Introduzione
In Italia le cose non sono mai semplici, quindi anche la vendita del pacchetto Eni non è la semplice vendita del pacchetto Eni. I dettagli dell'operazione non sono al momento ancora stati definiti, ma essenzialmente Eni dovrebbe anzitutto comprare parte delle sue azioni (quella che si chiama una operazione di buyback) per poi annullarle. Questa operazione accrescerebbe la quota di proprietà di chi le azioni non le vende, tra cui Tesoro e Cassa Depositi e Prestiti. Il Sole 24 ore stima in 6,5 miliardi il costo dell'acquisizione di azioni proprie (ossia l'ammontare che Eni userà per ricomprare le azioni dagli azionisti), soldi che dovrebbero venire, per quel che è dato capire, da maggior indebitamento e dalla vendita della partecipazione in Severnergia. Una volta effettuata l'operazione il Tesoro dovrebbe quindi cedere una quota intorno al 3%, con modalità ancora non note.
Le operazioni di questo tipo provocano di solito la reazione scomposta di due categorie di persone. Da un lato i dirigisti reazionari xenofobi, con radici culturali ben affondate nel ventennio, che urlano alla nazione depredata, tipicamente mediante qualche losca macchinazione straniera; il megafono di questa posizione è un quotidiano controllato da un pregiudicato. Dall'altro ci sono i socialisti d'antan, quelli che proprio non riescono nemmeno a capire perché la proprietà pubblica di un'azienda potrebbe essere in qualche modo problematica. È divertente per esempio rileggere oggi le dichiarazioni di qualche mese fa di Francesco Boccia, che baldanzoso ci comunicava ''per fortuna, non esiste nessuna necessità di vendere i gioielli di famiglia che sono peraltro fondamentali per il rilancio delle politiche industriali'' (possibile che non ci sia un qualche giornalista di buona volontà che vada a stanare Boccia e gli chieda cosa pensa ora?). Poi, siccome in Italia non ci facciamo mancare mai nulla, ultimamente va per la maggiore un signore che riesce a essere al tempo stesso un reazionario xenofobo e un socialista d'antan. Ora, discutere con questi signori non serve a molto. Il pregiudicato e il comico cercan voti, e diranno tutto quello che pensano li faccia ottenere. E Boccia, poverino ... cosa vuoi stare a maramaldeggiare?
C'è però un argomento che sembra apparentemente convincente e che è bene sviscerare, perché rappresenta una fallacia in cui è facile cadere, e che più o meno funziona così: l'Eni distribuisce un dividendo del 5,9%, mentre il costo medio del debito pubblico è del 4,5%. Quindi, se vendiamo Eni per due miliardi rinunciamo a incassare circa 120 milioni l'anno, mentre con due miliardi di debito in meno evitiamo di pagare 90 milioni l'anno. Quindi, il deficit aumenta di 30 milioni l'anno, e questo non va bene. Il ragionamento è molto diffuso, e l'ultimo esempio viene da un commentatore che stimiamo molto come Mario Seminerio. Se anche Mario fa questo errore, ci siamo detti, è bene discutere in profondità della cosa.
L'errore logico principale
L'ipotesi implicita sembra essere che i rendimenti delle attività finanziaria sono esogeni: Eni rende il 5,9%, i titoli decennali del Tesoro italiano rendono il 4,1%, mentre quelli del Tesoro portoghese rendono pure loro il 5,9%. Il rendimento di Eni deriva dal flusso di dividendi pagati dall'azienda e dal prezzo delle azioni. Ma se vendendo un pezzo di Eni il flusso di dividendi aumentasse? Alla fine, quanto può pagare Eni di dividendo deve dipendere da come Eni è gestita. È chiaro che se la gestione di Eni migliorasse con una minore partecipazione statale, si potrebbe vendere la quota dello Stato a un prezzo più alto. Giusto per avere un'idea di cosa intendono i nostri politici per ''politica industriale'', e di perché una fuoriuscita dello Stato dall'Eni ne potrebbe migliorare le sorti, riportiamo questo brano dal Sole 24 ore del 6 febbraio 2009, quando Berlusconi regnava incontrastato e Tremonti era intento a massimizzare i danni fatti al paese:
In piena campagna per il rinnovo del Presidente della Regione Sardegna, mentre è in corso uno scontro elettorale tra il governatore uscente, Renato Soru, e il candidato del centro-destra, la Presidenza del Consiglio ha aavnzato al capo dell'Eni le seguenti richieste: 1) che tutto il personale degli impianti chimici della Sardegna sia richiamato al lavoro a partire dal 1° febbraio destinando i dipendenti degli impianti che dovessero subire una fermata tecnica nei reparti produttivi dove esistono carenze di maestranze; 2) che deve essere mantenuto in piena efficienza l’impianto di cumene e fenolo di Portotorres con un piano adeguato di manutenzioni ordinarie e straordinarie trattandosi di un arresto solo congiunturale e non strutturale; 3) che sempre dal 1° febbraio deve essere riavviato l’impianto di cracking di Porto Torres consentendo la ripresa della produzione di etilene necessario per la ripresa produttiva degli impianti di cloro soda di Macchiareddu e il conseguente approvvigionamento dell’impianto di Porto Marghera; 4) che deve essere avviato immediatamente il tavolo nazionale della chimica, come già deciso dal ministro Claudio Scajola, per definire tutto il monitoraggio e la strategia della chimica sarda nel contesto nazionale ed europeo.
Come tutti ricordano il candidato del centrodestra vinse l'elezione.
La risposta naturale a questa critica è che una cessione del 3% non cambierebbe la gestione della società e quindi il flusso dei dividendi. Questo è vero, e d'altra parte è esattamente per continuare a mantenere il controllo dello Stato che il Tesoro si limita a vendere il 3%, e non tocca la quota ben più corposa detenuta dalla Cassa Depositi e Prestiti. Ma se questa è l'obiezione naturalmente bisognerebbe aumentare, non diminuire, la quota da vendere. Una Eni sottratta ai deliri bipartisan di politica industriale eviterebbe scelte antieconomiche fatte per compiacere il presidente del consiglio di turno e sarebbe probabilmente in grado di pagare di più.
Ma ignoriamo pure la questione del controllo e del possibile cambiamento dei prezzi e dei rendimenti. Poniamoci la banale domanda: ma perché Eni rende il 5,9% e il debito pubblico italiano rende il 4,5%? A quale risparmiatore può mai venire in mente di comprare un BTP decennale quando può comprare azioni Eni che producono un dividend yield più alto? Oppure portiamo l'osservazione alla sua ovvia conseguenza logica, come osservano Bella, Di Sanzo e Mauro: se veramente è una cattiva idea vendere Eni, allora deve essere una buona idea comprare. Non solo Eni, a dir la verità, ma qualunque attività che renda più di quello che paghiamo sul debito. Per esempio, visto che i titoli decennali portoghesi pagano il 5,9% mentre i nostri BTP pagano ''solo'' il 4,1%, potremmo emettere un bel 20 miliardi di BTP e comprare titoli portoghesi di uguale durata. L'operazione permette di lucrare la differenza dell'1,8%, che su 20 miliardi significa un simpatico flusso di cassa annuale di 360 milioni di euro. Il tutto con una posizione patrimoniale intatta: 20 miliardi di debito in più ma 20 miliardi di attività in più, con esatta maturità. Tra 10 anni i portoghesi ci ridanno i soldi e noi li restituiamo a chi ha prestato i soldi a noi, nessun problema. E di occasioni del genere se ne trovano tante. Troviamo qualcos'altro che paga il 5,9%, al posto di 20 miliardi di debito emettiamone 200, anzi 2.000, anzi di più ancora ... abbiamo finalmente trovato la formula per portare in attivo il bilancio dello Stato senza fare alcun sacrificio!!
Sembra troppo bello per essere vero. Infatti non lo è, e per capire perché non lo è occorre ritornare alla domanda originale: ma perché il rendimento dei titoli decennali portoghesi è del 5,9% mentre quello dei BTP italiani è del 4,1%? E perché il dividend yield di Eni è il 5,9%? E poi, sti tedeschi, come cavolo fanno a indebitarsi al 1,7%? Certo, se volete andare dietro al comico e al pregiudicato potete sempre mettervi a raccontare storielle sulla culona cattiva e sui diabolici membri del bilderbegghe che controllano la finanza del mondo intero e ci odiano (e, a quanto pare, odiano ancor di più i portoghesi). Ma se invece volete provare a vedere quello che ci insegna la finanza moderna, con tutti i suoi problemi, allora la risposta è semplice e lineare: rendimenti superiori sono determinati da maggior rischio così come percepito dagli investitori. Al di là dei dettagli delle varie teorie, delle possibili anomalie, degli scostamenti temporanei, delle difficoltà di individuare la corretta definizione di rischio e di tutto quello che volete, questo messaggio centrale è risultato essere valido sia dal punto di vista teorico sia dal punto di vista empirico. Eni paga un dividend yield del 5,9% perché è percepita come più rischiosa del debito sovrano italiano, e se Eni (o il tesoro portoghese) pagasse un rendimento inferiore probabilmente avrebbe difficoltà a raccogliere capitali. Il fatto che una parte della proprietà sia pubblica e che quella parte riceva un rendimento del 5,9% non è in sé cosa buona. Significa semplicemente che lo Stato si sta indebitando per poi giocare d'azzardo in borsa, una strategia che ci sentiremmo di sconsigliare all'investitore medio (che lo Stato dovrebbe rappresentare).
Conclusione: non ha nessun senso confrontare il rendimento di attività con differenti livelli di rischio. Ci sono al mondo investimenti con rendimenti attesi del 30-40%. Dovremmo suggerire al governo di indebitarsi ancora di più per mettere soldi nella start-up dell'amico nostro che sta cercando di sviluppare un motore di ricerca migliore di quello di Google? L'amico nostro si da al whisky dopo le 3 del pomeriggio e dice di essere un ingegnere mentre invece è solo un geometra, ma è sveglio, simpatico e secondo noi ha potenziale reale. Se 5,9%-4,5%=1,4% è un affare, allora il finanziamento del nostro amico è un superaffare, no? Questa del rapporto tra i rendimenti e il rischio non è semplicemente una "teoria" o un risultato importante della finanza moderna, ... è la finanza moderna! Per un economista finanziario confrontare i rendimenti medi, suggerendo di detenere l'attività che ne paga di più elevati, è come per un fisico dire che il sole gira intorno alla terra. Sappiamo che dicendo questo ci facciamo altri nemici, ma è proprio così.
Alcune osservazioni secondarie
Come abbiamo detto, comparazioni di rendimenti tra attività con un differente livello di rischio non si dovrebbero fare. Ma se proprio si vogliono fare (anche se non si dovrebbe) allora ci sentiamo di offrire un paio di suggerimenti.
Primo, il ruolo delle imposte. Non siamo esperti di diritto tributario per cui non vorremmo dire inesattezze, ma da quel che capiamo dal sito dell'Eni il dividendo del 5,9% è al lordo delle tasse. La società si premura di ricordarci che ''al dividendo non compete alcun credito d'imposta e, a seconda dei percettori, è soggetto alla fonte a titolo di imposta o concorre in misura parziale alla formazione del reddito imponibile''. Quando l'investitore è lo Stato va bene guardare al rendimento lordo; le tasse pagate infatti finiscono comunque al Tesoro. Ma se lo Stato vende la sua quota, allora non rinuncia a tutto il dividendo ma solo alla parte che resta dopo le tasse. Se, per esempio, chi riceve il dividendo paga in media il 20% di imposte allora quei soldi continuano ad andare allo Stato anche una volta vendute le quote di sua proprietà. Per cui, in tale ipotesi, il dividendo cui si rinuncia non è il 5,9% ma l'80% del 5,9%, ossia 4,72%. Lasciamo ad altri che capiscono di diritto tributario più di noi il compito di fare i calcoli corretti, se proprio vogliono, ma a occhio ci pare che questo riduca parecchio la convenienza dell'investimento in Eni per lo Stato, anche ignorando il maggiore livello di rischio (cosa che, non ci stancheremo di dirlo, non si dovrebbe fare).
Secondo, la durata dell'investimento. Quando abbiamo fatto la proposta balenga di acquisto del debito portoghese, ci siamo almeno premurati di considerare strumenti con identica data di scadenza. Se si vogliono comparare i rendimenti di strumenti finanziari di durata diversa, qualche aggiustamento è necessario. La cosa è rilevante perché la vita media del debito pubblico è attualmente di 6,9 anni, mentre la vita media delle azioni viene solitamente considerata più lunga. Anche se non sempre, di solito attivi con più lunga scadenza hanno rendimenti più alti. Non abbiamo voglia di metterci a fare calcoli astrusi per comparare in modo appropriato il rendimento di un'azione come Eni con un portafoglio di titoli di Stato che riproduce la composizione del debito (dato che, oltretutto, non si dovrebbe fare), ma facciamo notare questo semplice fatto: se ci possiamo permettere di ignorare la durata, allora lo Stato italiano dovrebbe immediatamente smettere di emettere titoli decennali ed emettere esclusivamente titoli a breve scadenza, sui quali paga un interesse considerevolmente inferiore. In effetti, se ci mettessimo a emettere tonnellate di titoli trimestrali e usassimo i soldi così raccolti per comprare tutti i titoli a più lunga scadenza, accorciando drammaticamente la vita media del debito, il costo medio del nostro debito verrebbe abbattuto in modo radicale. Caspita, in un solo post non una ma due soluzioni geniali e completamente indolori ai problemi di bilancio pubblico!! Anche questo troppo bello per essere vero? Esatto, infatti è una proposta assurda, come assurda era la proposta di indebitarsi per comprare titoli portoghesi. Ma, di nuovo, riflettere sul perché la proposta è assurda aiuta a capire parecchie cose.
Chiudiamo qui, purtroppo convinti che questo nostro sforzo servirà a poco. E giusto per divertimento, chiediamo ai lettori di segnalarci nei commenti chi sarà il prossimo a dire che ''vendere l'Eni non conviene perché si perde il dividendo''. Siamo sicuri che non dovremo aspettare troppo.
non mi par vero di poter criticare i miei due commentatori preferiti (tranquilli, lo dico a tutti :-) )
1) a me non garba che si mettano a confronto il rendimento di una obbligazione, cioè il costo medio del debito sovrano italiano, col dividendo atteso di eni. l'azione eni non ha durata, cioè non viene mai rimborsata e non contiene alcuna promessa riguardo i dividendi, mentre le cedole sono promesse eccome! è il motivo per cui la volatilità del prezzo delle azioni è parecchio superiore essendo il dividendo percentuale molto incerto anche a un anno (si dovrebbe poi guardare all'utile per azione, non al dividendo che sconta altre logiche). casomai il confronto si potrebbe fare col rendimento del debito eni di pari durata , che è molto più basso. queste cose lo so che le sapete e nelle note avete cercato di aggiustarle, ma intanto siete partiti col piede sbagliato.
2) ma siamo poi sicuri che l'elevato dividendo di eni sia cosa sana per la collettività? cioè frutto di buona gestione e non di posizione quasi-monopolistica? a mio avviso è questa la questione centrale, anzi centralissima se si considerano le immediate analogie. sto pensando alle società di servizi partecipate da comuni, province, regioni: quando si chiede loro di mollare l'osso per favorire la concorrenza nel settore, con vantaggio per tutti, si risponde che verrebbero meno grassi dividendi che la mano pubblica poi spende con la sagacia che conosciamo.
qua non ci si può permettere di sbagliare, le privatizzazioni si fanno per aumentare l'efficienza, indipendentemente dallo stato patrimoniale. anche il fondo sovrano dell'emiro dovrebbe farle, e lì certo non devono traquillizzare i creditori.
Le privatizzazioni e le liberalizzazioni non dovrebbero servire per fare cassa. Servono per permettere maggiore concorrenza, maggiore produttività e quindi maggiore crescita.
Ma questo i vari giornalai non lo sanno (non mi riferisco a Seminerio, che seguo spesso), e così appunto i nostri cari rappresentanti continuano indisturbati a perpetrare le solite nefandezze economiche.
Tutta la stampa confronta il 6% divident yield di Eni con 4.5 return dei bond. Questo e' il punto. Forse avremmo dovuto mettere in evidenza che c'e' un altro errore....la confusione tra dividend yield e retur. Ma noi partiamo dal presupposto che chi fa il confronto consideri il dividend yield una forma di return, visto che lo confronta coi return. E questa ci pare la stupidaggine piu' grossa
è esattamente quello che dicono gli autori. Non puoi confrontare due securities con profili di rischio diversi - e la volatilità è IL rischio. Se ho capito (forse) la fonte della tua confusione, è che tu vuoi una misura del rischio di ENI che sia comparabile con quello dell'Italia. Il punto è che per prezzare il titolo non ti serve il rischio di ENI, ma il rischio implicito in quella particolare security. Che sarà probabilmente maggiore di quello del BTP Italiano.
Always blame the coauthor, è il mio motto :-)
Guido, in realtà siamo assolutamente d'accordo con te su entrambi i punti. Il dividend yield è ovviamente solo una parte della storia. In una versione iniziale avevamo pure messo il grafico del prezzo dell'azione, ma poi lo abbiamo tolto perché il pezzo diventava troppo lungo. Eccolo qua.
È chiaro che chi investe in Eni non si prende solo il rischio sul dividendo. Ci siamo concentrati su quello per rispondere alle posizioni apparse sulla stampa e nella blogosfera, che proprio al dividend yield (lordo) guardavano. Quello che dici tu lo abbiamo detto nella parte sulla durata dell'investimento, ma ci rendiamo conto che siamo stati troppo obliqui e poco chiari. Comunque, il punto principale che volevamo fare è che non si compara il rendimento medio di attività con rischio diverso suggerendo di comprare quelle con rendimento più alto. Poi, in più, il dividend yield è una misura lacunosa del rendimento ma quello ci pareva un punto minore.
Siamo anche perfettamente d'accordo sul fatto che è sbagliato massimizzare il valore degli assets pubblici mediante monopolizzazione, per poi magari vendere a prezzi più alti (in parte questo è stato fatto con Alitalia e la monopolizzazione di Milano-Roma, anche se ''prezzi più alti'' qua va letto con ''perdite più basse''). Per esempio, sarebbe assurdo privatizzare Trenitalia senza prima fare un grosso sforzo di liberalizzazione del trasporto ferroviario.