Dieci poeti in lotta con la vita - 3

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3. Dino Campana

Penso e ripenso, tentenno. Vorrei scrivere qualcosa su Dino Campana, il “poeta matto” di Marradi, il poeta per certi versi più poetico della nostra letteratura. Tentenno, perché il terreno che porta a Campana è scivoloso: c’è tutta una moderna mitologia da attraversare e - a dire il vero - da sfatare, prima di giungere ad un giudizio sereno sulla sua folgorante e unica opera poetica. Perché se va da sé (o dovrebbe andare da sé), che Campana non è James Dean, né Jim Morrison, va a mio avviso messo in chiaro, che non è neanche Rimbaud o Van Gogh.

La sua poesia si sottrae a paragoni o a riferimenti culturali, esattamente come ogni suo verso e ogni sua parola scritta, non si lasciano analizzare indipendentemente dalla vita, dall’organismo vorrei dire, che li ha generati. Ogni schema culturale risulta quindi astratto: tanto unica è la sua esistenza, tanto la sua produzione letteraria è un fatto a sé. Il suo linguaggio, soprattutto, pur essendo figlio del suo “tempo lessicale”, è incomparabile e unico.

Così, la critica (che ha prodotto studi copiosi e alcuni, per profondità ed acume, eccezionali) ha sempre avuto armi spuntate dinnanzi alla poesia di Campana, indecisa se analizzare il monumento o sue rovine, la parola detta e quella non pronunciata.

Intorno a Campana s’è scatenata, quindi, una bagarre incentrata sulla sua biografia piuttosto che sull’opera: era matto? Quanto? E quando divenne matto? Sifilide, elettrochoc… c’è anche un falso ritratto fotografico appartenente a tale Tramonti che per anni è stato spacciato per Campana! Insomma, una grande dispersione di energie e parole, quando è, invece, l’opera stessa che denuncia uno stato di malessere evidente, senza per questo inficiare il valore della sua poesia.

Del resto Campana stesso, nel 1914, si presentava a Prezzolini per lettera, in modo esplicito, disarmante: “io sono un povero diavolo, che scrive come sente, uno spostato, un tale che a tratti scrive cose buone. Nessuno mi vuole stampare ed io ho bisogno di essere stampato. Aggiungo che merito di essere stampato perché sento che quel po’ di poesia che so fare, è di una purità di accento che è oggi poco comune da noi.”

La deriva, ancor più che la fuga, è stata la sua condizione esistenziale e poetica, Campana aveva puntato tutto sulla poesia affinché la vita non gli sfuggisse, ma in nessun luogo egli trovò un suo stare. Come il suo corpo non trovò pace in terra, nel continuo vagabondare - nelle città italiane, in Europa e in America Latina, di manicomio in manicomio - anche la sua opera non trova un riferimento culturale coerente. I suoi versi nascono da brandelli di mondo che assumono tanto evidentemente ai suoi occhi e sulla pagina, forme paradossali, scandite da silenzi urlati e ritmi assurdi, folli e formidabili per espressività. Come, per esempio, in questa poesia, “Barche amorrate”, un grumo di immagini espulse dal contesto e riaffiorate nei sensi, prive del loro oggetto a cui è rimasto il meglio: la forza evocativa di ciò che è perduto.

 

... Le vele le vele le vele
Che schioccano e frustano al vento
Che gonfia di vane sequele
Le vele le vele le vele!
Che tesson e tesson: lamento
Volubil che l'onda che ammorza
Ne l'onda volubile smorza...
Ne l'ultimo schianto crudele...
Le vele le vele le vele

 

Mi viene in soccorso Carlo Bo che su Campana scrisse uno studio  - a mio giudizio - di grande valore e onestà. “La poesia avrebbe dovuto essere la chimera e sostituire il disordine delle cose, supplire all’ordine che gli mancava e il mondo reale non gli dava. Ma Campana - scrisse Bo -  non conosceva la strada della composizione, ignorava il rapporto fra cose e sentimenti e, del resto, la frammentazione o il disordine assoluto delle sue poesie più belle non sono che il riflesso di questa prima naturale incapacità di sovrapposizione”.

Campana è, dunque, il poeta dell’irrisolto, non del frammento, come scelta culturale e filosofica (Sbarbaro, Boine, Rebora), ma come condizione letteraria figlia di una condizione esistenziale. Il frammento, la metrica sincopata, strozzata ed espansa, nella sua produzione sono, in una parola, segno del fallimento poetico, sia formale che esistenziale. Campana, insomma, non voleva uscire dal Mondo alla maniera di Baudelaire o Rimbaud, ovvero con la piena consapevolezza che quel mondo non era sufficiente, ma avrebbe voluto aderire all’universo delle cose, dei sentimenti e degli uomini, ed anzi: probabilmente il suo cuore mitizzò la realtà, tanto da esserne ferito e deluso. Così come fu con l’amore e con la sua amata Sibilla Aleramo. E non posso esimermi dal riportare questo componimento a lei dedicato, segnalando una autentica “botta di genio”, e di “soluzione insoluta”, nell’invenzione dello struggente post scriptum:

 

In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose

P.S. E così dimenticammo le rose.

 

I “Canti orfici” sono tremendamente commoventi e grandiosi, lo sono perché come pochi altri casi di poesia contemporanea, sono atrocemente autentici, rispondono, ed aderiscono, privi di mediazione, ad una necessità espressiva incombente e debordante. Straziante. Perché, per dirla con lo stesso Campana, nelle giornate migliori della sua vita: “tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili...”

Francamente oggi non so quale sia l’ effettiva eredità dell’opera di Dino Campana: c’è ancora troppa nebbia sparsa post mortem, troppe parole “sparate a salve” e, soprattutto, in direzione sbagliata .

Ora, se penso a Campana, alla sua rivoluzione, probabilmente del tutto inconsapevole (perché una certa rivoluzione Campana, se non l’ha compiuta, la ha lasciata in eredità), non posso dimenticare le letture delle sue poesie fatta da Carmelo Bene (vi invito a cercarne traccia su Youtube), alle quali ho assistito riportandone - a dire il vero - degli choc ancora non del tutto emotivamente superati. Ecco, se dovessi cercare un’eredità “campaniana”, non mi spingerei tanto sul versante della letteratura, quanto in quello dell’arte in genere. Penso a quanto l’attor-genio Bene, in fatto di “teatro della parola”, gliene sia debitore. Chissà. Quanto Glenn Gould a Bach, o meno? E poi l’arte figurativa, il cinema, e anche - purtroppo - quella miriade di finti matti che cercano la patente di matto per legittimarsi come poeti, ahimè, debbono molto a Dino Campana che, invece, tanto come folle che come poeta, fu sempre molto vero e a tratti grande.

Mi congedo, con quello che personalmente considero uno dei capolavori di Campana, “L’invetriata”, una poesia che definirei da equilibrista. La fune ancora una volta è tesa sul baratro della follia: un ritmo spasmodico e funambolico, appunto, fatto di richiami e allitterazioni che tolgono il respiro. Che tolgono la cosa alla cosa, intendo dire: sottraggono l’oggetto alla sua oggettività e la consegnano al mondo delle cose fuggite, sfiorate appena, di cui c’è rimasto non tanto il ricordo, ma il dolore muto della perdita.

 

La sera fumosa d’estate
Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? – c’è
Nella stanza un odor di putredine: c’è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la sera e
tremola ma c’è
Nel cuore della sera c’è
Sempre una piaga rossa languente.

 


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