Se sapessi definire realmente e spiegare - non nei termini della retorica classica, ovviamente - i significati di simbolo e di allegoria, avrei le chiavi della comprensione universale. Perché il simbolo e l’allegoria custodiscono e svelano il senso delle cose, le rappresentano, al di là dell’apparenza, includendo il mondo sensibile. Stabiliscono, in una parola, il rapporto tra oggetto e soggetto. Tra mondo e rappresentazione. O ancora, tra il mondo e la sua comprensione. Starei per dire che tutto, per quanto ci concerne, nella nostra condizione di esseri umani, è simbolo e quel che avanza - in termini di elaborazione intellettuale - è allegoria.
Il simbolo, mi si dirà, è un costrutto culturale, una rappresentazione convenzionale; non è la cosa ma è una sua rappresentazione o evocazione, insomma, non è il reale. Bene, ne convengo. Ma cos’è il reale, come lo si comprende, e, soprattutto come lo si spiega?
Il linguaggio stesso, di fatto, è un simbolo della realtà. E’ il gioco di specchi in cui è obbligata la nostra esistenza - in cui spesso cause ed effetti (oggetto e immagine riflessa) si scambiano il ruolo - che ci costringe a rimandare sempre a qualcos’altro, a tentare d'esprimere la presenza di qualcosa di assente o che è impossibile percepire, qualcosa la cui esistenza o conoscibilità dipendono, in qualche modo, dal simbolo stesso, che è, insomma e in fin dei conti, la nostra unica porzione di verità.
Per Lucio Piccolo di Calanovella, poeta siciliano appartato e coltissimo, purtroppo noto soprattutto per essere il cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, affidarsi al simbolo è una condizione ineludibile. Tanto che i suoi “Canti barocchi”, autentico caso letterario sollevato da Eugenio Montale nel 1956, sono il più tardo (ma non per questo non moderno) e riuscito esempio di poesia simbolista italiana. I poeti che fin ora abbiamo letto hanno tutti l’ambizione (e, naturalmente, essendo dei grandi poeti la necessità interiore) di raccontare la vita (o, come ho scritto, di trovare un senso alla propria esistenza e alla vita stessa in generale) attraverso la poesia. Per Betocchi, parafrasando il titolo di una sua raccolta, la realtà vince il sogno (ovvero l’adesione totalizzante al Creato lo fa identificare e cantare la realtà), Saba e Penna (con le dovute differenze) attraverso la poesia riescono a reinventare una realtà possibile e più autentica, per Cardarelli, poi, la realtà più vera è nella riscoperta di una certa, quasi arcaica, classicità; e per tutti loro il registro espressivo e la metrica che lo scandisce è il più possibile aderente al linguaggio. Pochi artifici, la parola è quasi il calco del mondo.
Per Lucio Piccolo, invece, lo scarto è enorme: la realtà che lo circonda - pur sempre, quasi fisiologicamente presente - è quasi la rampa di lancio per una tensione visionaria pronta a volar via verso astrazioni vertiginose.
Potrei dire che in Piccolo, la poesia trionfa sul senso delle parole, esattamente come il linguaggio sulle cose. Confinato nella sua tenuta nobiliare di Capo d’Orlando, in una sorta di enclave privo di tempo, assieme al fratello Casimiro, grande appassionato di spiritismo, e alla sorella esperta di botanica; Lucio Piccolo appena diciottenne, ebbe già un’assidua corrispondenza con uno dei maggiori poeti stranieri dell’epoca, l’irlandese William Butler Yeats, basata sulla scorta dei comuni interessi esoterici e filosofici.
Forse risalgono a questo periodo le prime composizioni in versi, rafforzate dal corposo rapporto con questo primo modello di riferimento. Un esempio potrebbe essere la poesia “La torre”. Ispirata senz’altro a “My house” di Yeats tratta, guarda caso, dalla raccolta “The tower”.
Propizia l’aria fra quelle mura
alte agli incanti: dalle finestre
adito, il giorno, a colli, pianura,
spazi prativi, erte ginestre;
torre la chiamava, e la scala
e l’ombra che si piega sul gradino
innanzi a chi sale…
E dall’interno al suo sguardo la rosa
bianca che poggia su la ringhiera…
La stanza appesa all’arbitrio
dei colori, alle udienze dell’aure…
ove al segno del libro risponde l’astro.
Piccolo esordirà, comunque, cinquantenne, solo dopo la morte della madre (mi viene in mente Albert Caraco, che pazientemente attese la morte della genitrice per suicidarsi) e, come scrivevo, inviando a Eugenio Montale - forse spinto dal cugino - una plaquette, a cui darà il titolo “9 Liriche”, appena stampata da un tipografo di paese in sole sessanta copie dai “caratteri frusti e poco leggibili la cui veste tipografica - dirà Montale - non era migliore di quella dei “Canti orfici” di Dino Campana”. E’ quindi un poeta e un uomo maturo che produce poesia preziosa e isolata. Poesia magica ed estremamente musicale, perché, va anche ricordato, lo studio della musica è elemento essenziale della sua lirica, e non v'è dubbio che nella complessità della versificazione di Lucio Piccolo abbia contato la conoscenza del comporre sullo spartito.
I “Canti barocchi” del resto, sono strutturati come una vera e propria armonia in quattro quarti, dove ognuna delle poesie simboleggia un elemento naturale, nel contempo una stagione dell’anno e, ineluttabilmente, una fase dell’esistenza. Non è, del resto, questa, una caratteristica del codice simbolico, ossia quella di generare, quasi a rosario, un proliferare ininterrotto di senso di simbolo, in simbolo?
La prima, “Oratorio di Valverde”, è una ouverture primaverile di terre in fiore, una specie di vagito d’una infanzia candida e innocente (sono costretto, di qui in poi, ad un’arbitraria selezione dei versi data la lunghezza dei poemetti):
Ferma il volo Aurora opulenta
di frutto, di fiore,
balzata da rive vicine
diffondi ancora tremore
di conchiglie, di luci marine,
e valli dove passasti alla danza
pastorale fra le ginestre
t’empirono le canestre
di folta, di verde abbondanza
- a larghe onde di campane tessuta
venivi, dai fili di memorie, dai risvegli infantili.
(…)
“La meridiana”, il secondo dei Canti Barocchi, schiude una fantasmagoria di manifestazioni dell'acqua nella sua essenzialità. Ed è anche un inno al sole e alle rifrangenze, ma soprattutto alla liquidità che, nella luce, celebra il proprio trionfo. L’acqua distrugge e rigenera, proprio com'è la maturità della vita. Mi sembrano eccentrici e bellissimi i due versi (l’aggettivo inesplicabile dell’acqua, poi, è una sorta di voragine nella ragione che inghiotte l’Universo tutt’assieme, con lo stesso concetto di tempo) “Ma se il fugace è sgomento / l’eterno è terrore”.
Guarda l’acqua inesplicabile:
contrafforte, torre, soglio
di granito, piuma, ramo, ala, pupilla,
tutto spezza, scioglie, immilla;
nell’ansiosa flessione
quello ch’era pietra, massa di bastione,
è gorgo fatuo che passa…
Guarda l’acqua inesplicabile:
al suo tocco l’Universo è labile.
(…)
…ed alle siepi del mondo
passa il brivido di fulgore/
fende l’immane distesa celeste,
vibra, smuore, tace,
vento senza presa e silenzio.
(…)
Ma se il fugace è sgomento
l’eterno è terrore.
L’infuocato vento sud-orientale, ovvero “Lo scirocco”, è il terzo movimento dei Canti. Emblema dell’invecchiamento è rappresentato da Piccolo, come un esercito moresco in marcia che spazza via tutto ciò che incontra:
E sovra i monti, lontano sugli orizzonti
è lunga striscia color zafferano:
irrompe la torma moresca dei venti,
d’assalto prende le porte grandi
gli osservatori sui tetti di smalto,
batte alle facciate da mezzogiorno,
agita cortine scarlatte, pennoni sanguigni, aquiloni,
schiarite apre azzurre, cupole, forme sognate,
i pergolati scuote, le tegole vive
ove acqua di sorgive posa in orci iridati,
polloni brucia, di virgulti fa sterpi,
in tromba cangia androni,
piomba su le crescenze incerte
dei giardini, ghermisce le foglie deserte
e i gelsomini puerili - poi vien più mite
batte tamburini; fiocchi, nastri…
Ma quando ad occidente chiude l’ale
d’incendio il selvaggio pontificale
e l’ultima gora rossa si sfalda
d’ogni lato sale la notte calda in agguato.
Visiva e visionaria come una grande tela, in questi versi la poesia di Piccolo si compie grazie ad un’esaltazione della vista che sembra esplodere sotto la minaccia che la estingue: la morte del Canto successivo. E’ qui che, mi pare, la simbolizzazione del paesaggio come specchio di una vertiginosa e metafisica simbolizzazione di se stesso, ha probabili precedenti in alcuni versi di Campana. Il poeta dei “Canti orfici”, fu, infatti, tirato in ballo proprio da Montale quale antesignano di Piccolo, ma la distanza favore di Piccolo, a mio avviso, è comprensibilmente tutta culturale.
“La notte”, è la fase conclusiva (anche dei Canti, ovviamente), l’annullamento di tutto (dell’Universo e del sé) nell’oblio o nel sereno abbraccio della memoria, che per Piccolo (al pari dei Leopardi) è sorgente di poesia:
La notte si fa dolce talvolta,
se dalla cerchia oscura
dei monti non leva alito di frescura…
(…)
soffia in vene vive volti già cenere, parole àfone…
muove la girandola d’ombre…
(…)
Riverberi d’echi, frantumi, memorie insaziate,
riflusso di vita svanita che trabocca
dall’urna del Tempo, la nemica clessidra che spezza,
è bocca d’aria che cerca bacio, ira,
è mano di vento che vuole carezza.
Non sembri contraddittorio, ma com’è evidente, Piccolo è anche un poeta estremamente terrestre e terragno. Del resto, l’immaginazione non è una strana regione situata fuori dal mondo, è il mondo stesso, o meglio: è il mondo tutto, inteso come insieme.
Così, mentre nell’Italia delle lettere lo scontro era tra ultime resistenze di neo-realismo e nascente neo-avanguardia, nel 1960, Lucio Piccolo dà alle stampe il suo secondo volume di poesie, ancora una volta fin dal titolo, assai esplicativo: “Gioco a nascondere”. E’ un poemetto (alternato a frammenti di poesia in prosa - che a me ricordano certo Borges misterioso e metafisico), molto ben costruito, con un grado, se così si può dire, di simbolicità ancora superiore ai “Canti”, perchè la trattazione, il punto di partenza (la rampa di lancio, come dicevo prima) è più domestica e intima. Ambiguamente (attenzione) “Gioco a nascondere” è costruito in una forma circolare, all’interno della quale, chi sia il soggetto (o l’oggetto) del nascondimento, non è mai chiaro. O, probabilmente, aiutato dall’ artificio dell'enjambement ingannevole dei versi che toglie il fiato, l’idea generale è quella dello specchio gettato in terra in mille schegge rifrangenti mille o più realtà del medesimo insieme. Ecco gli ultimi versi:
Se noi siamo figure
di specchio che un soffio conduce
senza spessore né suono
pure il mondo dintorno
non è fermo ma scorrente parete
dipinta, ingannevole gioco,
equivoco d'ombre e barbagli,
di forme che chiamano e
negano un senso – simile all'interno
schermo, al turbinio che ci prende
se gli occhi chiudiamo, perenne
vorticare in frantumi
veloci, riflessi, barlumi
di vita o di sogno
- e noi trascorriamo inerti spoglie
d'attimo in attimo, di flutto in flutto
senza che ci fermi il giorno
che sale o la luce che squadra le cose.
Ma, degna di Borges dell’Aleph (ripeto), è questa poesia in prosa (mi raccomando: non la prosa poetica che è la degenerazione tanto dell’una che dell’altra) sempre da “Gioco a nascondersi”, con la quale mi congedo. Una stanza, un universo chiuso e limitato dal quale tutto fugge e torna. Uomini, spiriti, spazi oltre la loro dimensione terrena s’inerpicano su di un oltre, fuori dal tempo e più vero del vero.
In sottofondo ascolto i versi del “Faust” di Pessoa (altro poeta isolato e singolo):
“Ah, tutto è simbolo e analogia! / Il vento che passa, la notte che rinfresca / sono tutt’altro che la notte e il vento: / ombre di vita e di pensiero. // Tutto ciò che vediamo è qualcos’altro. / L’ampia marea, la marea ansiosa, / è l’eco di un’altra marea che sta / laddove è reale il mondo che esiste. // Tutto ciò che abbiamo è dimenticanza. (…)
Ma ecco Lucio Piccolo:
"Ora è la volta delle stanze, dei luoghi che non esistono, quelli che vengono su ad istanti, di sbiego, e sono sempre dove si è cessato di guardare o non si guarda ancora, proiezioni e riflessi in un prolungamento dello spazio vengono fuggevoli a galla nei sogni del sonno o in quelli che scorrono incessanti in noi e solo a momenti sentiamo: la scala non cessa lassù al pianerottolo sotto il lucernale, s’apre sul muro la porta d’un altro appartamento - oh la scarsa luce dalle imposte accostate, il respiro d’inchiostro disseccato, la polvere dei libri e del tarlo, i copia-lettera oppressivi - è il parente di generazioni più addietro mai esistito se non forse in una fotografia (ch’era d’un altro!) avvizzita. Così una sera, spenti ancora i lumi, il coperchio d’una stufa coi suoi trafori chiamò l’ingresso d’una fuga di stanze su la parete".
C'e' sempre da scoprire, thanks.