Da circa due anni siamo sottoposti ad un bombardamento di articoli, articolini e articoloni, libri, libretti e libercoli, programmi televisivi, radiofonici e financo pubblicitari, accomunati dall’incomprensione dei loro autori per ciò che la ricerca accademica nel campo dell’economia cerca di fare e fa, unita all’assoluta certezza che la crisi in corso sia dovuta al “libero mercato” e che, essendo quelli i sacerdoti di questo, essa sia dunque “colpa” degli “economisti” – preferibilmente “neoliberisti” o varianti del medesimo insulto. Gli economisti, infatti, non solo non capiscono nulla e non sanno prevedere un beato piffero ma, soprattutto, si trastullano con la ridicola fantasia secondo cui gli esseri umani sono “razionali” mentre è ben risaputo, e questa crisi conferma, che quando si dedicano a faccende economiche gli esseri umani son vittime d’ogni tipo d’illusione, credenza e follia concepibili. Solo quando si dedicano agli affari, però, perché nel costruir ponti, fabbricar medicine, invecchiare vini ed infinite altre cose, gli esseri umani ridiventano razionali. Altrimenti, chi si fiderebbe di salire in macchina, accendere il tostapane o prendere l’aspirina? I teorici dell'irrazionalità umana che governa il mondo questa "domandina" sembrano non porsela.
Che amenità di tal fatta escano dalle dita di giornalisti economici che, mediamente, avrebbero desiderato fare vita accademica se non fosse stato per quei maledetti ''prelims'' ch'era necessario passare e quelle formule che occorreva maneggiare, è comprensibile. Che, con uguale ignavia, simili teorie vengano propagate da politici ansiosi di deflettere responsabilità proprie puntando il ditino accusatore verso terzi, è pure comprensibile oltre che altamente razionale - anche in politica, apparentemente, gli umani sanno essere razionali. Che, infine, editorialisti d’ogni scuola – inclusi economisti in vacanza o pensione - si dedichino a svillaneggiare “economics”, nemmeno sorprende. Occorre pur trovare qualche maniera per far parlare di sé, no? Finisse qui, la cosa non meriterebbe considerazione. Ma non finisce qui. La credenza che questa crisi - e tutte le altre, per induzione - sia conseguenza del libero commercio guidato da irrazionali ma troppo umane passioni, è diventata la giustificazione per operazioni di politica economica dubbiose, spericolate e quasi certamente dannose. Il che rende opportuna, e speriamo utile, una critica dei critici e dei loro argomenti. Così facendo ci divertiremo, en passant, a sbertucciare anche svariate dozzine di "economisti alternativi" che, non avendo né il tempo né le altre risorse apparentemente necessarie per produrre ricerca pubblicabile da qualche parte, passano nondimeno il loro tempo fra una conferenza di economia critica e l'altra (mettete qui quella che s-preferite ...). Cominciamo dai critici più di successo, i teorici dei "sentimenti"; a quelli della caduta tendenziale ci pensiamo nei prossimi giorni.
Esiste un’ampia, seppur confusa, corrente di pensiero economico che associa l’esistenza delle emozioni, e il ruolo che esse giocano nelle umane decisioni, all’inefficienza dei mercati. Tale corrente di pensiero si richiama a John Maynard Keynes il quale un giorno, parlando della borsa, e dell'attività di investimento usò l’espressione “animal spirits”. A mio avviso (e non solo a mio avviso) tale discendenza è illegittima ma, non avendo a disposizione un centinaio di pagine, dovrò astenermi dal dimostrarlo. Anche le politiche che questa scuola di pensiero invoca vengono normalmente definite “keynesiane”, ma andrebbero più correttamente definite “socialiste”, “fasciste” o anche solo “dirigiste e paternalistiche”. Il buon Keynes, alla fin fine, oltre a una saggia, equilibrata e conservatrice politica monetaria, altro non avocò che un po' di spesa pubblica finanziata con debito in momenti di drammatica e persistente (attenzione, ho detto drammatica e persistente) caduta nel livello della domanda aggregata e dell’occupazione. Non solo non ci troviamo oggi di fronte ad una veramente drammatica e persistente caduta della domanda aggregata e dell’occupazione ma, e soprattutto, le innumerevoli misure interventistiche e dirigistiche che questa scuola di pensiero invoca, spacciandole per “keynesiane”, avrebbero probabilmente fatto saltare il buon John Maynard sulla sedia lanciandolo in uno delle sue proverbiali filippiche contro fascismo, socialismo e dirigismo. Ma è una battaglia persa. JMK è morto e l’insulsa espressione è oramai entrata nel linguaggio comune: “keynesiano” suona infinitamente meglio di “social-fascista”, no?
Il ragionamento di costoro, in soldoni ma neanche tanto, è il seguente.
(i) Nel prendere decisioni economiche gli individui vengono influenzati sia dalla loro voracità che dalla loro scarsa conoscenza del mondo e dei fatti. Questo li porta a dare un ruolo eccessivo alle proprie emozioni invece che al calcolo razionale, compiendo svariati errori.
(ii) Poiché, perdippiù, le persone tendono ad imitarsi l’un l’altra, seguendo mode, false notizie, grida e quant’altro possa far muovere lo stato d’animo delle turbe, l’irrazionalità individuale si amplifica e moltiplica sui mercati Questi sono di fatto guidati da una sorta di “psicologia di massa” che li rende preda, di volta in volta, o di euforie ingiustificate o di fobie altrettanto infondate.
(iii) Per questo i mercati sono pessimi strumenti per l’allocazione delle risorse, in quanto schiavi di passioni e follie del momento. Non hanno bisogno, quindi, solo di regolazione pubblica che ne garantisca trasparenza, concorrenza, libertà di accesso e così via (ossia di tutte quelle cose che chiunque regolarmente associa ad un mercato ben organizzato) ma anche dell’intervento e dell’interferenza dello stato nelle procedure decisionali e nelle decisioni d’investimento medesime.
(iv) In altre parole: i mercati vanno sottoposti al dirigismo pubblico il quale solo può garantire una corretta ed efficiente allocazione delle risorse. La recente crisi finanziaria mondiale costituisce l’ennesimo esempio che quanto argomentato sin qui è corretto: i mercati sono stati lasciati a se stessi, la mano pubblica non li ha diretti e hanno prodotto il disastro che hanno prodotto. Devono essere giuristi e politici ad avere il primato sui liberi individui, i mercati, l’iniziativa economica privata e la concorrenza. Occorre legiferare ciò che si può e ciò che non si può fare sui mercati finanziari ed occorre farlo in modo dettagliato senza economisti fra i piedi. Quest’ultimi, gli economisti non i piedi, tacciano se non per sempre almeno per parecchio tempo.
Invece, scusandomi per la lesa maestà, io continuo a cianciare.
Buoni esempi di questo nuovo (?) pensiero unico sono questo articolo di Ben Friedman ed il libro di Akerlof & Shiller che egli commenta. Peccato che l’argomento sia logicamente incoerente da un lato e basato su non-fatti dall’altro. Anzitutto, la rappresentazione distorta dei fatti. Ecco gli esempi più madornali, che anche Friedman ripete o allude nella sua breve - e francamente disorganizzata: ha chiaramente usato forbici e peccetta, mischiando pezzi da articoli precedenti - recensione. Sono cose stranote, è vero, ma visto che tutti fanno finta d'essersele scordate, ripetiamole.
1. “The government has moved aggressively, and on several fronts, to stanch the immediate damage.” Falso. Moltissimi osservatori economici (tralascio per ora le “cassandre visionarie”) avevano avvertito, almeno a partire dal 2006, che seri problemi si stavano accumulando nel settore finanziario e dei mutui sub-prime. Questi avvertimenti divennero un coro a metà 2007: persino il sottoscritto (che della congiuntura tende a farsi un baffo) scrisse qui sulla crisi già in corso e sulla miseria della macroeconomia “ufficiale” (quella che si pratica negli uffici governativi e delle banche centrali) nel fronteggiarla. Fatta eccezione per gli irrilevanti – e probabilmente dannosi perché indussero molti già nei guai a raddoppiare la posta - tagli ai tassi di sconto non assistemmo ad alcuna azione governativa sino ad un anno dopo! Nè gli uffici ispettivi delle maggiori banche centrali (la Fed in primis), né l’Office of the Comptroller of the Currency USA, né la SEC ed i suoi analoghi europei, mossero un dito per indurre le istituzioni finanziarie a ricondurre entro limiti storicamente accettabili il loro indebitamento e la loro esposizione ai derivati creditizi. Peggio: non v’è evidenza alcuna che tali istituzioni fossero almeno coscienti di quanto bolliva in pentola; invece, vi è abbondante evidenza dell’opposto. Il che vuol dire, molto semplicemente, che NON facevano il proprio lavoro, e meno ancora lo facevano tempestivamente. A questa miopia post-2006 vanno aggiunti i pluriennali rifiuti del governo e del parlamento USA ad intervenire su entità semi-pubbliche quali Freddie Mac e Fannie Mae, rompendo il loro monopolio e mettendo fine all’enorme rischio morale che tali imprese andavano creando grazie al supporto pubblico di cui godevano. Dinieghi, insisto, di parte governativa a fronte di richieste che venivano avanzate da “irrazionali” agenti privati preoccupati per la preservazione della concorrenza e delle regole di mercato. Dovessimo scendere in ambito tecnico (ma lo spazio a disposizione non lo permette) l’elenco radoppierebbe, a partire dalla dissennata politica dei tassi bassi praticata, su precisa richiesta politica, tra il 2001 ed il 2005 e “giustificata” dalle stesse “novelle” teorie “keynesiane” che ci vanno ora propinando. Oppure, andando a ritroso nel tempo, l’attivismo legislativo ed esecutivo che, a partire dal 1995, ha progressivamente rilassato i criteri per la concessione di garanzie federali a mutui ipotecari, attivamente incentivando (sottolineo: attivamente incentivando) la concessione di mutui ad alto rischio. Vale la pena ricordare che le basi intellettuali per tali azioni dirigistiche vennero fornite dalla prima versione delle teorie dell’inefficienza dei mercati che ora ci vengono servite, come la frittata bruciacchiata, rivoltate. Sì perché quindici anni fa, si sosteneva che i mercati distorcevano l’allocazione delle risorse sovrastimando il rischio dei prestiti alle minoranze ed ai gruppi più poveri ed esercitando varie forme di cognitive bias che non permettevano una valutazione corretta del rischio. Occorreva quindi il sussidio e l’incentivo governativo perché certi rischi venissero assunti, ossia certi prestiti venissero concessi. In svariate occasioni ho avuto l’onore di sentirmi spiegare da economisti e funzionari del sistema della riserva federale che la cosidetta “Greenspan put” - ossia la garanzia implicita che la banca centrale sarebbe sempre intervenuta a tirar fuori dai guai i grandi operatori finanziari (put esercitata per la prima volta, alla grande, nel 1998, con l’operazione LTCM) - era una necessaria e benefica interferenza pubblica perché, altrimenti, i mercati avrebbero irrazionalmente assunto troppo poco (sottolineo: troppo poco) rischio! La miopia, l’irrazionalità e l’incompetenza di parte pubblica sono state almeno un ordine di grandezza più grandi di quelle di parte privata (sulle quali ritornerò in chiusura). Continare ad ignorare questi fatti costituisce il peggior servizio che gli economisti possano rendere, in questo frangente, all’interesse pubblico.
2. “The result is a reluctance to consider changes to the current system. Substantial interference with financial markets, it is said, amounts in the end to centrally planned allocation of an economy's investment process, and will result in technological stagnation and wasted resources.” Friedman sembra qui suggerire che la difesa dello status quo venga messa in atto da dei non ben identificati “difensori del mercato”, impedendo un’azione pubblica o governativa che sarebbe altrimenti tesa ad un’auspicabile riforma. Poche affermazioni sono meno vere, sia per gli USA che per la maggioranza dei paesi europei. Anzitutto perché non esistono i “difensori del mercato” in astratto, ma difensori o critici di mercati concreti: quali specifici meccanismi di mercato vanno modificati a mezzo dell’intervento politico? Svariati economisti hanno avanzato, sia prima della crisi che durante che dopo, delle precise proposte sul da farsi per ridare trasparenza e credibilità ai mercati finanziari; proposte che, per il momento, mi sembrano essere tranquillamente ignorate dalla parte pubblica. Ovunque, invece, i governi hanno fatto di tutto per proteggere le banche esistenti dalle conseguenze delle loro scelte erronee, interferendo con i processi di mercato per mantenere al loro posto la quasi totalità degli alti dirigenti. A fronte dei molti che chiedevano di lasciare che lo sconvolgimento degli assetti di potere esistenti avvenisse attraverso le regole della concorrenza, ossia attraverso fallimenti, acquisizioni, vendite e partizioni di giganti oligopolistici quali Citi o Goldman&Sachs, i governi d’ogni dove han scelto di fare l’opposto. Esattamente come prima della crisi, le autorità pubbliche hanno scelto di mantenere lo status quo. Per fare questo hanno richiesto una sola contropartita che non posso purtroppo discutere qui in dettaglio: il sigillo di una “partnership” fra management bancario e classe politica nella gestione del potere finanziario. In che senso, quindi, è il “mercato” - o la teoria economica! - che si oppone al cambiamento necessario? Meglio ancora: davvero l’intervento pubblico appropriato consisteva e consiste nel salvare il sistema finanziario esistente e non, invece, nel facilitare la sua riforma anche attraverso la disciplina che il mercato stesso avrebbe imposto? Questo problema Friedman non se lo pone - ad Akerlof e Shiller non passa nemmeno per l'anticamera del cervello - inventandosi invece una fantasiosa contrapposizione fra economisti “difensori dell’esistente” e mano pubblica “riformatrice”. Riformatrice di che cosa, se dopo più di un anno non hanno toccato ancora nulla? Non ce lo dice.
3. Da mesi – no: da anni - svariati di “noi” (a dire: gli scemotti normalmente classificati come “economisti neoliberisti”) andavano sostenendo non solo che l’intero processo di alterazione del quadro regolatorio del mercato ipotecario era malsano; non solo che dal punto di vista della teoria economica la politica della banca centrale tesa a convincere i mercati dell’esistenza della “Greenspan put” stava creando un rischio morale di dimensioni mai viste che avrebbe portato a comportamenti speculativi insensati; non solo che al crescere dell’asimetria informativa fra le parti in gioco l’intero sistema bancario stava perdendo caratteristiche concorrenziali e assumendo sempre di più quelle di un mercato monopolistico in cui il regolatore (Fed e Sec in particolare) era completamente catturato dai grandi leaders del cartello monopolistico; ma anche e soprattutto che la conduzione della politica monetaria avviata durante il regno Greenspan stava soffiando inflazione in tutti i valori patrimoniali USA, non solo le case. Tale bolla inflazionistica (“speculativa” è termine inappropriato in questo caso) era di dimensioni mai viste in precedenza e stava portando ad una incorretta allocazione delle risorse la quale avrebbe avuto conseguenze gravi quando la liquidità artificialmente generata dalle banche centrali fosse venuta a mancare ed il lungamente ritardato aggiustamento nei prezzi degli strumenti patrimoniali si fosse realizzato tutto d’un colpo. Come, puntualmente, avvenne. Gli economisti che andavano sostenendo tutto questo, per minoritari che fossero, lo sostenevano sulle basi della teoria economica più elementare accompagnata dall’ipotesi che quando si offre alle persone, siano essi banchieri di Wall Street o venditori ambulanti di mutui ipotecari, l’opportunità di fare soldi scaricando il rischio su terzi, essi approfitteranno di tale opportunità senza pensarci su troppo. E che più “fiat money” si mette a disposizione di costoro a tassi reali negativi, più si indebiteranno per trarre vantaggio della “macchina da soldi” che l’azione pubblica loro offriva. E che, infine, tutto questo si spiega con un’ipotesi debole di razionalità: gli esseri umani, per incompleti che siano i loro modelli del mondo e per scarsa o eccessiva che sia la loro confidenza in se stessi, quando vedono occasioni facili per far soldi ne approfittano, in media, disordinatamente. Coloro che andavano dicendo questo - erano parecchi, anche se fra di essi non si trovava nessuno dei “gurus” che durante gli ultimi anni hanno raggiunto la celebrità mediatica predicando la fine del capitalismo, fatta parziale eccezione per Robert Shiller - venivano regolarmente sbeffeggiati come incapaci d’intendere il paradigma “neo-keynesiano” che dominava (e domina) le banche centrali, i dipartimenti del tesoro, il Fondo Monetario Internazionale e gli altri luoghi dove si decide ed attua la politica bancaria e monetaria del pianeta. Tale paradigma sosteneva che il problema dei problemi era la deflazione, la rampante deflazione mondiale che rischiava di portarci ad una severa crisi. La deflazione andava evitata a tutti i costi e l’unica maniera per evitarla era pompare enormi quantità di fiat money nel sistema, offrendola a tassi d’interesse negativi. E così si fece, soprattutto negli USA ma anche a Francoforte, Londra e Tokyo. Con le amene conseguenze che tutti conoscono.
Ignorare questi fatti nell’analizzare le cause della crisi finanziaria del 2007-09 ed attribuire la medesima, come di fatto sia Ben Friedman che i due autori del libro che egli recensisce sembrano fare, all’irrazionalità umana ed alla conseguente follia dei mercati è, io credo, un’operazione scarsamente degna d’encomio. Ridurre peraltro l’articolo di Friedman, ed il libro di Akerlof & Shiller, a pura distorsione dei fatti sarebbe ingiusto e darebbe luogo ad un altro falso. Essi, infatti, sono anche fitti d’errori logici che sorprendono assai, viste le firme. Ecco un esempio:
4. Nella parte centrale dell’articolo Friedman spiega, correttamente, la ragione per cui un derivato è una cosa qualitativamente differente da un prestito ipotecario o da un investimento in capitale di rischio. E sottolinea, altrettanto correttamente, che molte delle istituzioni salvate utilizzando i soldi dei contribuenti stavano fallendo a causa di grandi scommesse sui derivati, non per investimenti erronei. Questo, ci ricorda Friedman, implica che l’intervento governativo per “salvare” il sistema bancario è ammontato a una pura redistribuzione di ricchezza. Condivido al 100%, e chiedo: cosa c’entra tutto questo con gli “animal spirits” e quanto viene di seguito? Assolutamente nulla. Infatti, se gli argomenti che Friedman correttamente sviluppa implicano qualcosa, essi implicano che l’intervento pubblico, bloccando il normale operare del mercato, è stato dannoso ed è servito solo per redistribuire alla rovescia, dai contribuenti agli incompetenti ed eccessivamente (auto)retribuiti managers bancari. Se da questo fatto si vuole passare all’analisi economica occorre riferirsi alle teorie della scelta pubblica, agli studi dei gruppi d’interesse e delle lobbies, ai fenomeni di “cattura del regolatore” ed alla creazione di poteri monopolistici, e via dicendo. Tutte cose di cui gli economisti si occupano e che, come argomenterò più oltre, sono il prodotto perfettamente comprensibile della “razionalità economica” al lavoro. Tutte cose che, con quanto c’è nel libro di Akerlof&Shiller (A&S), c’entrano come i cavoli a merenda.
Ma veniamo finalmente al nocciolo dell’argomento dei "sentimentalisti", laddove le incoerenze si concentrano. Poco dopo aver cercato di stabilire l’inesistente nesso logico di cui sopra, Ben Friedman cala l’asso, riassumendo gli argomenti di fondo di A&S.
5. Elenca i cinque “istinti animali” che, essendo ignorati da economics, la rendono incapace di spiegare i mercati finanziari reali.
5.1. “Confidence, or the lack of it”; ossia la confidenza, alta o bassa, nelle proprie capacità;
5.2. “Concern for fairness”; ossia il fatto che ognuno di noi ha una qualche nozione di “giustizia” distributiva;
5.3. “Money illusion”; ossia la frequente confusione fra valori reali e nominali;
5.4. "Corruption and other tendencies toward antisocial behavior", ossia il fatto che gli esseri umani sono egoisti e, se possono, rubacchiano;
5.5. “Reliance on stories”; ossia che tutti noi ci facciamo delle opinioni su come funziona il mondo sulla base delle informazioni che abbiamo e dei “modelli” del mondo (le “stories”) che siamo in grado di capire e che ci raccontano o ci inventiamo da soli.
In che senso queste cinque “cose” - la confidenza conta doppio, a seconda che ci sia o meno: chissà cosa succederebbe se distinguessero fra tanta, poca, abbastanza, giusta-giusta, quasi niente ... – possano essere la chiave di volta per rivoluzionare sia la teoria economica che la pratica dei mercati finanziari, non ci è dato intendere. Le chiamo “cose” perché di oggetti eterogenei si tratta: mentre la “confidenza” (ammesso e non concesso che tale espressione sia definibile in maniera univoca) forse è un tratto psicologico quasi elementare, l’illusione monetaria di certo non lo è richiedendo la pre-esistenza della moneta, dei prezzi e del sistema degli scambi. Mentre i nomadi di 100mila anni fa erano più o meno confidenti nelle proprie capacità (di cacciare lepri, per esempio) dubito alquanto soffrissero di illusione monetaria. Idem per il nostro senso di giustizia, sulla natura della quale gli psicologi evoluzionisti si interrogano da tempo e che sembra avere sia un substrato “naturale” sia una forte componente “culturale”. Insomma, A&S mischiano patate con cavoli e BF non sembra accorgersene. Visto che così fanno, mi domando perché escludere dalla lista le seguenti altre “cose”: la tendenza ad imitare, l’insicurezza di fronte all’ignoto, la paura che diventa panico, l’allegria che a volte è euforia, il bisogno d’amore e di riconoscimento da parte di altri, la passione per la cioccolata, i ravioli di zucca ed il Bonarda, il continuo interrogarsi sul senso della vita e la nostra cosmica solitudine, l’attrazione per le modelle russe che popolano Londra ...
Queste non sono, solo, battute: sono anche domande serie. Quali elementi delle psicologie e dei sistemi di valori individuali giocano, nei nostri processi decisionali, un ruolo meritevole di attenzione? Poiché i fattori elencati giocano un ruolo in tutti i processi decisionali, in che senso la supposta infondatezza delle teorie economiche del comportamento non si estende ai calcoli degli ingegneri e dei fisici (anch’essi credono a storie ed a volte sono ottimisti/confidenti mentre altre volte sono pessimisti, o financo lamentosi) o di qualsiasi individuo che debba prendere una qualsiasi decisione? In particolare, perché queste osservazioni non dovrebbero inficiare le decisioni prese da agenti politici o da organismi pubblici, composti anch’essi di persone vittime di tutte queste forme di supposta irrazionalità? Infine, poiché, rispetto ad ognuna delle “cose” elencate sopra, vi è enorme eterogeneità fra gli esseri umani come si fa a decidere cosa è “troppo” e cosa è “troppo poco”? Qual è il “giusto” ammontare di confidenza, paura, credenza in storie, desiderio di uguaglianza o disuguaglianza, secondo A&S? Non ci è dato sapere. Peccato che, se non sanno rispondere a queste domande elementari, la critica suppostamente avanzata abbia la stessa rilevanza dell’acqua fresca. Ma tant'è: la nuova economia dei sentimenti sceglie, nella cesta desbordante delle passioni umane, quelle che fanno più comodo al momento e poi, seguendo una tradizione antica, ci costruisce sopra teorie ad hoc. Seguiamoli in questa improbabile impresa.
Qual è, dunque, il problema di fondo con questo tipo di argomenti? Sono almeno due i problemi, nella loro forma più generale.
Il primo: che questi, ed altri, "sentimenti" sono caratteristiche più o meno generali degli esseri umani, presenti in qualsiasi attività. Non si capisce, quindi, perché diventino rilevanti solo nello studio dei mercati finanziari e solo in questa occasione. Forse che chi produce e commercia scarpe o carta igienica non ha confidenza (troppa, poca, così così) e non possiede alcun senso della giustizia? Forse che chi emigra o andava a fare i tondini a Brescia ai tempi andati non aveva delle opinioni e non si raccontava storie? Forse che i funzionari dello stato non soffrono delle medesime, umanissime, limitazioni nel prendere decisioni? E quando votano scegliendo, secondo questa e quell'altra regola, chi li deve governare, forse che i cittadini di questo o di quell'altro paese si dimenticano delle caratteristiche 5.1-5.5 e diventano superuomini onniscenti e freddi? Forse che Obama e BS non credono a delle storie, siano esse quelle che si inventano per raccontarle a noi o quelle che i loro advisors raccontano loro? Forse che gli ingegneri che progettano e costruiscono aerei non sono a volte corrotti e con tendenze antisociali? O magari mancano di confidenza? Com'è che degli aerei ci si fida, invece delle options no? Mistero. Ma finché questo mistero non viene risolto, l'intero argomento cade per terra, visto che è così generale che si applica a tutto quanto gli umani facciano, quindi non vale nulla scientificamente parlando: non contenendo alcunché di differenziale non spiega perché, invece di programmare i mercati dove si prestano soldi, il famoso stato non debba prima interessarsi di regolare la cottura della zuppa di lenticchie con la luganega.
Il secondo: la teoria economica "cattiva" si occupa assiduamente e da decenni di questi ed altri sentimenti, cercando di capire se hanno una funzione differenziale e se influenzano o non influenzano conclusioni stabilite ignorandole. Ovviamente, da public choice in poi, esiste una letteratura sterminata che studia le implicazioni del comportamento egoistico delle persone in situazioni di "scelta collettiva". Fosse stata usata la public choice da chi fa le politiche economiche del mondo, come molti noi della "minoranza riottosa" andavamo facendo in quegli anni, forse non avremmo avuto i regolatori catturati, Fannie and Freddie, le rating agencies che raccontavano balle, e via dicendo. Si fosse riflettuto più seriamente sull'illusione monetaria, o la sua mancanza, forse non ci si sarebbe illusi che muovendo a cazzo di cane i tassi nominali d'interesse si potessero fare miracoli "reali". Si fosse fatto a meno di credere alle favole, o storielle, di matrice "keynesiana" partorite a Cambridge (MA) e paraggi, ci si sarebbe illusi meno sull'Okun gap, la deflazione da combattere e via enumerando fantasie, storie appunto, che hanno diretto una politica monetaria fallimentare. Avessero avuto Greenspan ed il suo successore leggermente meno confidenza nelle loro credenze ed un maggior spirito critico, forse si sarebbero accorti prima di quanto stava succedendo. Ma così non è stato: hanno ignorato allegramente la teoria economica "tradizionale" e ne è venuto ciò che ne è venuto. Fine.
Quanto segue, sia nell’articolo che nel libro in questione, fa cadere ancor di più le braccia. Sia Friedman che A&S si lasciano andare alla solita, noiosa lista delle cose che “non ci sono” nei modelli economici, ragione per cui essi non sono realistici. Da quando, circa trent'anni fa (avevo scritto 25, poi ho rifatto i conti ...), sono uscito dal coro che cantava e canta tali litanie, la mia reazione è di duplice fastidio. Giusto, nel modello manca anche il fatto che io sono impaziente ed amo la soppressa, quindi? Un modello è, appunto, un modello, ossia una cosa falsa per definizione, una rappresentazione astratta, ma maneggevole, della realtà: l’unico modello “giusto” è quello 1:1 che vive in un mondo parallelo al nostro ed è inservibile, oltre che inesistente. Ma è possibile che gente con un Ph.D. vada in giro ripetendo cose degne di Porta a Porta? In secondo luogo, proprio perché un modello vale nella misura in cui c’è ed è utilizzabile, l’unica maniera di criticare un modello è proporne un altro che faccia almeno tanto bene quanto il precedente. I modelli sono come i chiodi: solo un modello scaccia un altro modello (cito Bob Lucas qui, anche se lui non aveva pensato al chiodo che schiaccia il chiodo ma solo al fatto che it takes a model to beat a model). Quello di A&S e di Friedman, dov’è? Non c’è, anche se da decenni ci viene detto che fra un po' spunta. Per quale ragione, quindi, insistere su questo tema che non solo è ben risaputo ma allo studio del quale gli economisti pazienti e non di moda si dedicano da tempo?
Mi si permetta una deviazione di scuola. La teoria economica che la "minoranza cocciuta" pratica non assume che gli individui sappiano tutto, né che abbiano tutti le stesse preferenze, né che le medesime siano sempre e necessariamente riducibili ad una semplice funzione del consumo aggregato. Tutt’altro: la teoria economica riconosce come punto di partenza la varietà e complessità delle preferenze individuali, il loro essere determinate a livello “pre analitico” da passioni, sentimenti, gusti, paure, desideri e quant’altro. Tali preferenze vengono prese come dei dati (non che non vengano studiate: l’attenzione agli studi psicologici che cercano di capire come le preferenze individuali si determinino ed evolvano è una costante della teoria economica da qualche secolo) e si cerca di classificarle in modo usabile cercando di soffermarsi sulle loro caratteristiche più rilevanti empiricamente. In tutto questo l’ipotesi di razionalità non entra, essa comincia laddove la specificazione delle preferenze finisce: date le preferenze degli individui, date le informazioni (tipicamente incomplete, private e parziali) a disposizione degli stessi, dati i modelli del mondo (beliefs) di cui gli agenti sono dotati, l’ipotesi di razionalità dice che gli individui, nelle loro scelte economiche e non, cercheranno di usare più o meno efficientemente tali informazioni, coerentemente con i modelli del mondo che essi possiedono. Quando tali informazioni e modelli sono incompleti o erronei gli agenti faranno scelte che, ex post, si riveleranno erronee. La domanda interessante sta qui: come imparano gli agenti dai propri errori, come evolvono le preferenze, come si modificano i modelli del mondo? Mi fermo, non è questo il luogo per scrivere un trattato di teoria delle decisioni o di “neuro-economia”, che a quello ci pensa Aldo. Voglio solo ricordare e sottolineare che questi problemi sono ben presenti, da decenni, all’attenzione dei ricercatori i quali non hanno mai sostenuto di avere in mano la soluzione e sono ben consapevoli della difficoltà di trovarla. Da circa cinquant’anni la teoria della decisione e l’economia dell’informazione sono al centro della ricerca accademica nel campo economico, e non per caso. Fare finta che non ci si sia mai resi conto di questi problemi e si viva in un mondo immaginario di esseri perfetti è, francamente, una descrizione ridicola della scienza economica.
Il punto è, però, che proprio alla luce di tali ricerche non v’è evidenza alcuna, né empirica né teorica, che sostituendo ai meccanismi del mercato concorrenziale dei meccanismi politici di tipo dirigistico o social-fascista, in cui entità pubbliche (anch’esse popolate da esseri umani con le limitazioni cognitive di cui sopra, con modelli imperfetti ed informazioni incomplete, eccetera) prendono decisioni di investimento, finanziamento, risparmio e, più in generale, allocazione delle risorse, si possano ottenere risultati migliori. Anzi, tutta l’evidenza dice l’esatto contrario. Di nuovo, non è questo il luogo per un mini trattato. Va però chiarito e ribadito che il riconoscimento della natura incompleta ed imperfetta dei modelli e delle informazioni che gli esseri umani utilizzano nel prendere decisioni NON implica una supposta superiorità del dirigismo pubblico sulla concorrenzialità di mercato e l’iniziativa privata, ma esattamente il contrario. Sono decenni che si cerca di farlo capire a Joe Stiglitz, possibile che i suoi seguaci non siano in grado di arrivarci?
Il problema scientifico veramente difficile, e lungi dall’essere risolto, è quali meccanismi di decisione (decentrati e non) sia possibile identificare ed evolvere per minimizzare i costi sociali di tale, inevitabile, incompletezza ed insufficienza della conoscenza umana associata al fatto che le nostre preferenze sono inevitabilmente guidate dalle “passioni” o, ad essere estremi, dall’amigdala, come dozzine di neuroscienziati ci hanno oramai convincentemente spiegato. Non è certo per caso che, per molti decenni, la ricerca economica nel campo della teoria decisionale ha lavorato sul presupposto secondo cui “de gustibus non disputandum est”: si riconosceva, così facendo, l’estrema complessità delle preferenze umane e la scarsa conoscenza che delle medesima la neuroscienza ci offriva. Per esattamente la medesima ragione ci siamo chiesti, per decenni, quanto fosse possibile spiegare delle decisioni umane facendo leva su ipotesi estremamente deboli e generalissime riguardo alle medesime preferenze (convessità, continuità, completezza, transitività ma non sempre ...). Proprio perché di esse sapevamo poco evitavamo di assumere troppo, permettendo alle preferenze di essere le più complicate ed “irrazionali” (termine decisamente insensato in questo contesto) possibile. Ora che ne sappiamo un pelino, ma solo un pelino, di più, non a caso svariati di noi (tradizionalissimi economisti accademici) dedicano il loro tempo alla neuro-economia. Ma assolutamente nulla di quanto questi colleghi son riusciti a capire può possibilmente giustificare semplificazioni peregrine come quella secondo cui la recente crisi finanziaria va attribuita ad una supposta e mal definita “irrazionalità ” umana e dei mercati in cui gli umani commerciano.
Tutto il contrario: ad ogni singolo passo della catena che va dal debitore che accende il mutuo attraverso l’agente immobiliare in Arizona sino ai potenti bancari di Wall Street che commerciano sofisticati prodotti derivati ai quattro angoli del pianeta, la crisi finanziaria del 2007-09 è il prodotto dell’interazione perversa fra la razionalissima avidità umana e politiche sociali, monetarie e del credito disegnate da politici “razionalmente miopi”. Razionalmente perché a caccia di voti e di potere, miopi perché beffandosi degli insegnamenti più elementari della teoria economica essi hanno scaricato sul futuro gli effetti disastrosi delle loro scelte passate. Poi, nel 2007-08 il futuro è arrivato e continua nel nostro presente.
Oltre che appassionato l'intervento è convincente e rigoroso. Bello davvero!