Aldo ha una intervista a Radio Radicale il 23 Luglio, che riprendiamo qui:
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Alberto ha un pezzo su La Stampa il 25 Luglio che riportiamo qui:
Il presidente Obama sta negoziando coi repubblicani al Congresso un accordo su spesa e debito pubblico. Le negoziazioni procedono febbrilmente perché, in mancanza di un accordo in tempi brevissimi, il governo federale potrebbe non essere in grado di pagare i dipendenti pubblici, i creditori, e gli interessi sul proprio debito in esistenza. In questo caso, da un punto di vista letterale, gli Stati Uniti non farebbero fronte ai propri debiti e sarebbero quindi «in default». Come la Grecia.
Per quanto noi europei troviamo rassicurante immaginare gli Stati Uniti mentre nuotano in acque turbolente quanto le nostre, la situazione reale è ben diversa. Il default degli Stati Uniti, qualora avvenisse, sarebbe dovuto all’impossibilità di sorpassare un tetto legale all’indebitamento che il Congresso ha posto e che il Congresso può alzare con un voto e un tratto di penna: sarebbe quindi una questione legale, puramente contabile e avrebbe un significato soprattutto simbolico. I mercati non si sognano nemmeno di limitare il credito agli Stati Uniti, né di richiedere tassi elevati o crescenti per sottoscriverlo. Infatti i tassi sui titoli del Tesoro Usa sono stabili da tempo a livelli storicamente bassi; i tassi sui titoli a 6 mesi e oltre sono addirittura scesi nell’ultimo mese.
La ragione dell’impasse legislativa sta nel fatto che il Congresso a maggioranza repubblicana è in una posizione di forza contrattuale notevole: rifiutandosi di votare l’innalzamento del tetto costringe l’amministrazione ad affrontare una crisi fiscale e un potenziale default che, per quanto simbolico, rappresenterebbe una figuraccia per Obama. In altre parole, i repubblicani stanno essenzialmente ricattando l’amministrazione Obama per ottenere che il governo si vincoli a quei tagli di spesa che essi considerano fondamentali per la crescita del Paese. In realtà un innalzamento del tetto sul debito pubblico tale da evitare il default fino al 2012 è già sul piatto della contrattazione, essendo stato offerto ieri dal presidente della Camera Boehner. Ma è un boccone avvelenato perché se Obama lo accettasse si aprirebbe una nuova stagione di negoziazioni proprio prima delle prossime elezioni presidenziali.
Gli Stati Uniti non sono la Grecia, quindi. E nemmeno la Spagna o l’Italia. I problemi di bilancio di questi Paesi sono infatti reali ed imminenti, nel senso che essi non trovano investitori disposti a finanziare il proprio debito, se non a spread elevati rispetto a Paesi i cui conti siano in ordine, come la Germania. Ciò non toglie però che gli Stati Uniti abbiano un problema fiscale serio ed importante, in parte dovuto alle spese militari e ai tagli fiscali dell’ultimo decennio così come alle spese per lo stimolo fiscale dopo la crisi del 2008. Inoltre, in prospettiva, la spesa per pensioni e sanità (dovuta quest’ultima sia al pre-esistente sistema sanitario per gli anziani che alla nuova riforma Obama) appaiono fuori controllo. Ma proprio il tetto legislativo al debito pubblico costringe gli Stati Uniti ad affrontare il loro problema fiscale oggi, ben prima che i nodi vengano al pettine. Qualunque cosa si pensi del ricatto a cui i repubblicani stanno sottoponendo l’amministrazione Obama, e qualunque cosa succeda nei prossimi giorni, gli Stati Uniti usciranno da questa crisi con un accordo che limiterà l’eccessiva spesa pubblica di qui a due anni almeno. Una soluzione politica ad un problema economico, che medierà tra le esigenze e le preferenze delle diverse classi di cittadini rappresentati da democratici e repubblicani, ben prima che i mercati operino pressione sul governo perché questo avvenga. Per quanto il meccanismo istituzionale del tetto al debito pubblico generi queste crisi un po’ fasulle, più contabili che altro, esso sembra in grado di raggiungere un obiettivo importante: costringere le parti a ridurre la spesa sedendosi ad un tavolo negoziale prima dell’emergenza. Ed e' questo che e' mancato all'Europa.
Sandro ha una intervista con Tonia Mastrobuoni, sempre su La Stampa, il 26 Luglio, che riportiamo qui:
Molto rumore per nulla. Sandro Brusco è convinto: l’accordo sul debito americano si troverà – al più tardi quando le vedove di guerra inonderanno le piazze perché rimaste senza pensioni. E in ogni caso, è improprio parlare di «default»: contrariamente alla Grecia, cui «nessuno vuol più prestare un centesimo», il mercato continua a credere negli Usa. Che secondo l’economista della Stony Brook University non hanno un problema finanziario, ma istituzionale, a causa di una «bizzarria» unica al mondo: un tetto al debito stabilito per legge e «spesso sfruttato a fini elettorali».
D. Altra fumata nera ieri tra democratici e repubblicani sul debito…
R. «Secondo me c’è troppo allarmismo. Perché nessuno guarda a un indicatore molto semplice, gli interessi sui titoli decennali americani? Sono bassissimi. I mercati non sono preoccupati per la tenuta del debito».
D. Perché confidano che si trovi un’intesa entro il 2 agosto, magari aumentando il tetto all’ultimo momento?
R. «Penso di sì. Anzitutto bisogna sapere che il tetto al debito americano è una bizzarria che non esiste da nessuna altra parte al mondo, spesso sfruttata a fini elettorali. Ci si oppone all’aumento del limite anche in maniera scontata per mostrarsi paladini del rigore – compreso un ex senatore, un certo Barack Obama che in passato votò contro».
D. Forse la differenza è che Standard& Poor’s, per la prima volta da decenni, ha modificato l’outlook sul debito statunitense…
R. «Certo, se vogliamo credere ancora a S&P’s…».
D. Ma, insomma, cosa succederà secondo lei?
R. «Per modificare il tetto del debito ci vogliono tre minuti. Mi sembra evidente che entrambe le parti politiche stiano sfruttando la “vetrina” del conflitto a fini elettorali. Non ci credo che rischieranno il congelamento di Wall Street o la liquefazione del sistema finanziario mondiale. Allora: ammettiamo pure che non si trovi l’accordo per il 2 agosto».
D. Ammettiamolo.
R. «Ebbene, il 3 agosto le vedove di guerra inonderebbero le piazze perché salterebbero le pensioni – e il 4 agosto l’intesa ci sarebbe. Dal punto di vista politico, è impensabile che non si raggiunga un accordo. E in ogni caso, in troppi hanno usato impropriamente la parola “default”».
D. Ma il Tesoro non potrebbe più emettere titoli per raccogliere fondi sul mercato. Che altro è se non un fallimento?
R. «Faccio un esempio a caso? Ai greci nessuno vuole prestare un centesimo, agli Stati Uniti sì. Guardate i tassi; quelli ellenici sono al 16 per cento, quelli americani, ripeto, al 3».
D. È un problema di leggi e non finanziario.
R. «Esatto. La legge dice che Obama può indebitarsi fino a un certo limite, al momento 14.200 miliardi di dollari. Dopo quella cifra è vero che il Tesoro non può andare sul mercato, ma solo perché deve avere il via libera del Congresso, non perché i mercati non si fidano più. E nel caso di emergenza, Obama può anche aumentarlo unilateralmente: la Costituzione americana dice che la validità del debito “non può essere messa in discussione”».
D. Perché i cinesi e gli altri grandi creditori tacciono?
R. «Fanno bene. Pensate se dicessero che vogliono gli interessi pagati e i bond rimborsati, gli americani si scatenerebbero, direbbero che “i cinesi ci vogliono mangiare il cuore”».
2-0
/thread sulla fine del mondo.
;-)