Il caso è stato sollevato da alcune lavoratrici dell'AT&T, una grossa compagnia telefonica, che ritengono di essere state discriminate nel calcolo dei contributi previdenziali durante l'aspettativa di maternità. Si tratta di benefici previdenziali stabiliti a livello contrattuale fra azienda e lavoratori, non della pensione fornita dal governo. Le regole di calcolo dell'impresa precedenti al 1979 penalizzavano (calcolando benefici inferiori) chi chiedeva un'aspettativa di maternità rispetto a chi chiedeva un'aspettativa per altra causa medica. Successivamente, una legge del 1978 obbligò le imprese a calcolare i contributi per i periodi di aspettativa per maternità allo stesso modo in cui vengono calcolati per tutte le altre aspettative di natura medica. La corte ha deciso con una maggioranza di 7 a 2 che i criteri adottati dall'AT&T precedentemente al 1979 non sono discriminatori e pertanto non violano la costituzione.
Tralasciamo il caso legale per un momento. Dal punto di vista di un economista, garantire benefici alle madri in aspettativa di maternità costituisce un trasferimento da famiglie senza figli a famiglie con figli. Allo stesso modo, garantire benefici a chi si ammala trasferisce risorse da chi è in salute a chi si ammala frequentemente. Non credo però che i casi si equivalgano. Non discuterò qui se la sanità debba essere fornita da un ente pubblico o debba essere fornita dal mercato, questione piuttosto complessa, tangenziale al caso in questione. La differenza fra i due casi è che fare figli è (molto spesso) una scelta, o comunque lo sono vari comportamenti che certamente influiscono sulla probabilità di procreare. Questo vale in misura minore nel caso di chi si ammala, e in ogni caso ammalarsi comporta costi per gli ammalati, mentre fare figli ha costi e benefici che di solito sono valutati da ciascuna famiglia e rientrano nell'ambito della decisione di procreare. Per questo motivo, a me sfugge la necessità di imporre legalmente trasferimenti di risorse verso chi fa figli. Ma sorvoliamo.
Assumiamo che gli USA abbiano collettivamente deciso che far figli vada sussidiato con il curioso metodo di imporre alle imprese parità di trattamento contrattuale nel calcolo dei contributi previdenziali fra genitori in aspettativa e ammalati in aspettativa, e analizziamo la logica dei giudici costituzionali.
L'opinione di maggioranza argomenta che le regole trattano allo stesso modo le madri ed i padri in aspettativa di paternità e pertanto, prese alla lettera, non discriminano in base al sesso. L'unico modo di argomentare incostituzionalità, sostiene la Corte, sarebbe quello di sostenere che la legge del 1979 abbia validità retroattiva, ma non esistono basi sufficienti nella costituzione per argomentare questa tesi (non mi soffermo su questo e tralascio anche altri aspetti della motivazione che usano argomenti che ritengo di secondaria importanza, consapevole che dal punto di vista legale potrebbero non esserlo).
L'argomento sembra essere semplice e pulito, ma va analizzato un po' più a fondo. A complicare la logica della motivazione è un caso molto simile deciso nel 1979, Teamster v. U.S., nel quale la Corte decise in senso opposto. Anche in quel caso, si trattava di analizzare la validità costituzionale di alcune regole di calcolo dei benefici previdenziali. Il caso riguardava alcuni lavoratori assunti da un'azienda di trasporti come manovali, che, dopo essere stati promossi ad autisti, vedevano sostanzialmente la loro carriera ripartire da zero ai fini del computo della pensione. A causa di pratiche discriminatorie adottate nell'iniziale decisione di assunzione, la regola di computo dei contributi finiva di fatto per avvantaggiare sproporzionatamente i lavoratori bianchi rispetto ai membri delle minoranze, e questo serviva a "congelare lo status quo determinato da una precedente pratica discriminatoria". Per questo la corte decise che tali regole erano incostituzionali.
La Corte deve dunque crucialmente argomentare che nel caso delle lavoratrici madri la scelta di far figli e di prendere l'aspettativa di maternita' non dipende da pratiche discriminatorie nei confronti della madre. L'opinione di minoranza dei due giudici dissenzienti si sofferma in parte su questo aspetto sostenendo che la decisione di quale genitore finisca per richiedere l'aspettativa sia basata su norme sociali equivalenti alle pratiche discriminatorie della compagnia di trasporti oggetto della decisione del 1979. Questo si riflette sulle pensioni percepite oggigiorno, perpetuando dunque l'efficacia di tali pratiche discriminatorie.
Su questo sottile dettaglio si basa l'argomento, che un editoriale del New York Times di oggi semplifica giornalisticamente in modo considerevole, perdendo la complessità del caso. Io, nel mio piccolo, tendo a condividere l'opinione della maggioranza.
Se non si facessero figli chiuderebbero tutte le aziende che producono pannolini, camerette, ciucciotti, chiuderebbero i venditori di sciarpe nerazzurre per i poveri pargoli inconsapevoli del danno psicologico, poi gli asili-nido, le scuole etc., etc.,. La "scelta" di fare figli è quindi imposta dal mercato , non dalla volontà degli esseri umani.
Quindi la necessità di imporre legalmente dei trasferimenti di risorse verso chi fa figli nasce dalla stessa necessità di tenere in piedi la FIAT, GM, o chi per loro: "too big to fail".
Ammalarsi invece comporta costi incerti, può essere un raffreddore, un'influenza, o peggio, a seconda del caso i costi variano. Mentre per un figlio ti puoi ammalare (in Italia) solo per sei mesi. Costi certi, quindi.
Buona questa :) ...Per costi certi in realta' intendevo costi "per tutti quelli che si ammalano" ... dopo cambio