili scientifici di progetti di ricerca internazionali e comunitari; il grado di internazionalizzazione del corpo docente” (non male eh?) dopo il passaggio in Commissione ora leggesi: “attribuzione di una quota non superiore al 3 per cento del FFO correlata a meccanismi di valutazione delle politiche di reclutamento degli atenei, …” . Cambiato tutto: perché il 3% sono noccioline. Pochissima roba. Un tetto che rappresenta un ritorno all’indietro rispetto a quota 7% esaltata fino allo scorso anno dalla Gelmini che era comunque lontano dalla quota che con Elisabetta Iossa ritenevamo minima per spingere gli Atenei a portare i soldi là dove si generava ricerca di qualità. Con un tratto di penna il Sen. Possa ha mandato all’aria la condizione necessaria (anche se non sufficiente) affinché si potesse avere una riforma di successo del sistema universitario.
Ma stiamo tranquilli c’è sempre l’ANVUR che (art. 6 comma 5) “stabilisce criteri oggettivi di verifica dei risultati dell'attività di ricerca ai fini del comma 6.” E cosa dice il comma 6? Che “in caso di valutazione negativa ai sensi del comma 5, i professori e i ricercatori sono esclusi dalle commissioni di abilitazione, selezione e progressione di carriera del personale accademico, nonché dagli organi di valutazione dei progetti di ricerca.” Wow! Cioè se un ricercatore buono a nulla dovesse essere valutato negativamente - e non ci è chiaro chi mai all’interno dell’Ateneo vorrebbe valutarlo come tale se non per qualche vendetta trasversale (che con più probabilità riguarderà un ricercatore bravo) - cosa ci perde? Di far parte delle Commissioni di abilitazione! Tenuto conto che ovviamente, si legge altrove nel DDL, il partecipare alla commissione nazionale “non dà luogo alla corresponsione di compensi, emolumenti, indennità o rimborsi spese” (altro segno di indecenza amministrativa) ci sembra veramente una punizione drammatica che cambierà per sempre la qualità della nostra ricerca. Scherzo. Lo so non è divertente, ma mi domando con che coraggio ci si possa presentare in Parlamento con un testo così sciatto e irritante.
C’è poi il comma 12. Merita riportarlo: “i professori e i ricercatori sono tenuti a presentare una relazione triennale sul complesso delle attività didattiche, di ricerca e gestionali svolte, unitamente alla richiesta di attribuzione dello scatto stipendiale di cui agli articoli 36 e 38 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382. La valutazione del complessivo impegno didattico, di ricerca e gestionale ai fini dell'attribuzione degli scatti triennali di cui all'articolo 8 è di competenza delle singole università secondo quanto stabilito nei regolamenti di ateneo. In caso di valutazione negativa, la richiesta di attribuzione dello scatto può essere reiterata dopo che sia trascorso almeno un anno accademico.” Ma lo sanno gli autori del DDL che in Italia la conferma per ricercatore universitario dopo 3 anni da parte di una Commissione esterna all’Ateneo è sempre stata data per non avere “troppi problemi”? E ora pensano che una commissione interna di Ateneo possa negare quanto una Commissione esterna non osa? Nessun ateneo darà mai una valutazione negativa. O meglio, la minaccia di ricevere una valutazione negativa sarà probabilmente usata per vendette trasversali (sì di nuovo!) e per mettere in difficoltà giovani ricercatori che non si piegano troppo al volere del barone di turno. Cioè, questa legge aumenterà il potere del baronato, non lo diminuirà.
Sorvolo sull’assenza:
- di qualsiasi legame tra quei (pochi) fondi legati al merito che riceverà un Ateneo con chi ha permesso che giungessero a quell’Ateneo;
- di una qualsiasi possibilità di sganciare le carriere dei professori da strette gabbie salariali legate a mera anzianità di servizio;
- di un drastico ripensamento dei salari d’ingresso dei più giovani, oggi infinitesimi e ulteriormente tagliati, che andavano raddoppiati immediatamente a scapito di quelli di coloro che, malgrado l’anzianità acquisita, non fossero riusciti, in un ragionevole arco di tempo, a progredire quanto a qualità del loro lavoro scientifico.
Mi limito a chiudere questo lungo sfogo augurandomi, come faccio ogni 5 anni, che la prossima riforma cambi sul serio le cose.
P.S. Una minuzia. Tra gli obiettivi della riforma non vi è solo la “valorizzazione della qualità e dell’efficienza delle università” come dicevamo, ma, subito accanto, anche la “valorizzazione dei collegi universitari legalmente riconosciuti mediante la previsione di una apposita disciplina per il riconoscimento e l'accreditamento degli stessi anche ai fini della concessione del finanziamento statale”. I collegi universitari allo stesso livello della qualità e l’efficienza nelle università? Apparentemente. Il relatore ha poi introdotto in fase di dibattito in Commissione un piccolissimo emendamento a questo articolo, approvato naturalmente, che prevede la “valorizzazione dei collegi universitari legalmente riconosciuti, ivi compresi i collegi storici”. Poco dopo si legge nel DDL la “previsione per i collegi universitari legalmente riconosciuti – quali strutture a carattere residenziale, di rilevanza nazionale, di elevata qualificazione culturale, che assicurano agli studenti servizi educativi, di orientamento e di integrazione dell'offerta formativa degli atenei – di requisiti e di standard minimi a carattere istituzionale, logistico e funzionale necessari per il riconoscimento da parte del Ministero e successivo accreditamento riservato ai collegi legalmente riconosciuti da almeno cinque anni; rinvio ad apposito decreto ministeriale della disciplina delle procedure di iscrizione, delle modalità di verifica della permanenza delle condizioni richieste, nonché delle modalità di accesso ai finanziamenti statali riservati ai collegi accreditati”.
Non so quali siano i collegi storici. Ma certo non vorrei che questo riconoscimento dei collegi sia stato fatto per dare qualche obolo in più a collegi detenuti da Fondazioni di carattere privato che offrono integrazione di offerta formativa, già ricchi di per loro. Sarebbe l’ennesima pork barrellegislation di cui non sentivamo certo il bisogno.
Io direi che non e' il caso di scoraggiarsi dato che qualche esempio positivo lo si puo' sempre trovare
www.ilfattoquotidiano.it/2010/07/27/il-rettore-sogna-da-politico-e-si-fa-una-legge-ad-personam-per-prolungarsi-il-mandato/44371/