E se Umberto Saba non fosse il poeta “semplice semplice” dell’universalità umana, devoto alla rima cuore-amore? Se non fosse affatto l’interprete lirico degli ultimi e delle cose umili? E se tutta la storia su Saba autore psicanalizzabile e psicanalizzato (anche se, certo, la psicanalisi lo attrasse), fosse una grossa balla e una comoda semplificazione di certa critica letteraria che, tra materialismo e psicanalisi, ha creduto di ordinare il mondo?
Perché, anche se formalmente - forse (dico forse) - è stato il poeta meno rivoluzionario della sua epoca, a leggerlo per davvero Saba non è il poeta prosastico e realistico che ci è stato raccontato. È qualcosa di diverso e di più complesso. La sua poesia, di fatto, reinventa la realtà, rinomina le cose in una sorta di appendice privata della Creazione, in cui egli stesso è protagonista concludendo, in un certo senso, il lavoro del Creatore. Saba è un poeta che, attraversando la realtà, come percorso doloroso e ineluttabile, trova un mito privato e un epica personale per raccontarlo.
Per Saba, uomo dolcissimo e oltremodo sensibile in perenne equilibrio psichico, essere l’io che è rappresenta qualcosa che gli sfugge o lo getta in dimensioni imperscrutabili e drammatiche. Così la sua poesia la quale, come ogni atto creativo, è necessariamente affermazione dell’io in forza a dei procedimenti di completa adesione al Creato; trasforma e trasfigura la realtà in un mito in cui è di nuovo l’io - seppur livido di dolore, di tutto il dolore, e lieto di tutta la gioia del mondo - ad ordinare il suo universo.
Così la vita si traduce in poesia, o meglio: si fa vivibile e, dunque, si rende autentica attraverso la poesia. In questo Saba si incontra e si differenzia con l’esperienza delle Avanguardie che, soprattutto per un eccesso di attivismo totalizzante, egli rifiutò fin dagli esordi.
Saba si porta, infatti, fuori dalla grande strada che conduce alla metafisica (quella bazzicata dai suoi contemporanei, più o meno vicini a “La Voce”) per incamminarsi con “serena disperazione” (come recita il titolo di un suo libro del 1920) in un pellegrinaggio di poesia da intraprendere come una fede. Una religione delle cose, che definirei per certi versi pagana, nella quale dolore e bellezza si compendiano come la spina che annuncia il petalo. Perdita e redenzione di sé e del mondo, in Saba, producono una poesia, di fatto, inattuale e sospesa, che si ciba di allegoria per essere reale e anche stranamente moderna.
È, se si vuole, la vecchia massima di Goethe secondo la quale “il mezzo migliore per sfuggire il mondo è l’arte; il mezzo più sicuro per entrare in contatto con il mondo è l’arte”.
Ma non c’è dubbio: in nessun altro poeta il quotidiano, il domestico, l’ordinario direi, una volta abitati i suoi versi, acquistano una dignità e un respiro pari ai grandi eventi della vita, tutto è ugualmente importante e significativo. Perché l’uomo, seppure è più effimero delle cose e del mondo, può salvare e redimere tanto le cose che il mondo.
Vediamo “Verso casa”, una sua poesia tanto nota quanto bella, pubblicata in “Trieste e una donna” nel 1913, nella quale, mi sembra che anche il suo personalissimo rapporto tra dimensione oggettiva del mondo e l’esperienza interiore, come convalida e certificazione di quella stessa realtà, sia esplicita.
Anima, se ti pare che abbastanza
vagabondammo per giungere a sera,
vogliamo entrare nella nostra stanza,
chiuderla, e farci un po’ di primavera?
Trieste, nova città,
che tiene d’una maschia adolescenza,
che di tra il mare e i duri colli senza
forma e misura crebbe;
dove l’arte o non ebbe
ozi, o, se c’è, c’è in cuore
degli abitanti, in questo suo colore
di giovinezza, in questo vario moto;
tutta esplorammo, fino al più remoto
suo cantuccio, la più strana città.
Ora che con la sera anche si fa
vivo il bisogno di tornare in noi,
vogliamo entrare ove con tanto amore
sempre ti ascolto, ove tu al bene puoi
volgere un lungo errore?Della più assidua pena,
della miseria più dura e nascosta
anima, noi faremo oggi un poema.
La sua verità per essere narrata deve pagare il prezzo di disperdersi nei molteplici rivoli della realtà. Ma alla fine, a quella medesima realtà, si aggiunge inedito ed autentico un io poetico che ha scontato la complessità e la moltitudine. Ed è semplice e puro, singolo e universale.
Scoprire che le piccole cose possono essere elevate ai vertici della spiritualità è la lezione più grande che Saba poeta, uomo e intellettuale, ci lascia. “Anche una pietra è Dio, solo che essa non sa di esserlo” scriveva Meister Eckhart, e non mi pare troppo audace iscrivere Saba in una famiglia culturale ampia, quella della “teologia dell’intelletto”, in cui l’approdo è una contemplazione intellettuale che presuppone una frattura tra due “facce dell’anima” una delle quali, diretta inevitabilmente verso le realtà mutevoli e corruttibili, deve essere abbandonata.
“Preludi e fughe” (1929), è tra le sue raccolte (poi tutte inserite nel corpo unico de “Il Canzoniere”) forse quella più ambiziosa e forte di un orizzonte che non temo a definire ontologico (quindi affatto psicologico). Ne riporto un brano tratto dalla “Prima fuga”, nella quale i versi “il mio cuore: uno specchio a tutti i cuori / viventi" ha la forza di una sentenza al pari del verso “Pianse e capì per tutti / era il tuo motto”, presente in “Mediterranee” (1946) pensato proprio per definire la sua opera intera.
La vita, la mia vita, ha la tristezza
del nero magazzino di carbone,
che vedo ancora in questa strada. Io vedo,
per oltre alle sue porte aperte, il cielo
azzurro e il mare con le antenne. Nero
come là dentro è il mio cuore; il cuore
dell’uomo è un antro di castigo. È bello
il cielo a mezzo la mattina, è bello
il mar che lo riflette, e bello è anch’esso
il mio cuore: uno specchio a tutti i cuori
viventi. Se nel mio guardo, se fuori
di lui, non vedo che disperazione,
tenebra, desiderio di morire,
cui lo spavento dell’ignoto a fronte
si pone, tutta la dolcezza a togliere
che quello in sé recherebbe. Le foglie
morte non fanno a me paura, e agli uomini
io penso come a foglie. Oggi i tuoi occhi,
del nero magazzino di carbone,
vedono il cielo e il mare, al contrasto,
più luminosi: pensa che saranno
chiusi da domani. Ed altri s’apriranno,
simili ai miei, simili ai tuoi. La vita,
la tua vita a te cara, è un lungo errore,
(breve, dorato, appena un’illusione!)
e tu lo sconti duramente. Come
in me in questi altri lo sconto: persone,
mansi animali affaticati; intorno
vadano in ozio o per faccende, io sono
in essi, ed essi sono in me e nel giorno
che ci rivela. (…)
Il Saba intellettuale periferico e poeta marginale delle nostre antologie va inteso, dunque nel senso non tanto terreno, quanto esistenziale. Egli cerca la periferia della vita per trovare un centro dell’esistenza più congeniale. Cammina, Saba, su stradine piene di polvere, si sporca le scarpe e quelle scarpe polverose, che hanno in loro il crisma e la prova della realtà e del cammino, sono la sua poesia. Non è di metafisica, quindi, che si nutrono i suoi versi, ma di una religiosità ancestrale, rurale direi e, ripeto, per certi versi pagana.
Non si può dimenticare l’elemento erotico di cui è pervasa buona parte dell’opera di Saba. In questo fattore - che meriterebbe un capitolo a parte e che è stato oggetto di ossessive letture freudiane - il poeta trova una sintesi espressiva e un viatico perfetto per aderire in forma totalizzante a quella sorta di polimorfismo di tutte le manifestazioni dell’esistenza, tanto umana come della natura e del mondo animale, che precedentemente ho provato ad indicare. Due esempi: la prima poesia che vi propongo - a me piace molto quell’essere come una foglia e divenire senza soluzione di continuità l’uomo incapace di dire addio - è intitolata “La foglia” (1930)
Io sono come quella foglia, guarda,
sul nudo ramo, che un prodigio ancora
tiene attaccata.
Negami dunque. Non ne sia rattristata
la bella età che a un'ansia ti colora,
e per me a slanci infantili s'attarda.
Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce.
Morire è nulla; perderti è difficile.
Il secondo esempio è il componimento “A mia moglie” (del 1911), una delle poesie più note di Saba. Per questa poesia si è scomodato “Il Cantico dei Cantici”, o s’è per fino detto che è un esempio di poesia proletaria (sic!), mentre a me pare piuttosto che attinga alla tradizione gnomico-esopiana in cui gli animali (la pollastra, la giovenca, la cagna ecc.) hanno e rappresentano le proprie qualità esemplarmente umanizzate. Ma ancor di più l’accostamento azzardato tra l’amata e il mondo animale (provate voi a dare della cagna alla vostra compagna!), rimanda, fuori dal rapporto simbolico, ad una comunione naturale (di cui l’amore è il collante e il viatico) con il Creato, al quale Saba, come ho provato a sostenere, ha contribuito ad originare rinominandolo daccapo, secondo il suo lessico e il suo respiro.
Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell'andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull'erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio.
Così, se l'occhio, se il giudizio mio
non m'inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun'altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.
Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la tua carne.
se l'incontri e muggire
l'odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l'erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t'offro quando sei triste.
Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d'un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.
Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l'angusta
gabbia ritta al vederti
s'alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?
Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest'arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere:
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un'altra primavera.
Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l'accompagna.
E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun'altra donna.
Saba e Trieste; Trieste e Saba. Possono mai esistere l'una/o senza l'altro/a?
In my humble opinion, Saba, così come Svevo, non sarebbero stati tali senza Trieste. Feci dell'argomento parte della mia "tesina" per l'esame di maturità (leitmotiv: il rapporto tra scrittore/poeta e la propria città). Trieste è pressoché sempre presente nelle pagine di questi due autori, palesemente nell'opera del primo, nascosta nel caso del secondo.