Sul fronte dell'offerta di sedi universitarie, iniziamo con un po' di storia. Negli ultimi 20 anni, il sistema universitario italiano è stato caratterizzato da una significativa proliferazione delle sedi universitarie. Da 63 sedi all'inizio degli anni ’90 se ne contano 89 nell’anno accademico 2009/2010. Insieme alle sedi universitarie è esploso anche il numero dei corsi di laurea, naturalmente. È vero che attivare un nuovo corso di laurea in una sede esistente non costa niente, ma assorbe comunque risorse: i corsi di laurea hanno presidenti che li gestiscono, docenti che vi insegnano, eccetera. Solo negli ultimi dieci anni si è passati da 3463 a 5769 corsi con iscritti al primo anno. La sezione statistica del Miur riporta questi e altri dati di interesse.
Le ragioni ufficiali di una tale espansione dell'offerta erano principalmente due. Primo, la necessità di distribuire l’accesso universitario in modo più omogeneo sul territorio, in modo da garantire le stesse opportunità a più gruppi della popolazione e ridurre le differenze tra Nord e Sud Italia. All'inizio degli anni 90, il Sud registrava tassi d'iscrizione in università di 10 punti percentuali inferiori a quelli del Nord e tassi d'abbandono universitario 11 punti percentuali più elevati e conseguentemente meno laureati. La fonte di questo dato è l'indagine sull'istruzione universitaria (disponibile online solo da fine anni 90).
L'interpretazione di questo differenziale territoriale richiede qualche cautela, perché si tratta di statistiche che utilizzano la residenza come criterio di ripartizione geografica, mentre uno può andare a studiare dove vuole. Consideriamo una persona del Sud che si trasferisce a studiare al Nord. Sia che questa persona cambi residenza sia che resti formalmente residente al Sud troveremo differenze territoriali nei tassi di iscrizione, abbandono, e laurea che almeno in parte riflettono un puro effetto di autoselezione dei migliori studenti. Nella misura in cui questo è il caso, il problema non sarebbe la mancanza di offerta al Sud ma la presenza di offerta di cattiva qualità che fa scappare la gente. In queste condizioni, e in realtà più in generale, realizzare il "diritto allo studio" espandendo la quantità invece della qualità offerta è in fondo una foglia di fico: se ti porto un'università che oscilla tra il mediocre e il pessimo sotto casa ma che è, per legge, equivalente alla migliore università pubblica alla quale potresti avere accesso schiodandoti dal rione dove sei nato, formalmente ti sto dando un'opzione in più, ma è un'opzione a conseguire un pezzo di carta non ad accumulare capitale umano.
La seconda ragione è stato il bisogno di decongestionare i mega-atenei (Roma La Sapienza, Napoli Federico II, Milano Statale, Bologna, Torino Statale, Bari, Padova, Firenze e Palermo), che all'epoca superavano ognuno i 40mila studenti iscritti. Un rapido commento anche su questo "bisogno". Non si capisce perché decongestionare debba voler dire creare altri campus in provincia. È come dire che siccome c'è troppa domanda di mele fuji a Milano, allora bisogna aumentare l'offerta di mele golden ad Abbiategrasso. La cosa sembra ed è priva di senso. Per fare un esempio, quest’autunno al campus di Temple dell'Arizona State Unversity ci sono quasi 60mila studenti iscritti. Nessuno sente il bisogno di decongestionarla.
Il processo di espansione delle sedi universitarie sul territorio è comunque avvenuto ed è avvenuto, non sorprendentemente, senza alcuna programmazione logica che tenesse conto della potenziale domanda locale di offerta d'istruzione terziaria, possibili sbocchi professionali nel mercato di riferimento o infrastrutture già esistenti. In pratica, l'espansione ha assecondato la brama di istituire una propria università locale. Come risultato, quasi ogni provincia italiana ha ormai la sua sede universitaria.
L'aumento dell'offerta universitaria sul territorio ha garantito almeno più uguaglianza nelle opportunità d'accesso all'istruzione terziaria? E ha ridotto gli squilibri territoriali tra il Nord e il Sud del paese? La risposta è NO. In un recente studio condotto da una di noi che valuta l'effetto dell'espansione universitaria sulle scelte universitarie di giovani diplomati, emerge che la proliferazione di sedi ha aumentato significativamente le iscrizioni all'università e ridotto la probabilità di abbandonare gli studi accademici. Ma ha anche rallentato la progressione accademica, misurata in termini di numero di esami passati nei primi tre anni in università, soprattutto per gli studenti che decidono di studiare al sud. Un altro studio di Bratti, Checchi e de Blasio che analizza l'impatto dell'espansione usando dati della Banca d'Italia, mostra che la probabilità di ottenere una laurea non è aumentata a seguito dell'aumento dell’offerta di sedi universitarie.
In sostanza, l'università sotto casa aumenta la probabilità che un giovane vi s'iscriva (diminuisce il costo di andare all'università, evidentemente), ma anche la probabilità che in università si parcheggi senza terminarla. Il risultato può in parte essere spiegato dal fatto che l'aumento dell'offerta abbia indotto ad iscriversi studenti marginalmente meno portati per gli studi accademici, e quindi più propensi a non terminare gli studi. Questi sono quelli che non a caso (come notavamo sopra) prima sceglievano di non andare all'università.
L'effetto è particolarmente significativo al Sud, dove son state aperte soprattutto facoltà scientifiche, la cui istituzione è stata incentivata dall'offerta di fondi più cospicui. Come risultato, le differenze tra Nord e Sud Italia nei livelli d'istruzione continuano ad essere consistenti: nel 2008, il 45% per cento dei giovani di età compresa tra 19-25 anni e residente al nord è iscritto in università del nord, mentre la corrispondente cifra per il sud è il 35%. Per quanto riguarda i laureati: il 21% dei giovani venticinquenni residenti al nord hanno una laurea. La stessa statistica per il sud è 14% (fonte: Rapporto Annuale Istat, tavola 931 nell'appendice statistica). Nell'interpretare questa differenza è necessaria la stessa cautela di cui sopra: dal sud si può andare a studiare al nord cambiando o non cambiando residenza. Tuttavia si può argomentare che l'apertura delle nuove sedi periferiche ha un effetto prevalentemente locale: se una famiglia residente al sud vuole mandare la figlia a studiare al centro o al nord, la manda nella sede principale (Torino o Siena, per dire) non nelle nuove sedi periferiche di queste università (Vercelli o Grosseto, per dire), per quanto l'offerta possa essere un po' differenziata. È presumibile quindi che la persistenza delle differenze territoriali rifletta l'inefficacia della politica di espansione delle sedi universitarie. Di foglia di fico si tratta, insomma.
La riduzione del numero di sedi universitarie è quindi opportuna, purché ciò avvenga non mediante l'insensata logica del taglio di capelli "lineare" ma a seconda della performance di queste sedi relativamente al loro costo. Il DDL Gelmini, purtroppo, interviene sul ridimensionamento dell'offerta universitaria con ottime intenzioni ma ignorando completamente il semplice e duro fatto che gli incentivi contano. Il DDL infatti, contiene una una norma (articolo 3) che permette agli atenei di fondersi tra loro o aggregarsi su base federativa per evitare duplicazioni e costi inutili. Le scelte di ridimensionamento vengono però lasciate alla discrezione dei singoli atenei: qualcuno avrà incentivo a farlo?
Anche sul fronte del diritto allo studio iniziamo con un dato sintetico, la spesa per il sostegno finanziario degli studenti universitari (laurea e post-laurea) dal 2002 al 2007 in Italia e in un gruppo di paesi di riferimento. Questo dato, riassunto nella figura sotto, proviene dalla banca dati sull'istruzione di Eurostat, ed è relativo al prodotto interno lordo dei paesi rappresentati.
La figura mostra che in Italia su questo fronte si spende molto meno che in USA, UK e Germania, anche se più che in Spagna e Francia. Questo suggerisce che in Italia si spende poco, vediamo tra breve come. Qui il DDL introduce alcune novità (articolo 4). La principale è l'istituzione di un fondo per erogare "premi di studio" (borse di studio, cioé) e "buoni studio". Questi ultimi andranno restituiti secondo la formula dei "prestiti d'onore", cioé una volta che lo studente inizi a percepire un reddito. Chi si laurea col massimo dei voti e entro la normale durata del corso di laurea, però, non dovrà restituire niente. Queste risorse saranno allocate in base ai risultati di test standardizzati su base nazionale.
Separare nettamente merito e bisogno è una buona idea. Quando il merito viene misurato in base alla performance si forniscono incentivi corretti agli studenti a scegliere una carriera universitaria e lavorare per completarla con successo e in tempi brevi (come uno di noi ha argomentato qui). In questo modo si finanziano gli studi degli studenti più brillanti (quelli cioé che hanno più talenti da mettere a frutto) indipendentemente dal loro background socioeconomico. A erogare borse di studio in base al reddito, invece, si va a finire che il figlio mediocre del dentista milionario che dichiara 30mila euro lordi soffia la borsa al figlio bravo dell'impiegato il cui datore di lavoro dichiara tutti i suoi 33mila euro annui. Queste nuove borse e prestiti d'onore, comunque, sono cumulabili alle vecchie borse di studio erogate in base al reddito familiare.
L'incertezza è su quante risorse ci saranno in questo nuovo fondo, che non è proprio un dettaglio irrilevante. Al momento non si sa, e tecnicamente non c'è neppure la copertura. Quel che sappiamo è l'entità dell'attuale fondo di intervento integrativo per prestiti d'onore e borse di studio, istituito nel 1991, e integrato dal gettito della tassa regionale per il diritto allo studio (pagata dagli studenti) e dalle risorse messe a disposizione dalle regioni. Il contributo è caratterizzato da una forte variabilità territoriale e come risultato solo alcune regioni (soprattutto quelle del Nord) riescono a soddisfare le domande di tutti gli idonei. Ebbene, mentre si istituisce un nuovo fondo per premi di studio, senza copertura, non si risparmia dalla scure dei tagli (volt)tremontiani l'esistente fondo integrativo che, cresciuto fin dalla sua istituzione, passerà dagli attuali 96 milioni di euro a 70 il prossimo anno, tornando ai livelli del 1998. Sarà mica che al nuovo fondo (se mai il Senato avrà il tempo di riapprovare il DDL) affluiranno circa 26 milioni di euro?
I tagli, quando necessari, sono più accettabili quando sono legati ad un serio sistema di valutazione della ricerca (vedi qui e qui, per esempio), che, se pur con misure imperfette, faccia dipendere i finanziamenti da indicatori di produttività scientifica secondo gli standard internazionali. Visto che questo governo promuove a ogni pié sospinto i "costi standard" (nel finanziamento delle università come nel sistema sanitario) ci piacerebbe se avesse promosso anche la "performance standard" come criterio per la ripartizione dei fondi pubblici. Questo permetterebbe di realizzare lo slogan di cui sopra senza scrivere interi papiri di norme e ragolamenti. Costringerebbe infatti le università a razionalizzare l'offerta di corsi con un numero esiguo di iscritti e chiudere sedi "parcheggio". Le risorse risparmiate potrebbero essere reinvestite per sostenere studenti meritevoli che vogliano iscriversi in sedi universitarie di qualità in modo da garantire un reale diritto allo studio.
Ma per far questo bisogna valutare e usare le valutazioni anziché farle ammuffire nei cassetti del ministero. Ovvero: senza rafforzare il ruolo dell’ANVUR non si raggiungerà spontaneamente né l'uno né l'altro obiettivo. Se non vuole ascoltare i nostri consigli, signora ministro, ascolti almeno quelli di Roberto Perotti, che si riassumono allo stesso modo: più libertà per le università (la carota) e più meritocrazia nella ripartizione dei fondi pubblici (il bastone). Questo realizzerà anche il suo slogan dal quale questo post prende piede.
Separare il merito dal bisogno nell'assegnazione delle borse di studio è una pessima idea invece!
E' un'idea che contraddice la funzione stessa delle borse di studio e il principio costituzionale che le individua come mezzo per rendere effettivo il diritto allo studio. E' una idea che dal punto di vista pratico sottrae risorse ai capaci e meritevoli privi di mezzi. E' un'idea che contribuisce all'immobilismo sociale e alla riproduzione delle diseguaglianze.
Se poi si volesse aprire un dibattito su cosa significhi "merito" e se sia più meritevole a parità di performance il figlio, poniamo, di un docente universitario o quello, poniamo, di un operaio, vedete voi. Io personalmente continuo a non capire dove stia il particolare merito quando un giovane di buona famiglia, senza problemi economici, con genitori entrambi laureati, ecc. riesce a laurearsi in corso e a pieni voti. Personalmente darei qualche soldo in più al figlio dell'operaio anche se la sua performance fosse un po' inferiore invece di regalarli a chi non ne ha bisogno.
mah, questa é una question molto delicata, che per altro, come si dice nell'articolo, é falsata dal fatto che la gente in Italia evade le tasse, per cui le borse di studio non sempre vanno effettivamente a chi non ha i mezzi per studiare, ma vanno a chi i mezzi non li dichiara. Altro fattore importante é il fatto che certe facoltà tendono a dare voti più alti (più facile laurearsi a pieni voti a lettere che ad ingegneria) ma, almeno a Padova, il merito per le borse di studio veniva misurato relativamente alla facoltà d'appartenenza.
Per le vere eccellenze comunque ci sono le scuole tipo la normale a Pisa o la scuola galileiana a Padova: devi tenere dei risultati ottimi, ma non paghi un soldo (nemmeno vitto alloggio e libri).
Personalmente sono a favore di dare le borse a chi ne ha più bisogno ed é comunque meritevole, e incentiverei ulteriormente gli studi di materie che poi possano essere effettivamenrte necessarie al territorio (non creiamo laureati che poi non trovano lavoro e usano il loro titolo di studio di scuola media superiore per trovare lavoro)
Comunque ecco, io volevo solo dire che si certo, le famiglie che se lo possono permettere é giusto che paghino l'univeristà ai figli, solo non pensiamo che non sia dura anche per le famiglie benestante pagare le rate di tutti i figli nello stesso mese o comprare i libri di testo.I miei si sono potuti permettere di far studiare me e le mie sorelle, siamo una famiglia benestanante, ma non ce l'avrebbero fatta se avessimo dovuto stare fuorisede, e quando bisognava pagare le rate di tutte entro la stessa data eran dolori. Ed io non mi sono mai comprata un libro, sempre studiato in biblioteca ed usato i computer della facoltà e pagata le vacanza lavorando (e come me molti dei miei compagni di studio - con o senza borsa). Io non mi sono uccisa sui libri, ma ho fatto il mio, mi sono laureata in 5 anni (di cui uno di erasmus) con 110 (in Statistica), e mi ha sempre dato fastidio vedere gente che passava il minimo sindacale degli esami e sceglieva apposta i corsi più facili per poter avere una media alta e prendere cosí la borsa.
Claudio, scusa, stai dicendo un'assurdita'! SE uno privo di mezzi e' capace e meritevole ALLORA ricevera' risorse quando le borse di studio sono assegnate secondo questi criteri. Nulla e' sottratto a loro. Ti pare?
Secondo me ci devono essere sia risorse per consentire agli indigenti meritevoli di studiare, sia risorse per incentivare economicamente il merito indipendentemente dal reddito.
I livelli di indigenza per avere le borse di studio in Italia sono ridicoli e riflettono l'inefficienza dello Stato nel contrastare l'evasione fiscale. Uno stato che non sia una barzelletta fra l'altro dovrebbe iniziare a fare controlli fiscali seri proprio da chi chiede sconti e borse di studio per indigenza.
Ma anche se non ci fosse l'evasione fiscale e' sempre opportuno incentivare tutti anche i benestanti a impegnarsi negli studi e a concludere l'universita' nei tempi previsti, visto la la predisposizione dei giovani italiani specie benestanti a fare i vitelloni a spese dei genitori e anche a spese della societa', che paga buona parte del costo degli anni di universita' fuori corso.