Correva, all’incirca, l’anno 1185: sembrerà strano, ma è possibile indicare un momento abbastanza preciso in cui datare l’arrivo dei numeri arabi in occidente. Il sistema di numerazione posizionale, che noi diamo per scontato quasi come l’alfabeto, è invece – rispetto all’alfabeto – invenzione relativamente recente. Portiamoci dunque agli ultimi anni del XII secolo. È un momento di grande abbondanza per la repubblica marinara di Pisa, il cui sviluppo commerciale si era intessuto all’appoggio conferito con la propria marina alle imprese crociate. In quegli anni le repubbliche marinare tirreniche prendono attivamente parte alle crociate, ponendo le basi per la conquista di un dominio cristiano sul Mediterraneo. All’espansione armata dei crociati si accompagna un’espansione commerciale delle repubbliche marinare italiane, le cui flotte diventano presto il vettore preferenziale per il trasporto degli eserciti e degli approvvigionamenti in Terra Santa. Dato che svolgevano un ruolo non sostituibile, le marine italiane approfittano del proprio potere negoziale. Riescono così a garantirsi ingenti guadagni dai principati cristiani in Siria e a ottenere condizioni particolarmente favorevoli per i propri traffici. Anche per questo motivo durante il periodo delle crociate le repubbliche poterono consolidare una fitta rete commerciale basata su numerose sedi e fondaci dislocati sulla maggior parte delle coste del Mediterraneo, dalla Siria all’Africa settentrionale, a Marsiglia. Questa rete commerciale era destinata a sopravvivere alle conquiste crociate, tanto da poter essere considerata il loro risultato più durevole e fondamentale [Pirenne, Storia economica e sociale del Medioevo].
Pisa della fine del XII secolo è una città che era riuscita, attraverso la propria flotta commerciale, a controllare buona parte dei traffici marittimi sul Mediterraneo e che era da tempo governata in autonomia da una fiera classe mercantile. Le navi pisane permettevano alle merci prodotte in Oriente – e trasportate dalle carovane fino alle coste orientali del Mediterraneo – di raggiungere i mercati europei risalendo la penisola italiana e attraversando le alpi per giungere, ad esempio, nelle fiere della Champagne e nei mercati delle Fiandre.
Non deve dunque sorprendere che per un mercante pisano nel 1185 fosse abbastanza comune trovarsi in Maghreb per lavoro. Troviamo che un tale Guglielmo Fibonacci si trovasse in qualità di direttore in una dogana pisana sita a Bugia (l’attuale Bejaïa, in Algeria), importante porto dell’Africa settentrionale. Guglielmo decide di farsi raggiungere dal giovane figlio Leonardo (quello della successione di Fibonacci: proprio lui) per metterlo a studiare il «calcolo indiano», vale a dire il sistema di numerazione posizionale con cifre indo-arabiche. Leonardo è un ragazzo sveglio e nonostante le difficoltà linguistiche famigliarizza abbastanza in fretta con questa novità.
Il sistema di numerazione posizionale – che noi chiamiamo ‘arabo’ proprio perché Fibonacci l’apprese da un maestro arabo (ma questo non è il solo fraintendimento linguistico di questa storia) – ha in realtà origini indiane, come Leonardo stesso riconosce chiamando le nuove cifre «figurae indorum». Dai matematici indiani il sistema posizionale era poi passato alla civiltà araba, che lo aveva perfezionato lungo una tradizione consolidata di studi matematici. Il più celebre esponente di questa matematica araba è tale al-Khwarizmi, dal cui nome deriva il nostro termine “algoritmo”. Leonardo, dicevamo, si rende molto presto conto dell’importanza degli strumenti che aveva iniziato a conoscere e negli anni successivi approfitta di ogni occasione – cioè di ogni viaggio sull’altra sponda del Mediterraneo per affari – per approfondire la sua conoscenza di questo nuovo sistema di numerazione.
Il frutto dei suoi studi è il libro pubblicato nel 1202 che passa alla storia con il titolo di Liber abaci (titolo sbagliato: nei rari passi in cui sembra fare riferimento al suo scritto più celebre, Fibonacci lo chiama “Liber de numero” o “Liber maior de numero”). Fino a quel momento in Occidente i conti erano stati fatti con l’abaco (che è uno strumento nato nell’antichità) e con i numeri romani. Per avere un’idea di che cosa questo potesse significare, provate a risolvere un calcolo come 51×18 con il sistema romano: LI×XVIII.
Un incubo: da dove cominciate a calcolare? Il numero più piccolo è rappresentato con più elementi di quello più grande e la rappresentazione stessa del numero nasconde un’operazione (è un sistema di numerazione additivo): dovete fare riscorso a uno strumento per il calcolo che rimedi all’inefficacia della notazione – come a un abaco. Inutile dire che calcoli più complessi richiedevano una fatica improba per essere risolti.
L’introduzione del sistema di numerazione posizionale ha significato per l’occidente poter aumentare di colpo e in modo significativo la propria potenza di calcolo. È un passaggio non molto diverso dall’avvento dei calcolatori elettronici, avvenuto sette secoli dopo. Attraverso i nuovi strumenti, per esempio, Fibonacci fu in grado di calcolare il valore di π con un grado di approssimazione sconosciuto alla matematica classica. Nel Liber abaci il lettore medievale poteva trovare, oltre al nuovo sistema di numerazione, anche gli algoritmi per risolvere le quattro operazioni elementari (in tutto simili alle nostre attuali tecniche per il calcolo delle operazioni “in colonna”); vi trovava dei metodi di calcolo delle radici (quadrate e cubiche), e infine un sistema di rappresentazione delle frazioni in tutto identico a quello ancora in uso (insieme al calcolo attraverso le proporzioni).
Fino a qui, si è raccontata una storia abbastanza nota agli storici della matematica, che però il più delle volte non si accorgono del fatto che Fibonacci era anche, e soprattutto, il figlio di un mercante. Molto probabilmente egli, oltre che matematico, fu anche mercante, maestro di matematica e revisore contabile. Il Liber abaci è infatti prima di tutto un testo scritto da un mercante per mercanti. Nel testo tutti i nuovi strumenti matematici sono accompagnati da una serie di esempi che mostrano inequivocabilmente l’utilità degli strumenti stessi all’interno della pratica mercantile. Per esempio, il calcolo delle proporzioni con l’utilizzo delle frazioni viene esplicitamente e ripetutamente applicato al caso del cambio della valuta. Un problema che si poneva quotidianamente al mercante medievale, costretto a muoversi in un mondo in cui quasi ogni città disponeva di una propria zecca e di una propria valuta. Dunque, prima che dagli ambienti accademici e dalla matematica colta, le importanti innovazioni introdotte da Fibonacci furono accolte e sfruttate dalla nascente classe mercantile.
È proprio in quegli anni che per la prima volta l’occidente latino inizia a comportarsi in modo radicalmente diverso rispetto al resto del mondo. All’altezza del XII secolo, l’Europa non è certo l’area del mondo più avanzata da un punto di vista sia economico sia – con la dovuta cautela – “scientifico”. Ma, con lo svilupparsi di quella che Lopez ha chiamato la “rivoluzione commerciale” [Lopez, La rivoluzione commerciale del Medioevo, 1975] del tardo medioevo, si assiste al primo take off dell’Occidente.
Una caratteristica evidente di questa fase della storia economica europea è il forte fermento istituzionale. In questi anni i mercanti – fra cui in prima linea quelli italiani – introdussero una quantità impressionante di innovazioni istituzionali. Fra questi, la tenuta dei conti in partita doppia è il risultato di un lento ma inesorabile processo di tentativi e di errori in cui le scritture contabili vengono perfezionate fino all’emergere del principio fondamentale della moderna contabilità. Forti di una tale struttura di gestione, i mercanti italiani (che ben presto diventeranno mercanti-banchieri) riuscirono a costituire delle società (“compagnie”, come le chiamavano loro, da cui l’inglese “company”) di dimensioni e poteri prima del tutto inconcepibili. Sono gli anni del “mercante italiano dell’età eroica” [Sapori, La mercatura medievale, 1972]. Alcune di queste compagnie arrivarono a controllare filiali site in tutti i principali centri del commercio d’Europa. È il caso per esempio del Banco Bardi, che arrivò a controllare filiali site in venticinque località sparse su tutto il territorio europeo fra 1310 e 1345 e a impiegare in media novantasei dipendenti all’anno: una dimensione straordinaria per un’epoca di totale assenza di mezzi di comunicazione se non la corrispondenza scritta a mano e trasportata a vela o a dorso di animale [Melis, Aspetti della vita economica medievale, 1962, p. 302].
Attraverso la scrittura in partita doppia emerse per la prima volta l’impresa impersonale, intesa come soggettività – prima soltanto contabile, poi economica, poi giuridica – separata dalla comunità dei soci con cui, per dirla con Sombart, «al posto [delle] formazioni naturali [famiglia, stirpe, etc.] subentra una unità astratta: l’azienda. [Con l’impresa impersonale] i rapporti economici furono liberati da ogni elemento personale; essi acquistarono una vita propria. I singoli atti economici non furono più riferiti ad una determinata persona, ma ad una astrazione puramente economica; i rapporti economici furono spersonalizzati, […] Soltanto nell’«azienda» assunta a vita autonoma è assicurata la continuità del processo economico rispondente ormai al principio del profitto» [Sombart, Il capitalismo moderno, 1925, pp. 243-245].
La matematica introdotta da Fibonacci fu una condizione rilevante per lo sviluppo di simili istituzioni. Una compagnia come il Banco Bardi non avrebbe potuto costituirsi senza un razionale sistema di tenuta di conto e di gestione e senza degli strumenti matematici agili e potenti, in grado di dominare la complessità intrinseca a una organizzazione diffusa su scala continentale. Parallelamente, nacquero in questi anni i primi contratti di assicurazione ed i primi veri e propri strumenti finanziari, come la lettera di cambio. Attraverso questi strumenti matematico-finanziari e attraverso un sistema di amministrazione integrato su scala continentale i mercanti-banchieri furono in grado di spostare ingenti quantità di valore senza spostare moneta fisica, facendo ricorso soltanto a doppie annotazioni contabili. In questo modo nacquero le prime forme di mercati finanziari integrati.
Dal mercante-banchiere, inoltre, questi strumenti e questo know-how passarono progressivamente all’interno della sfera statale. È infatti nell’incontro fra questi mercanti e i regnanti d’Europa che è possibile rintracciare le fondamenta di quella che sarebbe diventata la contabilità nazionale. Questo passaggio è facilmente rintracciabile per il caso della Francia di Filippo il Bello (provate a cercare chi furono Musciatto Franzesi e Scaglia Tifi), per il caso del regno di Napoli (dove fra gli agenti del banco Bardi attivo presso la corte si trovava anche il padre di Boccaccio, con il giovane figlio al seguito) e per quello, forse il più interessante, dello Stato Pontificio. Durante gli anni della cattività avignonese i papi affidarono in misura sempre crescente ai mercanti-banchieri la riscossione dei tributi provenienti da tutta la cristianità. Come è stato documentato, fra il 1316 e il 1378 l’amministrazione pontificia passa dall’amministrare internamente tali riscossioni ad appaltarle quasi interamente ai mercanti [Renouard, Les relations des Papes d’Avignon et des Compagnies commerciales et bancaires de 1316 à 1378, 1941, p. 606]. Al contrario dell’amministrazione pontificia, i mercanti erano in grado di far arrivare moneta alla corte senza doverla spostare fisicamente, abbattendo considerevolmente i rischi legati al trasporto e i costi di transazione. Il denaro liquido infatti ad Avignone non mancava, date le ingenti spese (spesso presso gli stessi mercanti) che la corte affrontava. Al tempo stesso il denaro raccolto alla periferia dai debitori verso il Papa poteva essere utilizzato per acquistare materia prima e altri prodotti che poi venivano spediti in tutta Europa, compresa naturalmente la stessa Avignone. Nel caso di una bilancia commerciale fuori equilibrio i mercanti potevano ricorrere a una sorta di «cambio triangolare, con Barcellona, Firenze o Venezia come piazze intermedie» in modo da riequilibrare il mercato europeo della moneta [De Roover, Il banco Medici dalle origini al declino, 1988, p. 281].
Era tuttavia necessario che questi strumenti venissero largamente condivisi dalla classe mercantile. Per soddisfare questa esigenza, fra il XIV e il XV secolo le principali città italiane si dotarono di scuole specializzate nell’insegnamento della matematica introdotta da Fibonacci. Sono le cosiddette “scuole d’abaco” (di nuovo, un nome sostanzialmente sbagliato: meglio sarebbe chiamarle “scuole di matematica pratica”) che si diffusero a macchia d’olio in Italia via via che la rivoluzione commerciale progrediva e arrivava a coinvolgere nuovi centri. Fra il XIV ed il XV secolo si aprirono scuole d’abaco a Verona, Firenze, Bologna, Siena, Perugia, Palermo, Arezzo, Pisa, Volterra, Colle Val d’Elsa, Lucca, Pistoia, Prato, Fucecchio, Genova, Savona, Città di Castello. Un fenomeno di tale proporzione si giustifica solo presupponendo una crescente domanda di competenze analitiche e quantitative, dunque di un’istruzione che le garantisse. È facile rendersi conto che le città menzionate sono o di area toscano-padana, o sedi di importanti vie di comunicazione e scambio in cui in quegli anni cominciavano a fiorire imprese pre-capitalistiche. Anche secondo recenti ricostruzioni di serie storiche quantitative, sembra che la popolazione italiana del XIV secolo fosse quella dotata dei più alti tassi di alfabetizzazione [Van Zanden, The Long Road to the Industrial Revolution, The European Economy in a Global Perspective, 1000–1800, 2009]. Questo è senza dubbio dovuto anche agli importanti livelli di literacy e numeracy che ormai il sistema economico richiedeva e che i mercanti-banchieri furono solleciti a sviluppare.
All’interno di ciascuna di queste storie, la matematica introdotta – o meglio tradotta – da Fibonacci in Occidente svolge un ruolo non marginale. Mentre il mondo accademico continuava a pensare la matematica come un’arte liberale di boeziana memoria – da mettere nel quadrivio accanto alla musica – i mercanti protagonisti del primo take-off economico d’Europa impiegarono le prime forme di algebra occidentale per costruire un mondo radicalmente nuovo.
Questa ricezione imponente, ma esterna alla riflessione accademica o alla cultura “alta”, ebbe conseguenze duplici. Come abbiamo visto, da un lato l’opera di Fibonacci ebbe dirompenti conseguenze economiche ed istituzionali ma, dall’altro, il fatto di trovarsi a capo di una tradizione tutta interna al mondo mercantile fece presto perdere le tracce del nome di Fibonacci. Leonardo Pisano compare ancora come un capostipite della matematica pratica all’interno dei trattati dei maestri d’abaco italiani del XV secolo, ma già a partire dal XVI secolo la memoria del nome di Fibonacci comincia a sbiadire. Complice di questo oblio è probabilmente il fatto che il nome di Fibonacci non riuscì a imporsi all’interno del dibattito accademico. Di certo, all’interno delle scuole di matematica pratica non si era soliti citare rigorosamente le fonti. È così che già durante il ’500 si perdono le tracce del nome del matematico pisano, proprio mentre gli strumenti che lui stesso aveva contribuito a introdurre si diffondevano a macchia d’olio in tutta Europa.
Questo oblio durò sostanzialmente fino al XIX secolo. Il merito di aver riportato alla luce l’opera di Fibonacci va a Baldassarre Boncompagni, che nel 1857 pubblica la prima stampa moderna del Liber abaci ed entro il 1862 pubblica le altre opere del matematico pisano. Queste pubblicazioni sono il risultato di un’imponente opera di ricerca di archivio in seguito alla quale il Boncompagni ritrovò, fra gli altri documenti, diversi testimoni del testo del Liber Abaci riuscendo a dimostrare che la prima data di pubblicazione del testo è da collocarsi al 1202.
Se ricordo bene la rivoluzione ha un punto centrale nel numero zero, assente nella simbologia romana ed indispensabile per i calcoli algebrici.
Esatto.
Aggiungo che la stessa parola 'zero', a quanto sappiamo, probabilmente è coniata dallo stesso Fibonacci, che traduce con il latino 'zephirum' il termine arbo 'sifr' (zero, nulla).
Intorno allo zero infatti nasce un modo nuovo di concepire la matematica: la matematica di Fibonacci può essere intesa come l'inizio dell'algebra occidentale. E questo perché si tratta di una matematica non astrattiva, ma algebrica, algoritmica (vedi Al-Kwarizmi).
Fibonacci non pensa al numero come a un ente che si trova all'interno delle cose: la sua non è una matematica astrattiva che rivela l'essenza del mondo per via di sottrazione dell'inessenziale (impostazione, in definitiva, comune in buona parte della matematica classica, a partire da Euclide). Con Fibonacci il numero comincia ad essere uno strumento razionale al servizio delle esigenze umane, che ha poco a che vedere con la 'natura' delle cose.