Un lungo periodo di consenso superficialmente denominato "neo-liberista" sta volgendo al termine. Si è trattato di un’ambigua egemonia culturale: in essa sono state incluse cose, come la difesa dei diritti di proprietà (ovvero i monopoli) intellettuali o il lasciar fare all’autoregolamentazione dei gruppi d’interesse, che poco hanno a che fare con il liberismo classico senza “nei”. Sfortunatamente, non è tanto la fine di un’inerzia intellettuale accademica ma una difficile crisi economica che spazza via questa confusa costruzione ideologica che spesso aveva identificato negli USA la sua terra promessa mentre questi portavano avanti politiche (incoscientemente e inconsciamente) keynesiane motivate, fra l’altro, dalla guerra e da un traballante consenso politico.
Ora, comunque, c'è la crisi e le politiche anti-crisi dovrebbero sfruttare le nuove opportunità che le economie contemporanee offrono a misure di tipo keynesiano. Esse dovrebbero accettare che non tutte le buche che si scavano sono egualmente utili per stimolare l’economia e che qualcuna di esse può, talvolta, diventare una voragine che forma un buco nero da cui può diventare difficile riemergere. La “policy” proposta nei paragrafi seguenti non pretende di essere l’unica e nemmeno la più importante per affrontare la crisi. Essa vorrebbe, invece, costituire un esempio utile per mostrare che una politica di sostegno alla domanda aggregata può essere più efficace, e in senso keynesiano supermoltiplicativa, se tiene anche conto delle dinamiche microeconomiche di una società contemporanea.
Le moderne economie ad alta intensità di conoscenza sono ormai anche caratterizzate da una quota senza precedenti di conoscenza posseduta privatamente (o, in altre parole, di diritti di monopolio in forma di brevetti, copyright ecc.). Mentre le istituzioni globali (il WTO e i relativi accordi TRIPs) hanno reso più redditizia la proprietà intellettuale privata, nessuna istituzione globale ha contribuito ad aumentare la convenienza della proprietà intellettuale pubblica. Le istituzioni correnti (e ancor più quelle assenti) dell’economia globale hanno reso conveniente un eccesso di privatizzazione e di monopolizzazione dell’economia attraverso una rete intensiva di diritti di proprietà intellettuale (Intellectual Property Rights, IPR). Le lobby nazionali e internazionali non hanno poi mancato di sommare a questi perversi incentivi le loro motivazioni intrinseche, da sempre orientate ad acquisire posizioni di monopolio.
I diritti di proprietà intellettuale possono essere causa di stagnazione economica. I prezzi di monopolio restringono la produzione. La corsa ad acquisire monopoli può inizialmente stimolare gli investimenti ma, dopo un po’, lo stimolo è progressivamente compensato dalla paura che l’uso di nuova conoscenza possa essere bloccato da monopoli esistenti su conoscenze complementari pregresse (la cosiddetta tragedia degli anticommons). Inoltre, gli IPR hanno effetti asimmetrici su paesi ricchi e paesi poveri. Mentre i paesi in via di sviluppo esportano i loro beni in condizioni concorrenziali, molte imprese dei paesi del primo mondo possono vendere beni ad alto contenuto di conoscenza sotto lo scudo protettivo degli IPR. Nonostante siano presentati come un ingrediente necessario per il libero commercio, gli IPR offrono una protezione più forte della più elevata tariffa protezionistica. Garantiscono una protezione totale non solo nel mercato domestico ma anche in ogni altro mercato nel mondo. Analogamente a tariffe doganali e altre forme di protezionismo, possono solo contribuire a peggiorare la crisi economica.
Anche se la crisi è partita nel settore finanziario, è probabile che le istituzioni in essere nella produzione della conoscenza possano contribuire a generare una stagnazione prolungata. Allo stesso tempo, le economie ad alta intensità di conoscenza offrono grandi opportunità per politiche keynesiane efficaci. Invece di essere utilizzate per nazionalizzare in modo inefficiente le imprese che producono beni privati o foraggiare senza limiti quelli che sono stati i principali responsabili dell’accaduto (che non stanno peraltro restituendo in termini di aumentata liquidità il foraggio ricevuto), le politiche keynesiane potrebbero essere usate per diminuire il grado di monopolizzazione della conoscenza e trasferire in modo efficiente la proprietà intellettuale dalla sfera privata a quella pubblica. Il WTO, che ha contribuito a rendere più conveniente la proprietà intellettuale privata, dovrebbe essere bilanciato dall’istituzione di un ricco e autorevole WRO (World Research Organization) che renda possibile una proprietà intellettuale pubblica laddove essa può meglio contribuire allo sviluppo globale. E’ giunto il momento di accettare anche a livello politico che la conoscenza è un bene “non-rivale” o, meglio “anti-rivale”, che dovrebbe essere trattato come la più preziosa e specifica risorsa collettiva dell’umanità. Per usare la sempre vivida immagine di Jefferson, la conoscenza è come la fiamma di una candela: accendere un’altra candela non diminuisce la fiamma delle candele già accese. Al contrario, consentire ad altri di contribuire al fuoco della conoscenza ha l’effetto di accrescere la luminosità di ogni singola candela!
Le misure anti-crisi dovrebbero includere il finanziamento delle infrastrutture pubbliche di ricerca. Questo finanziamento dovrebbe essere coordinato a livello sovranazionale per evitare problemi di free-riding tra paesi, che al momento stanno restringendo lo sviluppo degli investimenti in ricerca pubblica. Inoltre, cosa ancora più importante nella crisi presente, il finanziamento può prendere immediatamente la forma di un’acquisizione pubblica di diritti di proprietà intellettuale posseduti dalle imprese private e fungere sia da sostegno alla domanda sia da stimolo a un aumento di efficienza dei mercati. L’effetto di queste politiche andrebbe ben oltre quanto ci si può attendere da molte delle altre misure proposte per fare fronte alla crisi.
In primo luogo, l’acquisizione proposta non comporta la nazionalizzazione dell’impresa o l’uso di denaro dei contribuenti senza contropartita. Al contrario, l’IPR è pagato a un prezzo corrispondente al suo valore privato ma viene trasferito all’arena pubblica dove ha un valore molto maggiore e può ridurre i costi di produzione di molti produttori. Solo un monopolista in grado di discriminare perfettamente fra i consumatori (che è ovviamente solo un’utile astrazione teorica) potrebbe ottenere dalla sua proprietà intellettuale un beneficio sociale pari a quello che si otterrebbe quando essa fosse messa gratuitamente a disposizione di tutti i concorrenti. Inoltre, i diritti di proprietà intellettuale sono al momento sottovalutati (insieme ai valori azionari delle imprese che li detengono) e questo rende possibile pattuire dei prezzi molto vantaggiosi sia per il venditore monopolista sia per la comunità che acquista il diritto di proprietà intellettuale.
In secondo luogo, si garantisce sostegno finanziario a quelle imprese che si sono mostrate più innovative. Un forte stimolo per nuovi investimenti viene, così, dato su due fronti alle imprese che vendono alla comunità i loro diritti monopolistici. Da una parte tali imprese ricevono nuovi fondi, dall’altra, avendo venduto loro diritti di proprietà intellettuale, affrontano una competizione nettamente più dura. Pertanto, esse avranno sia i mezzi finanziari sia un forte incentivo, dovuto alla pressione della concorrenza, a investire in innovazione stimolando così la domanda aggregata. Tutta la catena del processo innovativo sarebbe così accelerata con conseguenze benefiche per la crescita dell’economia e l’efficienza delle singole imprese. Per esempio, nel settore farmaceutico, le ditte alla frontiera del processo innovativo metterebbero subito in produzione dei nuovi prodotti, mentre altri produttori potrebbero iniziare a produrre dei farmaci divenuti generici dopo l’acquisto pubblico dei diritti di proprietà intellettuale.
In terzo luogo, un prezzo di monopolio viene sostituito da un più basso prezzo concorrenziale. Anche questo ha un effetto positivo sulla domanda aggregata, non inferiore a quello che si avrebbe con altri provvedimenti tesi ad abbassare i costi di produzione come, per esempio, degli sgravi fiscali.
Infine, viene alleviato il problema degli “anti-commons” di cui si diceva; ciascuna impresa può ora investire in nuova conoscenza con la consapevolezza che è meno probabile che la conoscenza pregressa (complementare e necessaria per beneficiare dell’innovazione) sia posseduta e monopolizzata da altre imprese. La politica suggerita diminuisce il costo del rischio delle transazioni future necessarie a utilizzare i frutti dell’attività innovativa. Dunque, se da una parte dei fondi vengono immediatamente acquisiti dalle imprese che sono state più innovative in passato (che spesso appartengono ai paesi più ricchi), dall’altra l’aumento della conoscenza liberamente disponibile per tutti ha effetti diffusi e contribuisce allo sviluppo complessivo dell’economia mondiale. Per di più, in tutti i paesi indipendentemente dal loro grado di sviluppo, gli imprenditori dovrebbero superare un numero minore di barriere monopolistico-proprietarie per fare investimenti innovativi preziosi per la stagnante economia mondiale.
Gli effetti moltiplicativi che abbiamo indicato vanno ben oltre quelli tradizionalmente associati alle canoniche politiche keynesiane; gli effetti totali sono più forti sia sul lato domanda che in termini di aumento di efficienza dell’economia. In un’economia ad alta intensità di conoscenza é possibile far funzionare un “super-moltiplicatore” degli investimenti pubblici. Ai tradizionali effetti moltiplicativi che hanno questi investimenti in tempi di depressione economica si potrebbero sommare quelli che ha la conoscenza umana quando il suo uso non é artificialmente limitato dal monopolio intellettuale.
Interessante, e nel mio piccolo mi sento d'accordo. Però faccio mia l'obiezione di Stallman: parlando di proprietà intellettuale si tende a fare un calderone che contiene cose molto diverse come copyright, brevetti, trademark e non so se c'è altro. In questo caso mi sembra che il bersaglio siano i copyright e i brevetti, ma forse sarebbe meglio esplicitarlo.
D'accordo con il punto e anche con quanto dice Stallman che il termine stesso proprietà intellettuale é in qualche misura fuorviante e ideologico. Su tutto ciò rimando al bel libro di Boldrin e Levine Against Intellectual Monopoly ( per free download: http://www.knowprose.com/node/18360 )