Gli ultimi dati sul terzo trimestre del 2008 e le previsioni più recenti da parte dei vari organismi internazionali (IMF, OECD, Commissione Europea) concordano nell’indicare rischi generalizzati di recessione per il 2009. Queste previsioni, che in genere includono un aggravamento della situazione nel quarto trimestre del 2008, suggeriscono per i vari paesi contrazioni del livello di attività intorno ai 4 trimestri di durata: ciò costituisce senza dubbio un motivo di preoccupazione. La preoccupazione potrebbe però trasformarsi in un motivo di sollievo - trattandosi di contrazioni abbastanza modeste e non troppo prolungate - SE l’economia mondiale si riprendesse nella seconda parte del 2009. Gli Stati Uniti dovrebbero avere – come l’Italia e la Germania - una contrazione vicina ma forse inferiore allo 1% annuo, un dato che dovrebbe aggravarsi per l’Inghilterra e ridursi per la EU nel suo insieme. Nel 2010 si ipotizza, infine, una ripresa generale ma è chiaro che questo orizzonte è più difficile da prevedere sulla base dei dati attuali.
Limitandoci, quindi, alla fine dell’anno ed al ciclo ipotizzato per il 2009, ciò che conta è che tali previsioni siano assai meno catastrofiche di quanto ipotizzato da commentatori/agitatori che hanno più volte richiamato la crisi del ’29, generando esagerazioni e timori che sono essi stessi un fattore di instabilità. Il fatto nuovo - ma anche risaputo - è che per la prima volta tutte e tre le aree fondamentali dell’economia mondiale (Stati Uniti, Europa, Asia) affrontano nello stesso tempo una crisi che è stata innescata da fattori finanziari che sembrano essere però in graduale fase di assorbimento. Data la scala e l’estensione dello shock, questi fattori appaiono di fatto meno dannosi per l’economia reale di quanto temuto o previsto da vari osservatori.
1. Stati Uniti.
Anche senza essere esperti della grande depressione (io non lo sono), la novità della rapida trasmissione della crisi finanziaria tra aree diverse non sembra giustificare paragoni storicamente sensati tra allora ed oggi: l’economia degli Stati Uniti dovrebbe crescere quest’anno intorno allo 1.5% per rallentare come abbiamo visto nel 2009. Quale che sia la fondatezza di tali previsioni, la crescita USA nel 2008 è circa uguale al potenziale dell’economia europea. Naturalmente, il tasso di crescita degli USA riflette solo la prima parte dell’anno che è stata migliore di quanto previsto, tra l’altro, nel rapporto Oecd di Giugno: il terzo trimestre del 2008 è andato male sopratutto a causa della contrazione dei consumi durevoli, anche se meno di quanto previsto da molti analisti.
In altre parole: sebbene vi sia una pletora di indicatori negativi per il settore manifatturiero (che però pesa assai poco, oramai, nell’economia USA) negli organismi internazionali sembra prevalere l’idea che la recessione USA dovrebbe essere debellata nella seconda parte del 2009. Forse si sbagliano, ma i numeri sono quelli.
Questa interpretazione mi convince perché il maggiore canale di trasmissione della débacle finanziaria è stato il deprezzamento della ricchezza delle famiglie, soprattutto per la parte legata alla casa: la percentuale di famiglie che possiede azioni e le cui azioni non sono relegate in un fondo pensione è non superiore ad 1/3, probabilmente vicina ad 1/4. La contrazione dei consumi è stata elevata ma - a fronte dello shock subito - sembra confermare la nozione che l’elasticità del consumo alla ricchezza sia abbastanza bassa, altrimenti gli effetti sui consumi e poi sul pil sarebbero più gravi di quanto emerge dall’anno in corso, anche scontando un peggioramento nel quarto trimestre.
Il mio relativo ottimismo sta, dunque, non solo nei dati che sono negativi ma non disperati ma è confortato - tra le altre cose - da un intervento alla Georgetown University di Donald Kohn della Fed e da un paper della Fed di Minneapolis di Chari, Christiano e Kehoe su alcune stranezze nei dati finanziari. E’, infine, confortato anche dalla mia convinzione che la contrazione della ricchezza delle famiglie dovrebbe stimolare l’offerta di lavoro, compensando in tutto o in parte gli effetti negativi sul consumo. E’ anche vero, però, che in mancanza di ulteriori stimoli sulla domanda, l’incremento dell’offerta di lavoro potrebbe tradursi almeno in parte in un aumento della disoccupazione che dovrebbe essere però di natura temporanea e, dunque, compatibile con il profilo ciclico generalmente previsto per il 2009.
Considerando sia il ruolo degli stabilizzatori automatici che il basso costo del capitale, del lavoro e del petrolio, come anche le possibili iniezioni temporanee di spesa pubblica, mi sembra plausibile ipotizzare una ripresa dell’economia americana nella seconda parte del 2009 anche senza affidarsi al graduale aggiustamento delle difficoltà finanziarie che è implicito nelle previsioni citate.
Quanto ciò sia dovuto al miglioramento delle politiche economiche dagli anni ‘30 ad oggi od anche alla migliore conoscenza dei cicli economici è difficile da stabilire ma penso che entrambi i fattori – compresa la loro interazione - un peso l’abbiano avuto nel riconoscere i rischi di una recessione sincronizzata e la necessità di farvi fronte con il coordinamento, per quanto imperfetto e tardivo, delle politiche che è implicito nel passaggio dal G-8 al G-20 di questi giorni.
2. Italia
L’importanza delle politiche fiscali vale ovviamente anche per l’Italia in cui vi sono però i ben noti limiti del debito pubblico e della eccessiva intermediazione pubblica. Questo stato di cose rende difficile l’adozione di stimoli transitori che rischiano di diventare permanenti, indebolendo la percezione della necessità delle riforme. I fattori strutturali essendo dominanti, vi è il rischio che la ripresa possa fare affidamento solo sugli stabilizzatori automatici e sul graduale assestamento della domanda mondiale per rilanciare le esportazioni.
Un modo per collegare gli stimoli di breve periodo alla necessità di elevare un potenziale di crescita che a stento raggiunge lo 1% , potrebbe consistere nel ridurre il più rapidamente possibile la tassazione sul lavoro che riguarda tanto le imposte sul reddito che i contributi sociali. Questi ultimi entrano in modo rilevante nel costo del lavoro, senza per questo contribuire alla capacità di spesa di stipendi e salari netti che sono circa la metà del costo del lavoro. L’effetto di una riduzione della labor tax, così definita, sarebbe non solo sui costi ma anche sull’offerta di lavoro che è ancora troppo bassa per le donne e, più ancora, nel Sud. Non vedo francamente altro modo di accrescere il potenziale di crescita e di ridurre le differenze territoriali cui nessuno sembra prestare attenzione.
Tutto ciò richiede però un ridimensionamento della spesa pubblica che è notoriamente più facile a dirsi che a farsi, a maggior ragione quando vi è la necessità congiunturale di agire sulla domanda più di quanto non facciano gli stabilizzatori automatici della politica fiscale. Anche per questo credo però che ridurre la spesa pubblica nella sua componente di consumo non abbia un ruolo positivo: data la difficoltà di ridurre gli occupati, si finisce con l’accompagnare gli investimenti pubblici - che sono in genere una voce residua - con la contrazione dei consumi intermedi che rendono alla fine meno efficiente i servizi o l’investimento stesso: a che serve acquistare una macchina per la polizia se poi si deve razionarne la benzina? Vi è, infine, il fatto ormai accertato in letteratura che i consumi pubblici hanno un qualche effetto positivo sui consumi privati anche se vi sono molti motivi per razionalizzarli e migliorarli, ad esempio nell’istruzione e nella sanità.
Data, quindi, la difficoltà di avviare nel breve periodo spese per infrastrutture che avranno, se necessarie, effetti positivi molto ritardati, l’unico modo per agire in tempi rapidi sulla crescita sembra la riduzione delle tasse sul lavoro da finanziare con l’allungamento dell’età pensionabile, giustificato tanto dalla demografia quanto dalla necessità di aumentare il reddito netto dei lavoratori e di accrescere la partecipazione al lavoro delle donne.
L’offerta aggregata di lavoro è più elastica di quanto non si creda alla retribuzione netta e lo è in particolar modo per le donne che avranno bisogno di servizi pubblici per sostituire impegni familiari che ne ostacolano da sempre la partecipazione. Ciò potrebbe anche configurare uno scambio politico tra allungamento dell’età pensionabile e riduzione delle tasse sul lavoro che - se presentato in modo razionale e non punitivo - potrebbe anche essere accolto in tempi più rapidi ed in condizioni meno difficili di quanto oggi appaia.
Sono in disaccordo sull'analisi per l'America. La contrazione non credo sara' "modesta e non troppo prolungata". Il seguente grafico che ho preso da questo blog non include neanche il 6% e' passa che Wall Street ha perso oggi...tutti i periodi a confronto in cui il mercato finanziario ha ceduto cosi' tanto, pur in diversa misura, hanno avuto effetti reali negativi che sono perdurati, mi sembra. E alla Fed col livello dei tassi di interesse attuali che hanno e la probabile deflazione in corso, mi sembra non resti che rivolgersi a Padre Pio o a Sant'Antonio di Padova...
Grazie del grafico che mostra solo quello che già sappiamo. Gli effetti reali si guardano, però, sul pil e le sue componenti: sul 2008 non sono stati granché anche ipotizzando un pessimo quarto trimestre. Per il 2009, ovviamente è più difficile pronunciarsi. Io avevo solo provato a giustificare il relativo 'ottimismo' degli organismi internazionali sulla base di una concomitanza di diversi, favorevoli, fattori d'offerta e di un probabile impulso di spesa discrezionale. Proprio perché la situazione è seria, penso che sia bene non esagerare perché il mondo è fatto sia di ingenui che amplificano i fattori di rischio che di furbi che ne approfittano per spillare quattrini..