Si nota in giro una certa sorpresa, mista ad un ammontare non indifferente di preoccupazione, a fronte della notizia che la ripresa economica USA stenta a prender quota. Il Presidente-Superman ha detto che ne parlerà presto al popolo; attendiamo fiduciosi ulteriori miracoli ottobrini, che a Novembre ci son le elezioni.
A leggere le notizie ed i commenti odierni non riesco ad evitare un sorriso un po' amaro visto che, nell'altra mano, tengo le copie di Business Week e The Economist di Giugno e Luglio ch'erano arrivate a casa ma non avevo letto perché ero in vacanza. Lì, fior fiore di grandi economisti ed analisti confermavano che la ripresa era solida e che gli stimoli avevano stimolato adeguatamente ... ora tutti a dire che abbiamo disperatamente bisogno di altri stimoli. Gli articoli idioti abbondano, eccone uno d'esempio e da fonte prestigiosa. Perché sia idiota spero divenga chiaro nel prosieguo.
La ripresa europea, d’altro canto, questo trimestre ha ecceduto le aspettative grazie al balzo tedesco ed alle buone performances inglesi e di altri paesi del Nord Europa. Leggo su uno dei tanti BWeeks arretrati un'intervista a Christina Romer nella quale spiega al popolo che i paesi europei che non hanno fatto "'o stimolo" non crescono mentre gli USA, che 'o stimolo l'hanno preso, volano. Che si sia dimessa a causa di quell'intervista?
Io ci faccio su dell'umorismo perché non trovo di meglio da fare, ma questo non vuol dire che la situazione non sia preoccupante - in Italia più che altrove - né che non siano necessari ulteriori, talora radicali, interventi di politica economica. Vuol dire, però, che sarebbe il caso di smetterla, una buona volta, di fare politica economica sulla base dei dati, delle valutazioni e, spesso, delle isterie congiunturali. È tempo di guardare a questa crisi con maggiore realismo e, soprattutto, con la consapevolezza che per uscire da essa è necessario adottare cambiamenti non congiunturali ma strutturali.
Liberiamoci, anzitutto, della sorpresa per la debolezza della crescita americana – e, in una prospettiva più ampia, anche di quella europea. Governanti italiani a parte, nessun analista serio s’era sognato di dire che saremmo tornati rapidamente a tassi di crescita alti e sostenuti; similmente, nessuno s’era illuso che i problemi esplosi brutalmente nel corso del 2008 fossero stati eliminati con le azioni di politica monetaria e fiscale adottate negli ultimi ventiquattro mesi. Errori di politica economica e squilibri strutturali endogeni si sono venuti accumulando, alimentandosi reciprocamente, per più di un decennio negli USA, circa due in Europa ed almeno tre in Italia. L’illusione che essi possano evaporare nell’arco di un anno o due solo perché aumentiamo la spesa pubblica, finanziandola con emissione di debito, mentre le banche centrali riducono i tassi a breve riempendo le casseforti delle banche di liquidità a buon mercato, altro non è, appunto, che una populistica illusione.
Liberiamoci anche della convinzione che sia utile continuare a discutere del “che fare?” in politica economica nei termini obsoleti e, alla fin fine, banalotti, di maggiore o minore spesa pubblica aggregata, maggiore o minore offerta di “moneta”, aumento di qualche punto del tasso dell’inflazione e via elencando le sessantennali trite e ritrite ricette di cui, anche in questi giorni, sia la stampa internazionale che quella italiana si sono riempite. Per intendere quanto irrilevanti analiticamente – e dannose praticamente – tali ricette possano essere, riflettiamo per sommi capi su cosa, concretamente, la recessione che stiamo ancora attraversando abbia cambiato nelle economie in cui viviamo.
La ricchezza, ed il reddito, di quasi tutte famiglie si sono ridotti: non solo le case valgono di meno, ma valgono di meno anche i patrimoni finanziari (banche ed aziende, alla fine, sono possedute dalle famiglie) e per molti il reddito futuro è diventato inferiore a quello precedentemente atteso. Questo implica la sparizione di una quota sostanziale di domanda di svariati beni e servizi: non li vuole più nessuno. Mi rendo conto che sarebbe bello avere una teoria completa e solida di perché tutto questo è successo ed ammetto che non ce l'ho. Sono però in buona compagnia, perché una teoria convincente davvero non ce l'ha nessuno, proprio nessuno ... (beh, non è vero: i 100economistichesondiventati250 ce l'hanno: la crisi è l'inevitabile frutto delle contraddizioni insanabili in cui si dibatte l'economia capitalista e la sua teoria economica che, come tutti sanno, sono un tutt'uno ...).
Ho degli abbozzi di teoria, delle tracce: ovviamente c'è una connessione tra il crearsi della bolla e lo spostamento dell'asse economico del mondo verso l'Asia. Altrettanto ovviamente c'è una relazione fra l'illusione "monetaria" che ha portato americani, ed europei, a credere che i loro beni capitali (aziende quotate in borsa e case) valessero all'improvviso il 70-80% in più e l'arrivo sul mercato mondiale di 3 miliardi d'indo-cinesi produttivi ma poco costosi. Ed ovviamente le folli scelte di politica monetaria e bancaria compiute dal 1995 in poi ed in particolare dal 2001 in poi non sono solo il frutto di una Fed preda di follie pseudo-keynesiane in salsa greenspan-bernanke. Si', fra tutte queste cose ci soo connessioni profonde e nessi causali. Ma il modellino che le tiene coerentemente insieme non ce l'ho, quindi sono costretto a ragionare in modo empirico, partendo dai fatti chiari e non controversi e lasciando da parte la risposta alla domanda del "perché sia successo". Ed i fatti dicono che per un certo tipo di beni la domanda, in EU+USA+Japan, è calata drasticamente ed in modo permanente. Gli abitanti di quei paesi si sono accorti di essere meno ricchi di quanto credevano, si son messi a risparmiare per pagare i debiti ed han deciso che certi beni non li comprano o ne comprano molti meno. Fine della storia, o meglio inizio dell'analisi sul da farsi.
Occupazioni precedentemente considerate sicure e redditizie non sono più tali: milioni di persone devono trovare qualcosa di diverso e di utile da produrre. Sia gli USA che l’Europa si devono confrontare con un gigantesco problema di mobilità del lavoro: milioni di persone che prima facevano “case” (lavatrici, mobili, mutui, eccetera) ora devono trovare altre cose da fare ed apprendere a farle. Tutte le discussioni (del piffero a mio avviso) sulla Beveridge curve che non è più quella di una volta (negli USA) si riducono a questo: che non diventi infermiera in 1 anno se hai fatto il muratore tutta la vita. E, comunque, il profilo della disoccupazione ha lo stesso comportamento ciclico, sino ad ora, che ha avuto nelle ultime due recessioni, guarda caso ...
Si eclissano le prospettive di crescita che molti vedevano nei settori allora in espansione: per molte imprese diventa problematico decidere cosa fare per crescere, dove investire. Migliaia di imprenditori, esistenti o potenziali, devono trovare nuove strade per innovare e investire, perché la crescita viene solo dal fare cose nuove o dal fare meglio le cose che si facevano prima. Finché non scopri quali siano, non le fai.
Questi sono cambiamenti reali e la caduta dei prezzi delle case, degli attivi finanziari, dei salari e dei prezzi altro non sono che il riflesso monetario di tale impoverimento reale. La qual cosa ha una prima implicazione: generare inflazione non elimina questa perdita reale di ricchezza e reddito. L’affermazione spesso avanzata secondo cui l’inflazione sarebbe un bene perché renderebbe più facile ripagare i debiti (rendendo quindi meno poveri i debitori) ignora il fatto che, così facendo, i creditori riceverebbero soldi svalutati e sarebbero essi, quindi, meno ricchi. Nella misura in cui sia i creditori che i debitori sono fra di noi – non può essere altrimenti: se i creditori fossero tutti “altrove”, che problema vi sarebbe a non ripagare i debiti? – la soluzione “inflazione” e’ solo un’illusione. Quindi non è solo il fatto che non si riesce ad "inflazionare" per quanto ci si provi (e 20 anni di Giappone che ci prova sono lì a ricordarcelo!) ma anche se si potesse non aiuterebbe!
Seconda implicazione: non è possibile chiedere alla politica monetaria di fare ciò che non puo’ fare. Le banche centrali possono:
(a) Ispezionare e regolare le banche in modo da garantire che non facciano prestiti insensati e non si dedichino ad operazioni finanziarie troppo rischiose. A partire dalla seconda metà degli anni ’90 alcune di loro (la Fed in particolare) hanno svolto tale compito malamente ed è bene che si prendano provvedimenti perché ora lo facciano adeguatamente. Deve essere chiaro, però, che così facendo vi saranno meno, non più, prestiti a imprese e famiglie. Le banche, consapevoli di questa svolta nell’atteggiamento del regolatore, già si sono adattate diventando più conservatrici nella concessione del credito. Non so se questo sia desiderabile o meno, però so che non si può avere la moglie ubriaca e la botte piena: non si possono avere banche meno propense al rischio e una quantità maggiore di credito allo stesso tempo! Il dibattito mondiale sulle banche e le imprese che accumulano liquidità (queste cattivone) non lo capisco proprio, con buona pace dei geni che scrivono su The Economist. Non abbiamo detto tutti che si erano indebitate/esposte troppo, che erano troppo leveraged, che facevano prestiti rischiosi? Bene, si sono adeguate! Cosa implica questo? Implica che un gran numero di prestiti marginali, ossia rischiosi, non vengono più fatti! Ripeto: o la moglie ubriaca o la botte piena, not both.
(b) Le banche centrali possono rendere meno costoso il finanziamento delle banche che decidono di concedere dei crediti. Questo non implica che le opportunità per concedere credito aumentino, né che aumenti la quantità di credito concesso. Si può portare il cavallo all’acqua e rendere l’acqua abbondante, ma non si può costringere il cavallo a bere. Se gli imprenditori sono incerti su dove sia conveniente investire, non investiranno sino a quando tale incertezza non sarà eliminata, ossia sino a che non diventerà chiaro cosa convenga produrre, cosa la gente voglia effettivamente comprare. Sino ad allora l’abbondante acqua rimarrà nelle riserve delle banche. Guarda caso, infatti, le grida del 2009 sulle banche che non prestano alle migliaia di imprenditori che vorrebbero investire sono evaporate. Ora sono le imprese che ci vanno caute, molto caute, ad investire ed assumere. Vale la pena notare che (BWeek July 5-11, p. 51) creare un nuovo posto di lavoro alla frontiera tecnologica costa oggi, negli USA, nell'ordine di $100K, costava 1/10 due recessioni fa ...
(c) Le banche centrali possono, infine, espandere la massa monetaria comprando debito pubblico e favorendo così l’indebitamento dei governi. Questo può abbassare i tassi nominali a lungo sul debito pubblico, come la Fed sta tentando di fare, solo nella misura in cui i risparmiatori credono che questo debito pubblico verrà ripagato. Ma, come abbiamo appreso in Europa negli ultimi mesi, quando l’indebitamento pubblico si espande molto più rapidamente del reddito nazionale i risparmiatori cominciano a temere che non venga ripagato. Allora i tassi, sia sul debito pubblico che su quello privato, schizzano in alto. Detto altrimenti: monetizzare il debito pubblico si può, ma non è detto che generi tassi d’interesse minori perché il rischio di default ed i timori d’inflazione possono più che compensare l’azione della banca centrale.
Le banche centrali, e la Fed in particolare, hanno errato gravemente dalla fine degli anni ’90 sino al 2005 circa, alimentando e permettendo la creazione di bolle finanziarie. Chiedere ora ad esse di ridurre ulteriormente i tassi e di spingere maggior liquidità nel sistema non solo è inutile, per le ragioni appena viste, ma rischia di ripetere esattamente lo stesso errore. Morale: dovremmo forse chiedere alle banche centrali di smetterla di pompare acqua nelle tubature; il rischio che una di esse si gonfi come un pallone e poi ceda è oramai molto alto.
Ed insisto: il problema NON è la maledetta inflazione - che oramai credo d'aver convinto anche Steve Williamson che non è lì il problema, rimane solo David Andolfatto ad essere puzzled che la quantity theory non funziona bene - ma il fluire di risorse (investimenti, crediti) verso assets che non sono produttivi e che si apprezzano in maniera inconsulta. Questo arricchisce qualcuno, finché il flusso entra il gatekeeper prende un fee, ma poi impoverisce tanta altra gente quando il flusso decide di uscire, come abbiamo visto. Evito, per il momento, d'invischiarmi a discutere nuove mode ed amenità in arrivo dal Charles River, tipo la favola cavalleresca del shortage di (safe) assets ... In ogni caso: volete che BB continui a stampare e si compri altri due o tre trillions di assets del settore privato USA? Molto bene, che lo faccia. Non cambierà nulla, fatto salvo il fatto che, ad un certo punto, dovremmo forse chiederci come fa la Fed a gestire metà del settore privato! Ma la crescita, nel senso della crescita della produttività e dell'occupazione, non viene di certo perché ora la Fed è il tuo maggior shareholder o corporate lender, o no? La stampa anglosassone (FT e The Economist in particolare: quacuno ha una teoria sul perché?) pubblica ogni giorno articoli di questo o quel banchiere di questo o quell'"analista economico" che chiedono maggiore liquidità, tassi più bassi (!) ed uno si domanda: ma ci sono o ci fanno? In giro c'è tutta la liquidità che ci si possa immaginare, peccato che nessuno trovi una maniera di USARLA per creare posti di lavoro produttivi e prodotti addizionali che si vendano! È quello il problema, o gonzi, non la liquidità! E se i prezzi (di alcuni beni durevoli) calano o non crescono ... non è che questo è dovuto al fatto che i mercati funzionano, ed i prezzi delle cose che nessuno vuole si aggiustano scendendo?
Il lettore d’ispirazione “keynesiana” commenterà: “Esattamente: siamo nella trappola della liquidità, per questo occorre aumentare la spesa pubblica!” Forse siamo in trappola, ma dubito assai che la spesa pubblica ci possa far uscire dalla medesima. Il perché lo vediamo fra un attimo. Per ora sottolineiamo che la politica monetaria ha fatto la sua parte, che di più non può fare, che non è il caso di chiederlo e che, anzi, è tempo di chiedere ai banchieri centrali di mettere sotto controllo l’enorme massa di liquidità che hanno immesso nel sistema finanziario dal 2008 ad oggi.
L’effetto reale più immediato della crisi esplosa tra il 2007 ed il 2008 consiste nella distruzione di aziende e posti di lavoro, specialmente a medio-basso valore aggiunto. Per questi beni e servizi la domanda è diminuita per sempre: come dimostrano i recenti andirivieni del mercato automobilistico, gli incentivi ed i sussidi pubblici possono solo generare un aumento fasullo della domanda di ieri ed un crollo repentino della domanda di oggi, ragione per cui sono potenzialmente dannosi. Quello che di certo non possono fare è generare magicamente un’alta e persistente domanda, ragione per cui sono certamente inutili.
A questo effetto immediato ne segue un secondo: per molti beni a domanda invariata o addirittura crescente sono venuti affermandosi produttori alternativi, localizzati nei paesi meno avanzati. Questo secondo processo, il più rilevante per le prospettive di crescita, continuerà per molto tempo ancora: era in corso da due decenni ed ha solo subito una forte accelerazione negli ultimi tre anni. Per comprendere il caso italiano occorre aggiungere a questi due fenomeni un terzo: la decennale e continua perdita di competitività di svariati comparti dell’industria italiana rispetto ai propri termini tradizionali di confronto, costituiti da imprese simili nei maggiori paesi della UE. Le misure di tale slittamento decennale sono molteplici ma riassumibili, alla fine, in una sola: il valore aggiunto per ora lavorata cresce meno che nel resto della UE ed il reddito disponibile non cresce. Per chi non avesse ancora inteso l'antifona consiglio la lettura di un documentino pubblicato dall'ISTAT il 3 Agosto, intitolato "Misure di produttività". A me ha fatto spavento.
La politica monetaria, come abbiamo visto, non può fare molto; anzi: può fare poco o niente e quel poco l’ha già fatto. Mentre è stata utile per sventare l’eventualità che il panico del 2008-09 trasformasse la crisi in un crollo tanto drammatico quanto generalizzato non può certo generare la domanda di case e televisori che non c’è, né può rendere competitive ed efficienti imprese che non lo sono. Questo il punto a cui eravamo giunti nella prima parte: ecco perché occorre aumentare la spesa pubblica, era stata la risposta. La spesa pubblica crea immediatamente e direttamente posti di lavoro, risolvendo alla radice i fattori di crisi testé individuati. Giusto? Sbagliato.
Un vantaggio dello scrivere un editoriale a puntate, distanti una settimana l’una dall’altra, è che nel frattempo succedono delle cose rilevanti per il tema in discussione. Questo è anche il nostro caso, il che ci permette di usare esempi freschi nella mente del lettore invece di ricorrere alle, altrimenti più oneste ma frequentemente più ostiche, statistiche. Un esempio l’abbiamo già utilizzato: i sussidi alla rottamazione altro non sono che uno dei tanti modi in cui si realizza la spesa pubblica “keynesiana” - mi dispiace: avendo troppo rispetto per il defunto JMK, dovrete sorbirvi le virgolette ogni volta che sarò costretto a far riferimento alle imbarazzanti versioni correnti delle sue teorie. Un incentivo alla rottamazione altro non è che una maniera di pagare una parte della nuova macchina per mezzo di debito pubblico al fine di “stimolarne” la domanda: l’effetto si è visto. La domanda è aumentata sino a quando l’incentivo fiscale era disponibile ed è poi crollata drammaticamente; il famoso “moltiplicatore keynesiano” dicono sia stato intravisto da alcuni pellegrini in viaggio verso il santuario di padre Pio, sghignazzava. Il risultato medio è che non è cambiato nulla, ma è peggiorata la vita dei lavoratori del settore: prima gli straordinari, poi la cassa integrazione, infine le tasse per pagare gli incentivi. Se questa è la crescita economica che le politiche “keynesiane” producono: grazie, ma no, grazie.
Ma la spesa pubblica “keynesiana”, si dirà, non consiste in sussidiare le imprese; essa richiede trasferimenti alle famiglie con un’alta propensione al consumo. Trascuriamo il fatto che l’affermazione precedente è sia insensata che falsa. Insensata, perché non conta chi riceva formalmente il sussidio: è l’elasticità della domanda che determina se il sussidio va al consumatore o al produttore. Falsa, perché gli stimoli “keynesiani”, ovunque nel mondo, consistono regolarmente in un aumento abbastanza generalizzato della spesa pubblica con scarsissimi interventi mirati alle famiglie veramente più bisognose. Facciamo comunque finta sia vera e consideriamo un esempio nostrano: il Ministero dell’Economia ci informa che la spesa per invalidità è aumentata, negli ultimi 4 anni, del 22%. L’Italia, evidentemente, è sempre più un paese di sfigati; con una particolare concentrazione dei medesimi al Sud, ci informa il suddetto ministero. Ma non è questo il punto. Neanche a farlo apposta, 19 di quei 22 punti (pari a circa 2,5 miliardi di euro) sono stati realizzati nel 2009 rispetto al 2008: un (neanche tanto: per la social card si spese circa 1/5, se non ricordo male) piccolo stimolo fiscale all’italiana giusto nell’anno della crisi. Bene, c’è qualcuno disposto a sostenere che questo aumento tutto “keynesiano” della spesa pubblica ha avuto effetti benefici sulla crescita economica del paese? Che da qualche parte il famoso moltiplicatore ha generato posti di lavoro durevoli e produttivi? Attendo, paziente, argomenti favorevoli all’espansione di questo particolare tipo di spesa “keynesiana”.
Ma guardiamo più lontano, ossia alla notizia che la grande ripresa americana, stimolata dagli stimoli obamiani, sembra non essere tale e che quest’ultimi, in particolare, hanno generato o ben una crescita temporanea ed illusoria dell’occupazione (gli occupati a raccogliere i dati censuari) o aumenti dei prezzi in alcuni settori. Quest’ultimo caso è quello rilevante, perché è quello che vale nella maggior parte dei casi. Quando un governo aumenta del, diciamo, 10% la spesa pubblica tende a farlo in quei settori ed in quei comparti in cui è presente ed offre beni e servizi, o li acquista. I governi non acquistano case al mare ed appartamenti in città, quindi lo stimolo fiscale non ha generato, né poteva generare, posti di lavoro addizionali per i dipendenti del settore costruzioni. Idem per quelli impiegati nel settore dei beni durevoli e così via. Poiché, nel caso specifico dello stimolo obamiano, si è deciso di trasferire una parte sostanziale dello stimolo al settore sanitario è cresciuta la domanda di personale in quel settore. Poiché muratori, carpentieri, imbianchini, idraulici ed anche agenti immobiliari non si trasformano in infermieri specializzati ed otorinolaringoiatri nel giro di sei mei o un anno, sono aumentati i salari e gli stipendi in quel settore, tra un 7% ed un 12%, a seconda delle specializzazioni. Niente, male per un paese in cui i salari si stanno riducendo! L’occupazione, invece, è aumentata di molto meno e, cosa importante, non è aumentata di più di quanto ci si aspettava dovesse aumentare comunque, visto il trend di crescita del settore sanitario. Morale: lo stimolo “keynesiano” ha solo generato un trasferimento di reddito dal resto dell’economia agli imprenditori e dipendenti del settore sanitario.
Rimane il caso: opere pubbliche socialmente utili, altro cavallo di battaglia dei “keynesiani” rinnovati. Per i quali ho solo tre parole di commento: Ponte sullo Stretto. L’ha appena promesso di nuovo, nelle sue rinnovate balle agli italiani. Professor De Cecco (anche Marcello ha firmato l'appello dei 100 e se nomino sempre gli stessi poi arrivano qui i loro paladini armati di forconi): è questa la spesa anti-austerità che ci farà uscire dalla crisi? No perché siamo capaci tutti di fare grandi discorsi sulla "spesa pubblica produttiva" ma poi, quando è ora di spenderli, i soldi si spendono sulla Tirrenia!
Qui sta la morale: gli aumenti di spesa pubblica non possono risolvere nessuno dei tre fattori di crisi elencati all’inizio. Non possono creare domanda per muratori e carpentieri, ma alleviare al più i costi di transizione da un lavoro all’altro. Per questo ci sono i sussidi di disoccupazione, che con gli stimoli “keynesiani” c’entrano come i cavoli a merenda. Ancor meno possono contro il secondo fattore di crisi: solo l’innovazione tecnologica e la riduzione di costi (e quello fiscale è un grande costo, specialmente in Italia) può permettere alle imprese europee di mantenersi competitive e generare crescita. Che io sappia nessuna spesa pubblica ha mai sortito quest’effetto. I tagli invece sì: che sia per caso che l’austera Germania cresce a razzo? Ah, sì, perché la notizia del mese ovviamente è che l'austera Germania cresce come nessun altro ...
Se la politica monetaria ha fatto quanto in suo potere per evitare le conseguenze più gravi della crisi finanziaria e se ulteriori aumenti di spesa pubblica sono non solo improponibili ma potenzialmente dannosi, dobbiamo concludere che non ci rimane altro che piangere? Riponete i fazzoletti: molto è possibile fare, come lo è sempre stato. Contrariamente a ciò che il ministro del Tesoro promette da lungo tempo, la politica non può violare le leggi economiche creando ricchezza a base di ciance. Essa può, però, determinare se l’agire di tali leggi finisca per causare lo sviluppo o il declino d’un paese. La politica non può miracoli, ma è la differenza fra Argentina e Corea, del Sud.
Per capire ciò che è possibile, occorre rimuovere dai nostri occhi antichi filtri di polpa suina ed interrogarsi su quali scelte collettive abbiano determinato la situazione corrente e quali la possano modificare. Ripeto i fatti: certe cose non le vuole più nessuno, occorre farne altre; siccome i valori degli assets sono crollati siamo più poveri di quanto pensavamo; siccome le cose che facevamo o non le vuole più nessuno o altri le fanno meglio di noi, le nostre prospettive di crescita del reddito sono peggiorate, si sono atrofizzate, insomma sono pessime. Occorre, quindi, ritornare a crescere. Per crecere occorre: trovare cose da produrre che altri vogliano e produrle meglio della concorrenza. Poi occorre anche venderle, ovviamente ... Occorre, insomma, una ristrutturazione industriale non dissimile da quella che fece seguito alle due crisi petrolifere degli anni ’70. La riconversione di cui abbiamo disperato bisogno è probabilmente maggiore, sia quantitativamente che qualitativamente, di quella d’allora; essa richiede una sostanziale mobilità intersettoriale del lavoro e l’adozione di processi d’innovazione continua, sia in fabbrica che nel tessuto sociale. Questi, non altri, i processi che la politica deve permettere e favorire. Ora come ora, e da almeno tre decenni, la politica sta invece impedendo che questi cambiamenti si realizzino. Anzi, diciamocela tutta: alla politica, sia a destra che a sinistra, non gliene può fottere di meno di questi processi, non li vedono, non li capiscono. Quando han fatto tanto hanno fatto le lenzuolate di Bersani, altrimenti si sono occupati di raccattar puttane per se stessi e per gli amici russi e libici con cui fanno affari sottobanco. Questo, sino ad ora, è stato il contributo della politica alla riconversione industriale italiana.
Ma il mondo produttivo non aspetta né BS, né Voltremont, né tantomeno Bersani ed il suo fido Fassina (l'avete letto sull'Unità della settimana scorsa il proclama economico del Fassina per il PD che va in campagna elettorale? Dovranno farne lettura obbligatoria al DAMS, corso per apprendisti clowns). Processi di riconversione sono in corso in tutti i paesi del mondo, a velocità e con risultati diversi. Le politiche che contano sono quelle del lavoro e contrattuali, dell’istruzione superiore, dei servizi di (trasporto, comunicazione, finanza, legali), della ricerca scientifica, della regolazione dei mercati e dell’eliminazione dei monopoli. Tutti terreni, questi, su cui sia questo governo, che il precedente, che il precedente, che il precedente ancora ... hanno fatto quasi nulla e - quando hanno fatto qualcosa, come nel caso della recente “riforma universitaria” - hanno fatto un passo avanti e due indietro. In questo quadro la politica fiscale conta nella misura in cui riesce a ridurre sia la propria complessità che il proprio carico su imprese e lavoratori. Quella della spesa conta nella misura in cui riduce e razionalizza per davvero la spesa pubblica. Altri due terreni, questi, su cui i governi italiani prendono in giro i loro cittadini da vent’anni almeno, promettendo tagli e riduzioni che mai arrivano e che, guarda caso, sempre si materializzano nel loro opposto. Come nella recente manovra, che è riuscita ad aumentare sia la spesa che l’imposizione raccontando al popolo d’aver fatto l’opposto! I recenti avvisi “obliqui” di Barroso non si devono al caso.
Per i lettori che amano la teoria economica, il concetto chiave, qui, è quello di "vantaggio assoluto", non comparato. Per dettagli, leggete Ronald Jones, circa 1990: in un mondo in cui i fattori si muovono tutti e le condizioni naturali contano ben poco nel determinare i vantaggi comparati, questi ultimi diventano endogeni e determinati dalle policies. Se le policies sono tali da rendere i "costi fissi d'installazione" bassi, i fattori mobili (che sono quelli critici: capitale, know-how, tecnologia, lavoro altamente specializzato) arrivano e determinano/creano vantaggi comparati nelle produzioni che essi controllano. Se non arrivano rimani a produrre cacca, o pizze per i turisti.
Che l’economia tedesca abbia ripreso a crescere (trainata da produzioni di alta qualità, costi ridotti, prodotti innovativi e così via) si deve al fatto che i processi virtuosi menzionati sopra erano lì già in corso da prima dell’esplosione della crisi la quale li ha solo accelerati. Tale accelerazione è attribuibile anche ad atti concreti del governo tedesco, che includono sia le cosidette misure di austerità (ridurre il peso fiscale sulle aziende significa renderle più competitive, un fatto apparentemente incomprensibile in Italia come provano gli editoriali del Sole 24Ore), sia le misure tese a favorire la mobilità del lavoro, la cooperazione fra imprese e lavoratori nella riduzione dei costi, la ricerca produttiva, la riqualificazione del sistema universitario. Il dinamismo dell’economica tedesca non è frutto del caso ma il prodotto di scelte politiche coraggiose, compiute anni orsono e mantenute durante e dopo la crisi finanziaria. Il contrario, insomma, delle chiacchere, delle vuote promesse, delle ideologiche polemiche nostrane.
Con accenti diversi lo stesso vale sia per quanto avviene in Spagna - dove la resistenza all’adozione di politiche virtuose è stata maggiore ma dove, ora che son state adottate, iniziano a dare dei frutti – che in Francia, Inghilterra, eccetera, sino agli Stati Uniti. Quest’ultimi, per lungo tempo leader mondiali nella capacità di adottare politiche economiche che favoriscano la riconversione impresariale, la mobilità del lavoro e l’innovazione tecnologica, hanno iniziato a perdere tale leadership. Iniziata sotto la presidenza di GW Bush - a colpi di protezionismo e difesa di monopoli, spesa pubblica clientelare, abbandono dello sforzo per la difesa della concorrenza in molti settori fra cui quello finanziario – l’involuzione è continuata con l’amministrazione Obama. Questa ha non solo mantenuto svariate delle precedenti politiche economiche ma vi ha aggiunto del proprio: spesa pubblica addizionale, una riforma della sanità che rafforza, anziché debellarli, monopoli e privilegi, ed un’ulteriore giro di vite in difesa di quella particolare forma di monopolio costituita da copyright e brevetti. Sopra tutto questo aleggia, da almeno tre decenni, un lento ma inesorabile processo di dequalificazione del meccanismo di formazione della forza lavoro: il sistema scolastico USA è alla frutta e la forza lavoro "mediana", in questo paese, fa, tanto per essere onesti, pena: non sanno fare nulla. Non sorprende, quindi, che l’economia USA fatichi a completare il giro di boa ed a ripartire: la mobilità intersettoriale della forza lavoro sembra paralizzata ed il processo d’innovazione tecnologica altamente rallentato.
Gli annunci, come l’ennesimo di Bernanke, sul fatto che la FED continuerà a fare tutto il possibile per evitare una ricaduta nella recessione, sono encomiabili ma non hanno altro effetto reale che tranquillizzare per un poco i mercati mentre il lento processo di riconversione avviene. Ben Bernanke può emettere moneta sino ad acquistare l’intero sistema economico USA, ma se le aziende esistenti non recuperano produttività e non se ne creano di nuove, la ripresa stabile non verrà. QUi sarà il caso di chiarire una cosa: le imprese USA hanno, oggi come oggi, dei livelli di redditività altissimi. I margini di profitto sono ai massimi storici, letteralmente: 36,4%, il massimo dal 1947! Questo segnala che QUELLA parte della recessione è finita, che i salari sono bassi e stanno probabilmente scendendo ed i profitti alle stelle. Il problema è che queste stesse imprese non trovano conveniente espandersi e, se lo fanno, non trovano conveniente farlo con forza lavoro locale: quindi non stanno creando occupazione qui, negli USA. Questo, il problema, non la mancanza di domanda aggregata!
Lo stesso problema affronta l’economia italiana, solo svariate volte peggio. La crisi del 2008 s’è cumulata ad una stagnazione produttiva che durava da un decennio: il 3 Agosto l’ISTAT ci ha informato che la produttività del lavoro, in Italia, è oggi uguale a quella del 1997 mentre quella totale dei fattori è allo stesso livello del 1994! Mentre la politica si perde nelle proprie interne miserie, l’economia italiana lotta da sola con tale orrenda malattia; di questa lotta impari, il caso FIAT costituisce il simbolo più polemicamente visibile. Un simbolo su cui vale la pena riflettere in termini concreti e non ideologicamente populisti, come invece gli sciacalli della politica, d’un lato e dall’altro, sembrano voler fare.
Il problema non è se la FIAT abbia violato o meno, con il suo comportamento a Melfi, il dettaglio di una legge: si’, l’ha violato. L’ha violato intenzionalmente per comunicare che tale legislazione – il modello di relazioni industriali che essa sottende e che i tribunali del lavoro perpetuano – è oggi incompatibile con lo sviluppo economico nazionale. FIAT, alla pari di centinaia d’altre imprese, si ristruttura per competere nel mondo post-2008. Sia a Melfi che a Pomigliano, essa non ricatta nessuno: offre invece ai suoi dipendenti l’occasione per un rapporto di collaborazione basato su criteri altri da quelli che hanno (s)governato le relazioni industriali italiane dal primo dopoguerra ad oggi. Solo da tale nuova collaborazione può venire l’innovazione continua che costituisce la conditio sine qua non per prosperare. Rara eccezione nella storia secolare e per’altro poco encomiabile di questa impresa, il discorso FIAT è oggi un discorso di progresso e di crescita. Esso chiede alle parti interessate, ed al paese tutto, di capire che the times, they are a-changin’. It may not be for the best, aggiungo io ...
Uhm, oggi e' lunedi', ed io non ho capito bene questo passaggio. La gran parte dei profitti li stanno facendo sul mercato USA o sulle esportazioni? Ed ancora, tali profitti quanto e' stimabile (anche una stima rough) siano funzione di posizioni lontane dalla concorrenza perfetta/circonvenzione di incapaci (penso alla Microsoft/Apple, per non fare nomi)?
Prego scusare la forma espressiva dislessica
PS: ho pure scritto 'oggi e' lunedi''...il bank holiday mi ha proprio stordito
In attesa di una risposta da MB ti fornisco il mio esempio personale.
Lavoro per una multinazionale "americana" che ha il grosso delle sue attivita` di manufacturing in Asia, clienti in tutto il mondo ma soprattutto negli USA, azionisti principali negli USA e in alcuni paradisi fiscali.
Redditivita` 50% (non scherzo)
Disinvestimenti: ininterrotti da cinque anni, soprattutto in USA e in Europa.
Ma ti assicuro, non gode di alcuna posizione di privilegio monopolistico.