Per i lettori di nFA, il fatto che numerose credenze diffuse (e tante dichiarazioni ufficiali di fonti che dovrebbero essere autorevoli) siano in realtà Bullshit non è una novità. Dovrebbe pertanto risultare godibile la lettura dell'ultimo libro di Luca Ricolfi, nel quale una serie di mircrosaggi pubblicati su Panorama, vengono presentati con una breve introduzione sulla nostra disponibilità a credere.
Il punto di partenza è la distinzione tra le credenze che non sono empiricamente verificabili (la vita ultraterrena esiste) e i fatti, che invece lo sono (l'anno scorso la povertà in Italia è aumentata). Mentre per le prime è abbastanza ovvio e giusto che ciascuno scelga liberamente le proprie opinioni, per i secondi dovrebbe essere inequivoco che siano o veri o falsi. Invece, scorrendo la carrellata di verifiche quantitiative presentata nel libro, possiamo osservare come di frequente credenze false oppure indimostrate vengano largamente accettate mentre altre posizioni, vere alla prova dei fatti, siano rifiutate dai più come inaccettabili.
L'introduzione suggerisce brevemente una spiegazione a questo fenomeno. Si parte dalla teoria della dissonanza cognitiva dello psicologo Leon Festinger. L'idea è che la mente umana ricerca una rappresentazione rassicurante della realtà più che una rappresentazione veritiera e quindi preferisce rifiutarsi di conoscere evidenze spiacevoli (l'autore riporta l'esempio della canzone Non è Francesca). Posto che a volte preferiamo non sapere, la lezione dei grandi sociologi della cultura (Weber, Berger, Simmel, Lasch, eccetera) ci dice anche perché oggi lo facciamo più che in passato: l'uomo contemporaneo ha bisogno di rassicurazioni maggiori, e quindi di maggiore distanza dai fatti osservabili, perchè non essendo più interprete di un ruolo ricevuto alla nascita e determinato dalla propria posizione sociale, deve continuamente ridefinire la propria identità.
A complicare il rapporto tra fatti e credenze, tramontate le grandi ideologie, arriva il politicamente corretto, che talvolta spinge a negare l'evidenza dei fatti o a non investigare i fatti a fondo perché questi vengono percepiti in contraddizione con un determinato sistema di valori (esempio: l'ipotesi che gli immigrati delinquano più degli italiani). In altri casi spinge taluni esperti ad ergersi a "guardiani della correttezza" e ad operare con pregiudizi partendo dall'approccio di volere dimostrare che determinate tesi sgradite sono false. Infine, il "politicamente corretto" spinge alcuni individui od organizzazioni che si sentono investiti di una missione salvifica ad esagerare i mali contro i quali combattono per enfatizzare la propria posizione.
L'esercizio di sottoporre una serie di credenze diffuse a verifica empirica si presenta interessante e in qualche caso sorprendente. Ne riporto uno particolarmente significativo: l'opinione maggiormente diffusa è che la questione meridionale consista in un divario nord-sud esistente al momento dell'unificazione e mai risolto. Presentando dei dati di Paolo Malanina e Vittorio Daniele, Ricolfi ci mostra che il differenziale tra il PIL pro-capite del nord e del sud era in realtà pari a 0 nel 1861: il divario si sarebbe dunque sviluppato dopo l'unificazione. Il periodo peggiore, secondo questa analisi, va dal 1880 al 1951. Nel 1951, ad esempio, il PIL pro-capite del sud era sceso al 50% di quello del nord. A parte una temporanea inversione di tendenza nel ventennio dal '51 al '70 e nel decennio 1995-2005, il trend appare chiaramente verso il peggioramento (attualmente siamo intorno al 60%).
Indubbiamente un'interessante lettura per scienziati sociali, psicologi, e in generale tutti quelli che vogliono capire qualcosa della gente e del mondo.