Etica, politica, vita (I)

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Due o tre cose su etica, politica e vita. Ispirate da riletture notturne di Bernard Williams e scritte fondamentalmente per me stesso (la parte II sarà, spero, meno personale). Mi scuso in anticipo dovessero risultare più ermetiche di quanto dovrebbero essere. Executive summary: i principi morali veri ed oggettivi non esistono ma occorre inventarseli perché la nostra vita meriti d'essere vissuta. Possibilmente assieme, quando non siamo soli, ma anche da soli se fossimo soli al mondo come, effettivamente, siamo. Per cui meglio che continuiamo a cercare principi morali da trattare come assoluti pur nella lucida consapevolezza che non esistono. The search is the answer, dice il tabellone di una delle tante chiese vicine a casa mia. Dasein, Sisyphe, ... scrissero quegli altri due e tanti altri: dicevano tutti la stessa cosa. La vita non ha senso alcuno se non decidi tu di darglielo, scegliendotelo e pagando prezzi salati per esso, che è poi il te stesso che fai vivendo.

Anche per me, da quando ho memoria, la domanda fondamentale è stata sempre la stessa "Come devo comportarmi? Cosa è giusto che io faccia?" Cerco ancora la risposta e non mi son stancato, apparenze notwithstanding.

Nulla di eccezionale, lo ammetto. Ma non necessariamente: più vivo e più sospetto che a farsi quella domanda siano (siamo? Spesso dubito della sincerità della mia stessa ricerca) in pochetti. Ed anche quei pochetti neanche sempre. Perché basta guardarsi attorno (o dentro) o farsi due chiacchiere disincantate con il/la conoscente di turno, possibilmente quando dopo alcune birrette parla in libertà, per scoprire che raramente la "ggente" si fa la domandina di cui sopra. Più frequentemente o ben non se la fa o se ne fa un'altra: che cazzo mi conviene al momento, come me la giro, come la sistemo? Come soddisfo ciò che mi "viene" da soddisfare? Si', lo so, detta così sembra la solita tirata di quello che si sente più figo degli altri. Ma forse no, forse è la solita tirata di quello che si sente più tonto degli altri. Ma andiamo per ordine.

Dicono i manuali, e non hanno del tutto torto, che vi siano, alla fin fine, due grandi scuole di pensiero sul tema.

La prima argomenta che esiste un'unica morale "giusta", la quale tale è perché "naturale" - parentesi gigantesca che cercherò di tenere nei limiti di alcune righe: (i) mai capito cosa intendano con questo attributo, quindi non chiedetemi di spiegarvene il senso. (ii) Facciamo finta che "naturale" voglia dire "permesso dalla natura, consistente con le leggi naturali": allora il diritto o l'etica naturale sono tutto il possibile, perché nulla è possibile che non sia consistente con le leggi della natura. Insomma, aria fritta, retorica, cacciarianismi. (iii) Ed infine: ammesso e non concesso che "naturale" possa restringerci in qualche maniera ad un sottoinsieme stretto delle "morali possibili" (vedi (ii)) perché diavolo l'essere naturale dovrebbe rendere giusto il principio in questione? Chi invoca il "diritto naturale" si è mai chiesto quante "morali spontanee" esistono e sono esistite in natura? Lascio al lettore pensare ad ovvi ed orrendi esempi, la conseguenza logica è: nonsense per deboli di mente. Morale "naturale", dicevo, ossia assoluta, implicita nell'universo in cui viviamo, oggettiva insomma nella stessa maniera in cui 2+2 fa 4 e non ci sono discussioni. Il nostro compito è scoprirla, svelarne i principi i quali dovrebbero, da un lato, apparire auto-evidenti e, dall'altro, esser capaci di rispondere ad ogni istanza della domanda fondamentale: la morale universale è uguale per tutti, è quella giusta e sa dirci cosa fare sempre e comunque. Questa è, al mio contare, la posizione di maggioranza fra gli addetti ai lavori e, paradossalmente, anche quella implicita in molte discussioni "da bar" (il bar in questione sembra frequentato da quasi tutti gli esponenti degli "ismi", controllare per credere) durante le quali ci sforziamo di convincere gli altri che "abbiamo ragione noi" e che non ci sono santi: la cosa "giusta" da fare quella è, per tutti indipendentemente da chi siano o siano stati.

La seconda - particolarmente di moda nei decenni recenti ma in realtà tanto antica quanto la precedente anche se per tanto tempo celata in bizantinismi - afferma l'opposto. Siccome non v'è verità alcuna da scoprire ed il mondo è un'invenzione della nostra mente (se non il mondo, almeno il suo senso, le sue regole, le sue ragioni d'essere) allora anche la morale tale è, un'invenzione che cambia a seconda degli interessi o stimoli di chi la propone. Niente è giusto e tutto è giusto, dipende dalle circostanze. Insomma, fai un po' quel che ti pare o conviene (tanto domani è un altro giorno, si vedra') e poi giustificalo in un modo o nell'altro, ci sarà sempre un post-modernista di servizio, un teorete, un fuffaro, un prete ... (sto citando a modo mio da Guccini, non vi surriscaldate oh credenti) che ci troverà una giustificazione lloggica ... Se chiedete all'empirista frustrato che vive in me vi rispondo che, alla faccia di tante seghe mentali, questi sono i fondamenti della morale di quasi tutti noi. E son fondamenti "marxisti" e "neoclassici" al contempo, non scherzo.

V'è un'altra interessante biforcazione del dibattito (che non ho ancora inteso bene cosa produca una volta la si incroci, in una piccola matrice 2x2, con la classificazione precedente) ed è quella più tecnica che distingue il consequenzialismo dalla deontologia.

A chi piace il consequenzialismo sembra che la risposta alla domanda "come devo comportarmi?" dipenda dalle sue conseguenze: fai ciò che ha "buone" conseguenze. Ovviamente questo sposta semplicemente il dibattito di una casella visto che ora dobbiamo decidere quali conseguenze siano "buone" e quali non lo siano, e per chi soprattutto! Noi economisti, in teoria, siamo consequenzialisti in quanto utilitaristi: le cose giuste da fare sono quelle che massimizzano l'utilità aggregata o totale, ossia di tutti quelli che son vivi (ma qui il mio vecchio pard Larry Jones si metterebbe in mezzo a chiedere perché non contiamo, oltre a quelli che verranno, anche tutti quelli che potrebbero venire o avrebbero potuto venire ... ed è un casino che non finisce più). In ogni caso, i consequenzialisti pensano che in questa maniera la soluzione si trovi; siccome i risultati buoni son più facili da trovare che le regole buone, guardiamo ai risultati e le regole creiamole di volta in volta. Discretion, direbbero alcuni, è meglio che rules. Solo che discretion dipende da chi è autorizzato ad essere discreto (scusatemi il pun bilinguistico, stasera va così) e siccome la mia discrezione non è sempre quella del Palma siamo punto ed a capo.

L'approccio deontologico ritiene invece vi siano regole assolute che possiamo scoprire e che dal comportamento secondo regole giuste seguano conseguenze giuste. Ma son le regole che contano, le conseguenze tali sono, conseguenze. Il grande leader qui, ovviamente, è Immanuel con quella sua stupenda frase che qualche volta ancora mi com-muove, quella sul cielo stellato sopra di me e la regola morale dentro di me. Quando poi fa nuvoeo "cassi tui, mi che casso me ne incuea?" dice el Giffo che ha risolto il problema delle mosche in bagno. Fuor di metafora: il buon Immanuel, evidentemente, riteneva che la regola morale dentro di noi fosse identificabile, oggettiva, naturale insomma. Lui s'è accontentato di spiegarci (si fa per dire) come trovarla ma era piuttosto certo che ci fosse. Basta seguire il nostro senso del dovere e la regola del Cristo, non fare agli altri quello che ... Non sembra funzionare, visti i risultati ottenuti sino ad ora. 

Mi dicono poi esista un approccio aristotelico che, se lo avessi capito davvero bene, forse potrebbe essere il mio. Per questo lo discuto qui. Dice, in parole povere, che dobbiamo cercare e perseguire il nostro telos personale coltivando ciò che abbiamo di "buono" in noi, le nostre virtù. La difficoltà, ovviamente, viene al momento in cui il soggetto in questione cerca di decidere quali, fra le sue più o meno palesi caratteristiche, siano virtù da coltivare e quali no. Perché se tutto quanto abbiamo in noi stessi è virtù il puro fatto che siamo uno diverso dall'altra ed entriamo spesso in conflitto ci lascia nudi di fronte alle intemperie: il mio telos o il tuo per coprire le nostre impudicizie? A quel punto si fa punto e si torna a capo, a meno di non cadere nel soggettivismo più totale: siccome la caratteristica XYZ io ce l'ho e mi sembra cosa buona allora la coltivo e la mia moralità quella è. Per quanto mi sforzi non mi tornano i conti: se, almeno in parte, il punto di vista morale deve valere anche per altri, seguendo il sentiero del mio telos personale come diavolo arrivo alla condivisione? Forse ci arrivo assumendo che lungo quella strada incontrerò altri con valori simili e che con essi li coltiverò arrivando a costituire una "comunita'" definita attorno a questi valori. Soluzione forse soggettivamente attraente ma che temo non risolva il problema da cui ero partito ... o no? Ne riparleremo nella seconda puntata, parlando di politica.

Ciò che da tempo mi ha portato a leggere Williams è il fatto che riconosceva, come sembra anche a me, insostenibili aporie in ognuno di questi approcci. Siccome, senza riuscire a spiegare bene perché ma basandomi solo sull'intuizione, son convinto che alla fine l'unica morale possibile sia quella della ricerca continua di una morale condivisibile (ecco, ho già rivelato il coniglio che tenevo infilato nel mio cappello ...) la lettura del signore in questione (e di altri, ma stasera ho in mano un alquanto accessibile libro suo, quindi cito lui e mi scuso con le dozzine di altri, il mio amato Isahia in primis, che non cito) mi ha spinto ad iniziare questo post.

Williams insiste sul fatto che, alla fine dei conti, vi sono solo prospettive personali e gli individui che le incorporano. Insomma e subito: siamo assolutamente soli di fronte alla scelta morale del cosa fare, del come comportarci: "The only serious enterprise is living", meaningfully aggiungo sommessamente io ogni volta che ci penso, insistendo per reintrodurre un qualche criterio condivisibile da altri (non oggettivo, quella è altra cosa, mi accontento di "condivisibile da qualcun altro") in quella sua affermazione così convincente. Forse sono solo più vigliacco di BW il quale riusciva a vivere da solo sapendolo, io cerco compagnia ... 

Ma torniamo al punto. Che, se capisco bene, è alla fine quello aristotelico: devi vivere, anzi devO vivere (meaningfully, insiste Boldrin) e per farlo non posso impormi di seguire principi e direttive "impersonali" che seguono o ben dall'insegnamento di supposti grandi maestri o ben da una qualche etica "naturale" o anche solo dal mio logico dedurre ... ok, va bene. La pars destruens è perfetta, persino facile tanto che, scusami BW per l'arroganza, c'ero arrivato anche io tanti tanti anni fa, umile campagnolo temporaneamente in giro per il centro storico ... ma la pars construens, quella che mi deve dire come cazzo devo vivere io, come la vogliamo costruire? Io son anche d'accordo (vero Adriano?) che non possiedo alcun free will, che ho i desideri, le voglie, le sensazioni, i sogni che ho e non so bene da dove vengano (oddio, con un po' di introspezione e serio colloquio con lo specchio del bagno, il 99% anche capisco da dove vengano, non è poi così impossibile fra me e me dircelo) ma in questa foresta di stimoli che sono io, IO che cazzo scelgo? Cosa faccio ora, fra due giorni, fra una settimana? Neanche tu, BW, spero vorrai suggerirmi di seguire l'onda ed andare la dove mi porta il cosidetto "cuore", anche perché tutto suggerisce che non mi porta da nessuna parte il cuore e, ogni sera, mi fa ritrovare più vuoto di senso della mattina. O no?

Perché, anche se solo seguissi il mio telos e mi scordassi, caro BW che non mi puoi rispondere e comunque non mi avresti mai cagato, di tutto il sistema di imperativi che viene dal "moral system" rimane sempre il buon vecchio Isahia a ricordarmi che io (come credo tutti gli altri) mille volte mi son trovato a dover ammette che due "indicazioni morali" mi sembravano, contemporaneamente, perfettamente giuste ed assolute ed altrettanto perfettamente opposte. Ossia, o ben facevo A e negavo B o ben facevo B e negavo A. Questo non perché A fosse -B (ossia, negazione logica di B) o viceversa ma perché le mie risorse umane, finite, non potevano essere destinate simultaneamente a usi alternativi. Dovevano andare o da un lato o dall'altro, non entrambi. Mi spiego? Era ed è quasi sempre una questione pratica, BW. Dovevo vivere. 

Ma non sempre. A volte è una questione "istintiva". A volte, spesso, ti capita di volere A un giorno e B il giorno dopo, o sei ore dopo. Di percepire la prima alternativa come prioritaria per te durante n ore e la seconda altrettanta prioritaria per te durante le seguenti m ore. Peccato che A e B siano in conflitto, pratico se non logico. Si elidono nei fatti, non nei principi. Allora, quale sarebbe il mio "telos" vero? Quello di A o quello di B? Gli "economisti" hanno la loro versione del problema, la chiamano "time inconsistency" che è un parolone ma ha esempi semplici. Stamane mi son svegliato ed ho notato di aver messo su altri due chili. Non ho voglia, in questo momento, né di scotch né di ostriche e mi sembra assolutamente necessario rientrare nei pantaloni, quindi mi decido di farlo. Ma, verso le 21, ho fame ed in quel momento la bottiglia di champagne è assolutamente invitante, tanto domani bevo solo acqua. Lo so, l'esempio è sia banale che di scuola ma mi basta, ulteriori dettagli potrebbero divertire ma non aggiungerebbero sostanza. 

Il punto vero, che non ho mai notato BW abbia colto, è che "living" è spesso altamente incoerente, ci porta a fare scelte in conflitto fra loro e spessissimo ci porta a scelte talmente in conflitto fra loro da autoelidersi ed allora la vita diventa VUOTA perché giri in circolo. Vivi, la vita è piena, non ti annoi mai, hai sempre qualcosa da fare, ma il senso è andato via e non hai accomplished nulla, hai lasciato tutto a metà, hai sospeso, abbandonato, dimenticato, rimosso, sminuito mille progetti, mille desideri, mille sogni. Hai vissuto senza andare da alcuna parte. Ed anche questo non sarebbe un peccato se non fosse, osservazione empirica, che quando così ti succede SENTI dentro di te il vuoto, l'assenza di senso. Ti senti un nulla, anche se non lo dici a nessuno per darti un tono. Insomma, vivere e basta (che, son d'accordo, è una serious enterprise) rischia di essere veramente insoddisfacente se non è meaningful. E, altra mia piccola osservazione empirica, il cervello degli umani è tale che A diventa meaningful (come progetto o scelta di vita) se e solo se, perseguendolo, rinunci a B che pure ti sembrava interessante, ed anche a C, magari. Insomma se e solo se scegli e paghi un prezzo. E più salato il prezzo è più A ha senso, più è meaningful ed ha valore per te, ti riempie. Ok, mi fermo, sembro Camus e non vorrei sembrarlo perché fuori tempo massimo.

Ma spero il punto sia chiaro: anche in una prospettiva del tutto "soggettiva", del vivere il proprio telos, le scelte morali sono inevitabili, i prezzi vanno pagati, la morale oggettiva, che avevamo cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Non sarà oggettiva per gli altri ma lo deve essere per me: ho scelto A ed ho rinunciato a B, C e D e QUESTO sono io, questo è il mio telos che ho scelto, prima non c'era. Io sono le mie scelte e niente altro. Gli economisti chiamano questa cosa "revealed preferences" ma dubito abbiano coscienza delle sue implicazioni, poi ci sarebbe anche l'Antonio Gramsci e persino Roberto Bolaño, ma non vorrei esagerare con le citazioni ...

Scusatemi, mi ha preso la fretta di concludere, si è fatto tardi anche per me. Il punto è che mentre io accetto totalmente l'osservazione del buon BW, e di tanti altri con lui, secondo cui "each person has a life to lead" non posso non ricordare che la life in question da un lato non avviene nel vuoto siderale (vi sono ALTRI attorno a te e, ti piaccia o meno, hai BISOGNO di loro, la tua vita senza loro non ha senso alcuno, non sei un'ostrica) e, dall'altro, persino dentro a te stesso vi sono vari "te", vari progetti, desideri, sogni, ambizioni, pulsioni, principi. Quindi, ti piaccia o meno, devi SCEGLIERE, devi pagare dei prezzi, devi buttare qualcosa, soffrire buttandolo, rinunciarci per davvero e scegliere qualcos'altro. O viceversa, ma scegliere devi. E questo COME lo fai? In base a cosa? Non hai free will, scegli a "caso" che "domani è un altro giorno"? Ok, ma anche questo, figliola mia, è una scelta: la scelta di tirare ogni mattina un dado con N facce ed il numero N lo scegli tu. Quindi siamo punto ed a capo, non c'è via d'uscita da questo inevitabile dovere morale

Infatti, per questa sera amici miei, mi fermo qui. Nel titolo avevo messo anche "politica" fra "etica" e "vita" ma le contingenze del pensiero mi hanno spinto a saltare da etica a vita omettendo la politica. Sulla quale ritornerò se una qualche pulsione mi motiverà ed un paio di buone birre sosterranno l'intenzione. Mi fermo qui, e riassumo.

Che non possiamo vivere meaningfully senza cercare ogni giorno un senso "assoluto" da dare ai nostri atti. Che siccome viviamo fra e con gli altri, e senza gli altri non possiamo vivere, quel senso dobbiamo cercare di condividerlo con qualcuno altro da noi. Che questo qualcuno o alcuni dobbiamo scegliercelo/i e con quell'altro o altri dobbiamo dialogare moralmente. Che, soprattutto, dobbiamo scegliere e pagare i prezzi delle nostre scelte diventando di esse responsabili personalmente. Sarà anche personale quel senso, sarà anche temporaneo, certamente non sarà assoluto nel senso in cui le due scuole, con la descrizione delle quali ho iniziato questo sproloquio, intendono, ma deve essere assoluto per noi. O, almeno, dobbiamo far finta che lo sia nel sceglierlo. Si', dobbiamo fare finta sapendo che finta facciamo ma scegliendolo come assoluto nevertheless.

Come colui che, navigando en la mar del poeta, pur sapendo che un giorno il fato lo fermerà in una qualche Itaca che non sa prevedere, punta la prua all'infinito (ah, David Gale, would you ever have expected such a lowly use of your splendid reason of why we solve infinite horizon problems?) e ad ogni alba la riaggiusta verso il nuovo infinito che le onde della notte lo portano a scegliersi. Temporaneo, ma moralmente infinito nevertheless, in quel dialogo che la nostra vita è con noi stessi e quelli attorno a noi che scegliamo per condividere l'andar morale che non possiamo evitare.

Questa, al momento, la mia morale e, se ne avete un'altra, raccontatemela che non mi dispiacerebbe apprenderla. Io per oggi vi saluto qui.

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Commenti

Ci sono 45 commenti

Post molto interessante ma penso che prima di cercare una "Morale" si debba provare a dare un senso alla propria vita nel senso di rispondere alle classiche domande della filosofia.

Ovvero Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, ecc..

Le risposte possono essere diverse a seconda se si ha un senso religioso o no ed ognuno deve fare la sua scelta come diceva Pascal.

Questa scelta non e' per niente facile ma occorre in qualche modo farla.

Fatta la propria scelta ne deriva la "morale" da seguire che per le persone religiose sara' quella della propria religione per gli altri potra essere quella di una delle tante filosofie a cui ci si sente affini (stoica, epicurea, marxista, ecc..).

...per la semplice ragione che la morale si e' evoluta per facilitare la vita sociale. Quello che io intendo con "morale naturale" e' proprio questo: un insieme di linee guida su cui si condensa un consenso di massima all'interno di una societa' in modo da ridurre le frizioni e minimizzare il verificarsi di equilibri di Nash (o, per la precisione, equilibri evolutivamente stabili) subottimali, in cui il perseguimento egoistico dell'interesse personale da parte di ognuno (anzi, di ognuno dei geni di ogni individuo) farebbe perdere occasioni di guadagno condiviso.

Siccome le societa' non sono statiche, anche la morale naturale drifta nel tempo: per "naturale" non intendo quella del mitico "buon selvaggio" nell'altrettanto mitico "stato di natura" rousseauiano, e ancor meno una infusa da un ipotetico creatore, ma quella su cui si e' verificata una spontanea convergenza del consenso. Il concetto si contrappone a quello di una morale "razionalista", progettata a tavolino su basi utilitaristiche da qualcuno che pensa di conoscere meglio degli altri la funzione di utilita' della societa'.

Va comunque sempre tenuto presente che le societa' sono complessi sistemi stocastici, e di conseguenza la convergenza dei valori e' un processo turbolento: ad ogni istante possono coesistere piu' varianti condivise da diversi strati sociali e culturali o diverse fasce d'eta'. La "naturalezza" della morale non implica necessariamente la sua unicita' e stabilita'.





  • Copio ed incollo lo scambio fra un amico/collega (che preferisce rimanere anonimo) ed il sottoscritto.

    Amico: Ho letto il tuo pezzo su BW e le origini della "morale". Scrivo senza voler essere citato (ammesso che tu lo volessi mai fare). A me pare che la morale, gli imperativi moraili, siano semplicemente un byproduct della evoluzione delle specie. Evoluzione genetica, sicuramente. Molto più problematicamente evoluzione delle interazioni sociali (tuner-gatherers) … di questa seconda cosa sono meno sicuro. Il motivo per cui poi a noi sembra "buono" e "morale" è (banalizzando all'eccesso), che per esempio "mother and newborn baby are doing well" è uno statement di ovvio valore evolutivo nel senso di finess. E a noi poveri mortali prodotto della morale evolutive ci vengono le lacrime di commozione guardando il newborn. You get the gist, I think. Non penso di esser il primo a puntare in questa direzione. Happy thanksginving.

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  • Michele BoldrinNo non sei il primo a puntare in questa direzione. Ed anche io penso che svariati principi "morali' comuni un po' a tutte le culture siano il frutto di un processo di selezione evolutiva. Ma questo non risolve il problema, per svariate ragioni.
  • 0) Nota che la mia riflessione non e' sulle "origini" ma sulla "giustificazione", che son cose diverse.

  • 1) Sono pochissimi i principi morali comuni a tutte le culture, anche solo negli ultim 2000 anni. Veramente pochissimi. Questo implica che la selezione spiega, al piu', una parte minuscola della morale ed il 99% rimane fuori, senza spiegazione delle origini e tantomeno giustificazione.

    2) Ma restringiamoci pure al piccolo sottoinsieme di principi morali che sembrano avere una spiegazione darwiniana. Cosa li rende "giusti" e "condivisibili"? Che siano il frutto dell'evoluzione non li rende tali. Anche il dominio fisico degli uomini sulle donne e' frutto di un processo darwiniano, eppure non lo riteniamo giusto. Ci sono esempi a centinaia in questo senso: la spiegazione biologica, corretta o meno, non costituisce un giustificazione morale la quale copre uno spazio analitico e concettuale indipendente.

    3) Piu' probabilmente l'evoluzione spiega il "desiderio generalizzato" di principi morali, questo si' un fenomeno comune a tutte le culture ed esseri umani, persino i piu' pazzi e criminali sembrano averne un bisogno. Va benissimo. Ma a quel punto inizia la riflessione di chi si occupa di etica dal punto di vista da me adottato: il contenitore ce l'abbiamo tutti per ragioni biologiche ma non concordiamo su cosa metterci dentro. E su questo occorre discutere.

Condivido tutti e 3 punti della replica. Tutti i giusnaturalismi e tentativi vari di giustificare i principi etici con l'evoluzione, o con una problematica "utilità generale", cozzano contro questa evidenza: sono pochissimi i principi morali comuni a tutte le culture e a tutte le epoche. Troppo pochi. 
In particolare porto una mia osservazione ulteriore alla "ragione" numero tre, cioè a questa che cito:

 

Piu' probabilmente l'evoluzione spiega il "desiderio generalizzato" di principi morali, questo si' un fenomeno comune a tutte le culture ed esseri umani, persino i piu' pazzi e criminali sembrano averne un bisogno. Va benissimo. Ma a quel punto inizia la riflessione di chi si occupa di etica dal punto di vista da me adottato: il contenitore ce l'abbiamo tutti per ragioni biologiche ma non concordiamo su cosa metterci dentro. E su questo occorre discutere.

 

Qui si può generalizzare ancora di più: emozioni, immaginazione, pensiero, volontà, sono tutte componenti innate dell'uomo. Funzioni, sì, innate, in quanto funzioni. Non è innato però il loro oggetto. Innata è la capacità di sentire, non il sentimento; innata è l'immaginazione, non l'immaginario; innato è il pensare, non il pensato; innata è la volontà, non il voluto.

Per dirimere quali siano quelle componenti dei sistemi etici che siano effettivamente universali e irrinunciabili, perché sole rispondenti a una qualche necessità immanente all'animale-uomo, c'è comunque un sistema semplice, una sorta di verifica empirica, che permette di superare la soggettività delle opinioni personali. E' sufficiente prendere un tipo-prototipale umano da ogni Civiltà, del passato e del presente, estrapolare l'insieme dei valori fondamentali contenuti nei nuclei di Valori di tutti questi soggetti, e poi operare l'intersezione tra tutti gli insiemi. L'insieme risultante contiene i Valori che possiamo con buona approssimazione intendere assoluti.
Ossia. Prendi un veneziano, un livornese, un napoletano, un friulano, poi un francese di oggi e un francese del 1789, poi un francese del 1202, un inglese del 1800 e uno del 1400, uno scozzese, e poi un brasiliano, un INCA, un Romano antico e un romano di oggi, un Greco antico, un egiziano della prima dinastia, un cannibale, un assiro, un indiano Navajo, un indigeno dell'isola di Pasqua del mille A.C., un Olmeco, un pigmeo, un guerriero Hutu, un Talebano, un bonzo tibetano, e via all'infinito, scegliendo sempre il tipo più prototipale e più puro per ogni categoria.
Che ne so, Silla per i Romani di ieri e Totti per i romani de ora, Aristotele per i Greci antichi, Al Zawahiri per i talebani, Zoff per i friulani; insomma, dico, un campione, uno solo per ogni gruppo umano della storia. Uno ma bello significativo. Indi mettili tutti insieme, e poi mettiti a cercare quei Valori che li mettono d'accordotutti.
Secondo me se facciamo questa operazione otteniamo poco più dell'insieme vuoto.
Eppure tutti questi Uomini esistono o sono esistiti, eccome, come esistono o sono esistiti i gruppi umani che li hanno riconosciuti come esempi, e che vivono o sono vissuti identificandosi con quel nucleo di Valori.
Ne deduco che di comune a tutti, e quindi innato alla "natura umana", nei sistemi di Valori c'è poco o nulla.
E aggiungo anche che quel poco o niente che c'è è di scarso interesse: essendo innato, c'è già, è sempre uguale, e neppure si può modificare. Quelo che interessa a chi indaga filosoficamente il problema etico è tutto il resto, perché lì è possibile operare.

Vediamo.

Cosa potrà mai averci di fastidioso residuo un maledetto Stato fascio-borbonico-papalino-savoiardizzato rispetto ad una una rutilante società evoluta che butta giù un bourbon per affogare i momentanei inevitabili rovesci prima di ripartire con la prossima vincente start-up?

La pizza?

 

P.S. Qui Matteo2, visto che ho letto di un altro. Una volta eravamo in pochi, o ero proprio da solo. I tempi cambiano. E senza alcuna pretesa d'essere letto naturalmente, figuriamoci inteso; potrei aver visto cose che non esistono.

Sono le 3 di notte e anche io voglio partecipare al dibattito. 

Partiamo dal presupposto che siamo dotati della ragione, che è l'organo che ci serve per prendere le decisioni. E cosa è la morale se non il decision making, appunto? Da qui il primo risultato: è morale tutto ciò che è razionale. Con razionale intendo tutto ciò che non è malattia mentale. Ad esempio, se decido di mangiare per farmi passare la fame allora sono razionale; se invece decido di non mangiare per farmi passare la fame allora non sono razionale. E sì, la time inconsistency è inclusa: è razionale sia fare una cosa quando la si voglia, sia non farla quando non la si voglia.

 

Problemi

  1. 1) La ragione non sa tutto, è limitata. Certe volte semplicemente non sappiamo cosa bisogna fare per raggiungere lo scopo che ci siamo posti. Ad esempio, voglio diventare molto ricco, ma non so come fare. Oppure: amo e, allo stesso momento, odio mia moglie, e quindi non so se lasciarla o no.
  2. 2) Ogni uomo non è da solo nell'universo, ma interagisce con altri simili. Però la ragione è individuale. Quindi, mentre sono sicuro di quale scelta intraprendere per raggiungere il mio scopo, non lo sono più quando si tratta degli scopi dei miei prossimi. Cioè la ragione, di per sé, è solipsistica, non sa nulla dei mondi mentali delle altre persone. Il che è un caso di grossissima limitazione, di cui al punto 1).

Si noti che il dibattito pubblico sulla morale è concentrato, appunto, soprattutto sui due problemi elencati: cosa fare quando non si sa cosa fare e cosa fare non come individuo, ma come società.

 

Risposta

La soluzione a entrambi i problemi consiste nella formulazione di una morale che propongo di chiamare simbolica. Tali sistemi aggiuntivi funzionano da fonte di "razionalità esterna" quando la nostra ragione individuale "si arrende". Quindi, non lascio mia moglie perché è vietato dalla morale simbolica. Oppure amo il prossimo perché è imposto dalla morale simbolica.

La morale simbolica è controintuitiva. I suoi divieti e le sue imposizioni sono (spesso) totalmente irrazionali e arbitrari, cioè non portano a nessuno scopo ben definito; oppure portano a un fine addirittura contrario a quello intuitivo. Non sono altro che simboli della morale stessa (cfr. il precetto del "non dormire sulla terraferma", in Perelandra di C.S.Lewis). Però, allo stesso tempo, permettono di prendere decisioni in — molti dei — casi difficili, e risultano — in vario grado — efficienti nell'organizzare la vita sociale.

Spesso diventano talmente integrati nella nostra cultura da riuscire a formare la nostra ragione. Ad esempio, prendo la decisione di contenere la rabbia perché è più razionale, ma in realtà questo mi sembra più razionale perché nella mia cultura si è imposta la morale cristiana che prescrive di farlo (e che ha dato dei buoni frutti nella storia della convivenza sociale).

Ma non bisogna dimenticare che i sistemi di morale simbolica (insomma, le religioni) sono prodotti della ragione, e quindi hanno gli stessi limi di cui sopra. Cioè in alcune situazioni sono impotenti (chi deve lasciar morire dottor House, tra la partoriente e il neonato, se uno solo può essere salvato?). Oppure si dimostrano non abbastanza efficienti, e quindi troppo irrazionali, nel gestire certe interazioni sociali (ad esempio, le nozze tra gay). In casi come questi, con il metodo empirico, se ne inventano di nuovi (cfr. il passaggio dalla morale cattolica alla morale di Lutero e poi Calvino).

Conclusioni
Quello che scrive Michele si riduce, a mio avviso,  alla costatazione che è morale ciò che è razionale. Mi pongo uno scopo e cerco di raggiungerlo. Però non c'è neanche bisogno di riaffermarlo: è già così, sempre. Perché la fisiologia del nostro corpo ci fa comportare in questo modo. Mentre ogni dibattito teorico sembra qui ricadere inesorabilmente nel "paradosso della domanda e risposta".

Rimangono, certo, situazioni in cui non si ha una risposta sul che fare (ma sono estremamente rare). Però, allora, o la risposta non c'è e non ci sarà (perché la ragione non è ognipotente). Oppure in realtà sappiamo benissimo quale sia la scelta da fare, solo che abbiamo paura o pigrizia di prenderla. E quindi cerchiamo scuse teoriche per non prenderla.

Mi scuso per essermi dilungato. Sono già quasi le 5... 

P.S. Ovviamente la misura di ciò che è razionale cambia da persona a persona. Ma anche la morale, se è per quello.

con (michele Boldrin. supra) non condivido quasi tutto, trannecio' che mi interessa. per cui prima di non dir la mia, la topografia va rifatta. ad evitare ciarle e chiacchere: sono uno di quelli che dice che non si etica, forse si da l'estetica, ma anche li' ho sovente dubbi. le domande di ordine esistenziale mi acchiappano pochissimo e seguo regole pratiche di antica origine (a ognuno il suo e bene e' dir al passante che siamo morti secondo le leggi che ci siamo dati, per il resto mai capii cosa sia il perdono, e meno che mai la bonta', ho avuto recenti rivelazioni personali su cosa intendo io per compassione, ma sono affari privati.)

topografia.

vi sono tre e non due maniere di affrontare il problema.

una e' diretta, le altre due sono riduzioniste.

1. vi e chi pensa che vi sia il bene, non e' decisivo che uno identifichi il bene con la natura, puo' esser benissimo un oggetto di origine divina, di origine casuale. Tra greci classici, mentre Platone non e' un naturalista, Aristotele lo era di certo. idea: la natura in un senso da accertare e' buona perche' persegue un fine che e' la sua essenza, spesso invisibile (la foglia che cerca luce, lo sperma che cerca le uova, etc.) il compito dell'unico (non  a caso detto) animale razionale e' identificare un nucleo minuscolo di virtu' naturali (il coraggio e non lo sprezzo del pericolo, la liberalita'e non lo scialo di risorse, etc.) e viverci dentro. In tradizioni religiose (viz. Veda, i cristiani, i musulmani) si giunge persino al punto di negare che sia cognitivamente penetrabile cosa sia bene data la natura umana, ergo le rivelazioni di origine extranaturale (non si capisce bene se sia bene birra, ergo allah informo' che e' male, non si sa se e' bene la poligamia, ergo dio disse a Smith che e' bene, etc.) l'idea non riduce nulla a nulla, direttamente dice che il bene c'e' e sottolinea che e' insensato chiedersi perche' uno "dovrebbe" far il bene (notasi non far bene il calzolaio, il venditore di frigidaires IL BENE) lo deve fare perche' e' natura sua, se non e' natura sua e' psicopatico.

le due ipotesi riduzioniste sono diametralmente distanti. Una, resa celeberrima da Leibniz e da Kant e' che uno ci pensa davvero e' sufficiente una razionalita' minima per far il bene. fate i compiti e vedrete che una volta universalizzata una massima (mantieni la promessa, non rubare, non desiderare la cosa d'altri) e' la sola cosa che esce come un teorema da un ragionamento. Non farla e' solo stupido, male radicale non esiste, esistono infinite forme di idiozie da combattere in quanto individui razionali che vengono danneggiati da deficienti vari.

Terza ipotesi, anch'essa riduzionista e (ha ragione Michele) amata dagli economisti perche' immette una procedura che dice di esser effettiva. Il consequenzialismo dice che e' bene quel che seleziona conseguente predetermnate, il resto e' emozioni idiote (esempi: e' bene remare per tener la scialuppa in rotta e non buttarsi a mare per salvare il cane di casa, se non vogo muoiono tutti gli orchestrali di titanic e muoio io e il cane surgelato, ergo e' male amar i cani o amarli a quel punto.) La conseguenza di solito predeterminata e' variamente detta felicita', benessere, massimizzare, il piu' possible di bene per il piu' possibile di soggetti. Qui la riduzione e' diretta: una procedura di computazione risolve i possibili dilemmi (per chi si diletti di dilemmi Philippa Foot invento' il carrello su cui sperimentare e misusrare le proprie intuizioni e posizioni in morale.) La procedura di computo e' un incubo: nessuno sa chi siano i soggetti (non sto sfottendo, fino a un secolo fa e tuttora in molti posti del mondo, le femmine non sono soggetti, tra i civilizzati un po' eleganti ci si occupa di generazioni future, di generazioni passate, Larry Jones anche di generazioni potenziali, tra chi ha sensisbilita; ecologica ci si occupa di scarafaggi, balene, lupi amputati, tra chi porto' queste logiche alle loro vere conseguenze A. Naess si occupa del soggetto "montagna" come uno dei fattori che deve entrare nella computazione.) In breve gli approcci consequenzialisti hanno un solo e vero difetto, vale a dire impongono scelte draconiane su quali siano i fattori che devono entrar nel computo. Per esser chiaro si considerino scelte semplici, inventate da Knobe J. Un'azienza migliora il profitto e i salari dei suoi dipendenti SSE inquina una fonte dove bevono solo le zingarelle e gli albanesi. Contano le zingare al consiglio di amministrazione? No, dice M Friedaman, si dicono moltissimi che vanno in tribunale con l'itterizia presa bevendo. Ho nessuna opinione fissa in merito, so solo che il consequenzialismo utilitarista, da solo, non determina nessun insieme dis celte.

sur le fond, PROVO PIU' TARDI.

vi e' anche una versioni nichilista, poco conosciuta, I daoisti dicono di fare nulla, visto che il male cosidetto e' appunto prodotto dalle azioni. Ha pochissima popolarita' tra chi ama esser attivo.

 

 

 

p.s. le ciance sul darwinismo son inutili. al meglio illustrano come una facolta' morale (cosi' la chiama ex-harvard Hauser) e' alla fine di un delta di fiumiciattoli evolutivi. dice nulla del perce; uno dovrebbe adattarsi (p.es. le evoluzioni dicono che io "debba" far figli e io non li faccio, ho torto? o che?) al meglio ricade nelle visioni naturalistiche religiose, indicando che la "naura" ha gia' fatto tutto, basta seguire le indicazioni.

Ho tralasciato intenzionalmente la teoria del bene "rivelato" preferendovi, come terza via possibile, quella del bene "scoperto" o anche "inventato" se vuoi. 

T'attendo pour le fond ... 

 

[...] il puro fatto che siamo uno diverso dall'altra ed entriamo spesso in conflitto ci lascia nudi di fronte alle intemperie.

 

Forse il problema è pensare che in questo ci sia qualcosa di sbagliato.

Vi sono, almeno, due fatti menzionati nella frase che citi

1) Che siamo diversi l'uno dall'altra/o
2) Che entriamo spesso in conflitto
e, infatti,

3) che 1)+2) ci FORZA a discutere di morale (metaforicamente, nudi di fronte alle intemperie)

Non credo di aver detto d'alcun lato che vi sia qualcosa di sbagliato in questi fatti, i quali tali sono. Spiegami, quindi. 

Premessa. Ci sono persone civili (forse tutti i partecipanti a questo blog) e incivili (quelli del “chissenefrega”).

Tesi 1. I dissidi fra persone civili dipendono praticamente quasi sempre da una diversa valutazione delle conseguenze di una scelta “morale”

Tesi 2. In particolare, alcune persone civili, ma abbastanza ignoranti e stupide, non si occupano delle conseguenze, tranne quelle più ovvie e immediate. Vi danno poco peso non per le sofisticate ragioni individuate da un BW (nella sua critica del consequenzialismo che imparo ora da Wikipedia), ma semplicemente perché non sono in grado di calcolarle, perché pensano che nessuno sia in grado di calcolarle seriamente, e perché preferiscono limitarsi quasi solo alle intenzioni -- benintenzionati privi della weberiana etica della responsabilità.

Se valgono premessa e tesi, il campo dei problemi proposti da Boldrin è piuttosto ristretto. Riguarda le indecisioni di, e i dissidi fra, persone civili propense a calcolare, more economico, le conseguenze di una scelta. A questo punto, mi piacerebbe che Boldrin offrisse un esempio concreto, cioè un caso in cui incertezza e disaccordo NON dipendano da un diverso calcolo delle conseguenze, ma da “valori” diversi. Sto sostenendo che nella vita pratica casi del genere siano rari – restando sempre nell’ambito di persone civili, razionali e competenti.

Anche riguardo alle scelte personali, se avessi una buona previsione delle conseguenze, su di me e sul resto del mondo, di fare A in alternativa a B, credo che non mi capiterebbe praticamente mai di avere alcuna tormentosa incertezza fra A e B.

My two cents

Gentil Bercelli, mi spiace ma Lei ha torto. Non son un entusiasta della civilizzazione (mai capii cosa vi sia di differente tra Idi Amin e i 40 tiranni ateniesi, e meno che mai tra i deficienti di Boko Haram e Ch. Manson.) Poco importa.

consideri un caso semplicissimo che accade di continuo. Vi sono infiniti casi in cui anceh i civilizzati computatori si trovano a schiantarsi le vicendevoli corne per un valore che a pochi manca: il proprio clan (gli psicologi morali lo chiamano divisiorio tra gruppo interno e gruppo esterno.) Se la cosa le appare oscura consideri un affare semplicissimo: in una trattativa per comprare gas o concime, i francesi favoriscono i francesi, i tedeschi i tedeschi, i russi i russi.

E questo e' di contro e dato che i numeri non son contestati (costa meno comprare Porsche ma compro Maserati comunque. Ora il conseguezialista indurito induce un effetto celebre, vale a dire, "vuol dire" che il costo di esser antipatriottici e' piu' alto di quello di perder quattrini con la Maserati. Ma qui casca l'asino, dato che un valore come il patriottismo non e' computabile.

Espressi un parole molto tempo fa su cosa costituisca un valore, ma detesto ripetere.

Un saluto cordiale

Caro Palma, avevo ben presente la forza del "Noi" nelle scelte umane e non intendo affatto negarla. Dico solo che moltissime divergenze, ad esempio praticamente tutte quelle che compaiono in questo blog e che sono del tipo "meglio A o B?", vertono sulle conseguenze di A o B.

Certo che non tutto si riduce a questo. Il mio punto è che stupidità e ignoranza pesano assai di più delle divergenze morali. Sono invece incerto sul peso della disonestà lucida, che tendo a ritenere molto rara. Qui potrei sbagliare.

Ad esempio, a proposito di gruppo interno vs. esterno, nei dibattiti sulla spesa pubblica, conterà anche il "Noi" (Noi di sinistra, Noi Keynesiani, Noi anti-liberisti, Noi "buoni"), ma secondo me quel "Noi", come tanti altri, si regge al 90% su stupidità e ignoranza.

Per "civili" intendevo tutti quelli che Carlo Cipolla non avrebbe considerato "banditi", cioè disonesti lucidi.

dobbiamo considerare che viviamo in una cultura - o meglio, che la nostra formazione culturale già è intessuta di regole morali e che queste, se non le rifiutiamo insieme con essa, sono in qualche misura parte della "natura" di ciascuno di noi. Con questo non intendo negare la possibilità di cambiamento: ma, credo, anche l'accettazione di regole morali nuove è sempre frutto di un processo sociale per cui, per esempio, in un certo momento storico le regole apprese durante la nostra formazione non ci sembrano più quelle giuste, perché altre ne sono emerse nell'ambiente in cui viviamo e ci hanno convinti. 

Volendo, si potrebbero considerari "regole naturali" quelle che ci sembrano necessarie per una vita in comune con altre persone: tale sarebbe il monito kantiano di trattarle come fini in sé e non come mezzi che, a ben vedere, è una versione culta della vecchia regola di trattare gli altri come vorresti essere trattato da loro e di non trattarli in un modo in cui non vorresti essere trattato. Il resto - non usare violenza contro le donne, non discriminare i diversi, non rubare, ecc. - sembra derivare di conseguenza. 

 

il cervello degli umani è tale che A diventa meaningful (come progetto o scelta di vita) se e solo se, perseguendolo, rinunci a B che pure ti sembrava interessante, ed anche a C, magari. Insomma se e solo se scegli e paghi un prezzo. E più salato il prezzo è più A ha senso, più è meaningful ed ha valore per te, ti riempie

 

mi ha fatto fermare...a pensare. cosa cui purtroppo da un po' ho scelto di rinunciare, avendo preferito 'fare, fare fare'. grazie molte, quindi. una domanda (segnatamente per MB, ma non esclusiva): non si rischia di costruirsi alternative 'delusional' che portino a giustificare le nostre scelte di comodo? es: A) Sì, ho ricomiciato a fumare, ma sono comunque in forma, faccio sport e smetto quando voglio B) Quella job interview (andata malissimo), in realtà non sarebbe stata comunque buona per me. CDE...Z) tanti esempi in cui io cerco solo di giustificare il mio agire (in maniera un po' meschina) valutando le mie scelte rispetto a scenari alternativi impossibili/irraggiungibili/non così significativi in termini di miglioramento della curva di utilità o soddisfazione. Forse sono troppo OT, ma bottom line il dubbio è: come costruirsi un ventaglio di possibili alternative minimamente coerenti tra cui scegliere la migliore e non la più semplice? Perchè il rischio di costruire alternative ad hoc autoassolutorie mi sembra generalmente elevato, almeno tra quelli, come me, che magari la domanda ogni x tempo se la pongono, ma finiscono per indulgere nella confort zone troppo a lungo.

 

edit, con la formattazione sono negato...

Un post come questo in un blog pubblico, da parte di un personaggio noto e sovente attaccato anche sul piano personale, richiede una certa dose di coraggio. Forse si sarà aiutato con un paio di birre, ma in ogni modo ha la mia ammirazione. Chapeau.

Vorrei dare il mio contributo, ma ho un po' di timore. L'ultima volta che l'ho fatto ne è venuto fuori un libro. Butto solo two cents, poi, per ora, mi ritiro.

-) Prima di ripescare Aristotele e l'Aquino, Philippa Foot ci ricorda che l'etica ha senso solo in relazione alla vita. Possiamo intenderla soggettiva o oggettiva, e sicuramente fa parte del rapporto di un individuo "con lo specchio del bagno", come dice Boldrin. Cionondimeno la sua natura è sociale. Proposizioni morali non hanno senso dove non c'è vita: nulla di ciò che accade nel pianeta Marte può essere mai "giusto" o "ingiusto". Dove non c'è vita non ci sono il bene ed il male.
Nell'indagine sul contenuto delle proposizioni morali si deve tener conto di ciò.

-) Qualunque cosa siano, i Valori sono istanze interiori, personali, addirittura intime (come bene li descrive Kant), il cui significato, però, è puramente intersoggettivo.

L'indagine sul loro senso (che è differente dall'indagine sulla loro origine, ha ragione Boldrin, ma la seconda è propedeutica alla prima) per me deve procedere muovendo dall'osservazione dei gruppi umani, intesi come soggetti collettivi.

noi, decretiamo che da bestie viver peggio che morire e'.

(risoluzione dei comunardi, quella vera che e' molto piu' bella dice:

In Erwägung unsrer Schwäche machtet
Ihr Gesetze, die uns knechten solln.
Die Gesetze seien künftig nicht beachtet
In Erwägung, daß wir nicht mehr Knecht sein wolln.

[Refrain:]

In Erwägung, daß ihr uns dann eben
Mit Gewehren und Kanonen droht
Haben wir beschlossen, nunmehr schlechtes Leben
Mehr zu fürchten als den Tod.

brecht B

 

Michele mi attende.

la top;ografia delal morale e' variabile. e' una cosa a cui penso mai, da decenni. mi hanno convinto varie teorie che dicono che il potere viene prima, poi la morale implica, razionalizza. spiega. Hume buonanima illustro' dicendo che le ragioni sono e debbono essere le schiave della passioni, trattato 2. 3. Gli psicologi richiamano centinaia di effetti (vedasi Knobe & al.) io non lo so.

due effetti mi colpiscono.

1. la morale ha una struttura non finitaria (vale a dire, data un'ipotesi, una proposizione su che cosa sia sbagliato, si puo' sempre chiedersi se e' sbagliato accettare un tale proposito, il sempre e' decisivo qui)

2. e' un soggetto confuso tra la sua spiegazione, la sua origine, la sua gistificazione.

 sulla topografia in senso proprio, ipotesi non riduzioniste non dicono che deve esserci una guida divina, dicono che vi deve esser una cosa diversa da tutto il resto, il senso morale, che e' solo di alcune creature (adulti umani, ma moltio adesso dicono anche le scimmie, chiedasi Bisin sugli esperimenti nel "sense del giusto" -in termini anglo the sense of distributional fairness, se io ballo e mi danno due banane e' male che diano tre banane a mia zia che balla come me.)

allra sur le fond, manco di ogni abilita' a discettare sul senso della vita, la mia ne ha nessuno e dubito che chiunque abbia una tale, inventata quanto si vuole, scoperta/costruzione del senso della vita. la "vita" cosidetta e' un limitato fenomeno molecolare di corta durata e nesun impatto su nulla (chiedete ai buchi neri quanto fotta a loro di quel che fa palma, per conferme.)  E' pure un fenomeno a termine tragico, con la morte di tutti e il piu' delle volte con dosi assurde di dolore coinvolte nel decesso.

La morale in origine ha due aspetti: uno e' clanico e uno e' teoria dei giochi. Quello clanico mio , vale a dire chi piace a me, ha nessuna importanza qui. Quello di teoria dei giochi mi diede l'unico comandamento serio: si comincia qualsiasi cosa cooperando, al primo segno di defezione dell'opposizione, la sola unica strategia e' sterminare l'opposizione, non serve esser cruenti, il sublime disprezzo e' sufficiente nella maggioranza dei casi. 

Come giustificazione, la morale non ne ha, il kantismo e razionalismo quanto il consequenzialismo sono meccaniche riduzioniste che spiegano cosa segue (vale a dire sono fenomeni di fini-in-relazione-al-mezzo.) esempi: perche' non rubare: razione K (da Kant) se rubassi saresti irrazionale visto che non vuoi in preda a generalizzazione che tutti rubino tutto, razione C (conseguenzialista): non rubi perche' non accresce la felicita' collettiva, il benessere, eccetera, decidi di caso in caso qual sia la scala temporale (uno dei bizzarri paradossi utilitaristi e' la famosa orrenda conclusione che D Parfit tanto odia.) Per evitare il dottismo e la citazione. Parfit sostiene che se avessimo una societa' in cui moltissimi (diciamo 80% degl iindividui da considerare) godesse moltissimo della condizione schiavile moderate del 20%, un utilitarista deve dire che quello e' moralmente equilibrato e Parfit dice che non lo e manco per sogno. Se la cosa appare ubbia dei filosofi, considerate la fonte centrale di oppressione umana contemporanea, la soggiogazione delle donne. Moltissime veroniche berlusconi si godono del loro stato schiavile, e moltissimi mariti si godono la loro supremazia. A me il tutto sembra ovviamente immorale, come la famiglia, lo stato etc.; ma sia come sia il meccanismo non produce la corrispondenza corretta tra intuizioni e effetti (se tutte le vacche del mondo soffrissero un po' a esser macellate e tutti gli umani mangiassero solo bistecche, il pensiero utilitarusta dice che tutto va bene madama la marchesa, tranne due miliardi e mezzo di hindu e buddhisti che pensano la vacca sia sia sacra e che il dolore e' male, punto e a capo, non male-per-nash equilibria n.77-

I problemi di computazioni sono (forse) solvibili, non e' solvibile il conflitto, quando anche mi dimostrassero che la morte di mio figlio per tumore indotto e' utille all'oncologia mdoerna, all'esperimento 73, a me risulta immorale "sacrificare" mio figlio, non ho figlio ma simpatizzo con chi non lo fa, come simpatizzo con chi vuole la figlia morta se la figlia soffre e gli allocchi spiegano che la vita e' un dono divino etc.

rimangono le morali della virtu', che non rispondono alla domanda, e perche' dovrei esser virtuoso? tuttavia colgono un ramo della psicologia morale, nel senso che dicono cose prudenziali e meno normative (se rubi fallo per fame e non per ingordigia, se uccidi, quando combatti, non per astio di torero, se menti, per coprir le piccole pecche degli innocenti e non i sorprusi osceni dei potenti.)

la domanda di michele (boldrin, qui sopra) e' tale che la mai risposta e' brutalissima, se mi chiedo, argomento su cui abbandonai il campo d'onore decenni fa, cosa sia il senso della vita, la risposta e' nessuno, ma proprio nessuno, non ho nulla da inventare in merito, a me appare come chiedersi cosa si puo' inventare per la produzione del moto perpetuo e dei cerchi esagonali. se la domanda e' come comportarmi, e' di una banalita' eclatante.

produrre il meno male possibile a chi non fa del male, si anche ai ragni, ai bambini mongoloidi, agli allocchi che non si fermano alla precedenza in automobile, agli sbruffoni che parlano di politica. per ragioni diverse rimango fedele all'idea che l'onore se toccato davvero va difeso, in barba alla retorica del perdono e alle sciocchezze dei religiosi di varie temperature e temperamenti.

cosa guida cio'? non molto, tranne due sensazioni (si sono abbastana Humean in quel campo) la passione per il ribilanciamento dell'ingiustizia, e se lo stato di israele toglie terra ai contadini palestinesi che gliela ridia, e un institivo aborirre il dolore puro e semplice.

la questione metafisica vera e' perche' c'e' il male, pensai ad un certo punto che avessero ragione i miei collegi (di Hsr) e che la risposta sia Agostiniana (da Agostino d'Ippona, l'originatore delle teoria privativa, i.e. Goebbels non e' "male" e' privato della virtu' della compassione, della solidarieta', etc.)

Adesso penso di no, c'e' proprio il male che guida la infinita schiavizzazione degli umani, mi illumina di piu' il testo arcaico e violento:

 

 

\beg quote

But I that am not shapte for sportiue trickes,

Nor made to court an amorous looking glasse,

I that am rudely stampt and want loues maiesty,

To strut before a wanton ambling Nymph:

I that am curtaild of this faire proportion,

Cheated of feature by dissembling nature,

Deformd, vnfinisht, sent before my time

Into this breathing world scarce halfe made vp,

And that so lamely and vnfashionable,

That dogs barke at me as I halt by them:

Why I in this weake piping time of peace

Haue no delight to passe away the time,

Vnlesse to spie my shadow in the sunne,

And descant on mine owne deformity:

And therefore since I cannot prooue a louer

To entertaine these faire well spoken daies.|<[A2v]>

I am determined to prooue a villaine,

And hate the idle pleasures of these daies:

\end quote



ritorno sull'argomento/// se necessario, chiedetevi solo se, in assenza del male, anche le evoluzioni piu' bizzarre dei giochi giocati avrebbero prodotto un vasto catafratto catafalco quanto la morale


per gli incliti che leggono annabella, Brecht & Eisler, 1945,

Shakespeare, W Richard III of Gloucester, 1592

ci sentiamo in serata, giornate un po' convulse. 

Ma so che lei sa attendere e perdonare il mio eccessivo interesse per annabella ... 

Dice il Palma che il potere viene prima della morale e che quest'ultima lo razionalizza. Due osservazioni.

(1) Che forse questo e' tema per la prossima puntata, ossia per la politica. Vero che e' difficile pensare ad un qualsiasi ruolo per la morale in ambito di totale solipsismo ma non impossibile, spero concorderai. Seppur convinto che il 90% (o 99%) di quanto chiamiamo "morale" abbia a che fare con la presenza di almeno un altro insisterei sull'opportunita' di provare a pensare alla morale anche nel caso ipotetico di totale solitudine. Tempo perso? Forse ma non necessariamente.

(2) Seppur spesso l'argomento che proponi m'abbia convinto (a dire il vero, quasi sempre pensando alla politica) devo dire che sul piano puramente logico mi lascia insoddisfatto. Non per ragioni banalotte del tipo "che immorale, pensa solo al potere", sia chiaro. Ma proprio sul puro piano della teoria positiva: anche colui, o coloro, che "cercano solo il potere per se stessi" ha/hanno alla fine un obiettivo, una motivazione, un anelito che li spinge. Fosse anche solo fare "il cazzo che gli tira al momento" questa e' la loro morale e, piaccia o meno, in qualche maniera l'hanno scelta. Detto altrimenti, potere e morale viaggiano in coppia e sono le facce (nell'ambito interpersonale) d'una medesima medaglia, l'una giustifica l'altro, l'uno sorregge l'altra. Sono, quindi, codeterminati anche proprio sul piano logico: voglio potere perche' voglio e se voglio esiste un X che voglio ed ho scelto di ottenere.

Ragioni schiave delle passioni e viceversa vorrei aggiungere. Il caso del potere e della morale mi sembra paradigmatico: solo le passioni che riescono a schiavizzare tanto la ragione da renderla ad esse, alla loro realizzasione, funzionale hanno maniera di realizzarsi. Le altre son fiammate che tendono ad autodistruggersi. Questa a me e' sempre apparsa osservazione non secondaria, ancor piu' convincente post Damasio et al. se e' vero, come l'evidenza da loro cumulata sembra suggerire, che senza passioni a motivarla la ragione non solo serve a nulla ma proprio non funziona, non e' piu' "razionale" ma sconessa, inefficace, irrazionale ... Il che ci porta ancora al punto del telos, della conoscenza di se stessi e della scelta (fra le mille passioni spesso contrastanti che fan baldoria dentro di noi quotidianamente) di quelle da seguire e di quelle che no. Razionalmente, temo.

Regressione non finita a cosa motiva cosa. Verissimo, ammetto che vi sia questo grande casino. Ma non solo qui, non credi? Non e' forse questo altro che un caso speciale del problema generale dei "fondamenti" di questo o di quello che pensiamo di "conoscere". Qui, come altrove, io tendo ad accontentarmi, per puro pragmatismo, di fermare la marcia indietro in un qualche punto arbitrario temporaneamente soddisfacente. Non so se l'X(t) (in parole: la "motivazione X che il giorno t =0,1,2, ... m'accontento di dare al mio principio/proposito in esame) sia quella "giusta", definita o fondamentale (ossia "vera" :)) ma, nella misura in cui non so andare onestamente oltre mi fermo ed aspetto che nuovi stimoli o evidenze mi ripropongano di nuovo la questione. Ma nel frattempo, a t, X(t) e' la "motivazione" del mio agire, il suo fondamento. Temporaneamente assoluto, se posso cosi' dire.

Soggetto confuso: senza dubbio alcuno, non ne discuteremmo da decenni (tu ed io, altri da secula seculorum) se tale non fosse. Ma that's where the fun comes from, no?

Sur le fond, perdonami, ma fai un gioco di parole sulla parola "vita". Che e' certamente la cosa biologica o molecolare che accenni e lo sono anche la tua e la mia. Ma, nondimeno, la tua e la mia sono le specifiche realizzazioni biologiche che ci interessano e, siccome le viviamo, in qualche maniera, scegliamo di viverle visto che non ci siamo ancora uccisi. Onde per cui, piaccia o meno, un senso l'abbiamo scelto, fosse anche lo sforzo sisifico di negarglielo ogni giorno. Mi sembra impossibile sfuggire da questo fatto: che la vita del signor S qualche senso il signor S deve averle attribuito. Il suo senso. Mi focalizzo troppo sul dasein? Forse, vizio antico come sai ma inevitabile per quanto mi riguarda. E non credo riguardi solo me ...
 

Clanico (Palma a volte riesce ad essere ermetico assai, hence il link) o gamico (a volte lo imito :))?

Sulla regola giocosa che suggerisci son da tempo in accordo MA, faccio umilmente notare, anche questa, soprattutto questa, regola e' appunto una morale. Te la sei scelta, come il sottoscritto e con qualche motivazione ne son certo. Di questo si discute, trattasi di regola morale prima che della teoria dei giochi (la quale ci offre mille altre strategie di implementare l'intuizione generale del "tit for tat" in giochi ripetuti.  A volte basta una deviazione, a volte meglio due o tre o cinque ... ed anche la punizione e' non necessarimente unica, dipende. E se dipende, per esempio, dal costo della punizione non solo per chi la subisce ma per chi la somministra ecco che la morale, nel senso in cui ho provato qui a discuterla, rientra dalla finestra nella versione "funzione di utilita'" la quale e' tutto fuorche' un "dato naturale immutabile", come siamo andati imparando.
 

Da cui segue, chiaramente, che la tua osservazione "parfittiana" e' perfettamente condivisibile (ne' K ne' C soddisfano i requisiti fondazionali che aspirano darci) ma proprio per questo rende rilevante che ne dibattiamo. Ossia, perche' cazzo siamo (sono, ma credo tu lo sia) in accordo con l'invettiva di Parfit (ora che mi sovviene, da qualche parte su questo sito ho la bozza di una lunga pippa sui due oramai non piu' recenti tomi del signore in questione ... dovrei finirla, lo facciamo assieme?) anche se non sappiamo forse bene (nel giochetto a ritroso che hai suggerito ed ho discusso prima con il mio X(t)) perche' cazzo siamo (sono) cosi' convinti che Parfit abbia "ragione" a prendersela? L'esempio delle veroniche ovviamente calza e non smetto mai di chiedermi perche' - quando son tentato di dirmi "beh, alla fine, la signora ha realizzato il suo telos cosi' facendo: vendersi sapeva e non altro, si vendette e visse non peggio di quando avrebbe fatto se non si fosse venduta al miglior offerente". Lei di certo cosi' la vede ogni volta che arrivano gli Nmila euro mensili che le son toccati ... e chi son io per darle torto? - invece a me sembra non solo che la cosa sia "immorale" ma che nemmeno lei lo abbia gradito? 

Ragione per cui NON ti credo neanche per un secondo quando scrivi che "se la domanda e' come comportarmi, e' di una banalita' eclatante."

Infatti gli esempi che porti suggeriscono proprio questo, che le tue regole morali ce le hai eccome. Che il loro fondamento sia alla Hume non lo dubito, l'uomo aveva colto nel segno li'. Ma non basta: di passioni tante ne abbiamo ed in conflitto, incluso sugli esempi che sollevi. Se decidi di dare priorita' ad una passione e non all'altra allora, mi dispiace, hai scelto il senso della vita tua, almeno temporaneamente e ti sei scelto una morale. 

Dell'inevitabilita' di tale scelta si discute. Dell'opportunita' che sia cosciente, ossia che riconosciamo d'averla fatta e cerchiamo anche di capire cosa, in noi, ci ha spinto a farla quando e perche' (e se saremmo disposti a mutarla) volevo discutere. E ti ringrazio per averci contribuito.

 

In quella che sempre più appare una ricca molteplicità di stimoli, la più efficace sintesi dell'insieme pare essere: “Io sono le mie scelte e niente altro.” Questa non solo si presta a disegnare il percorso verso una definizione accettabile di morale, ma anche può servire come criterio, che poi sembra essere l'obiettivo di questo post. Una scelta che mi migliora sarà una scelta morale, una scelta che mi peggiora sarà una scelta a-morale più che immorale, visto che, come da tutti qui riconosciuto, immorale è solo un giudizio relativo. Inoltre sembra così anche preclusa quella inclinazione morbosa ad imporre la morale agli altri.

Tuttavia, tutto questo rimane sul piano della temporalità, il quale sembra essere un concetto definitivamente acquisito dalla modernità, Dio è morto da tempo, e dunque meglio evitare di attardarsi a sfondare porte aperte; la questione più intrigante l'avevo posta a stimolo, non raccolto, di una componente spaziale oltre che temporale, o se si vuole contestuale, che poi è la premessa di un trasporto del problema sul piano politico.

E qui si deve rilevare che la cultura anglosassone annovera ingegni brillanti e acuti, che appoggiano il loro anche grande riscontro alla dote innata di rimanere accosti al buon senso o senso comune, un modello fu Bertrand Russell che, per la verità, troppi più che utilizzare per ispirarsi emulano, e che a leggerli sembra di leggere i grandi del passato: Tacito, Livio, Sallustio, Cicerone, e perché no anche Virgilio, e tuttavia, come accade per quelli, finita la lettura, sembra che qualcosa manchi, e qualche cosa non di accidentale, ma di sostanziale. Una sensazione, appunto, di vuoto.

Questo solo per dire che spero non si finisca alla fine per teorizzare per l'etica l'esportazione della democrazia. Perché gli anglosassoni e derivati sono decisamente simpatici, e anche molto simpatici, ma non sempre. Anche se c'è da dire che lo sono più spesso dei sassoni che sono, anch'essi per naturale inclinazione, sempre portati ad esportare agli altri troppe più cose.

la cripta in cui il criptico palma vive non e' caverna platonica.

'clanico' l'aggettivo viene da (anticamente scozzese poi diffusosi ovunque) CLAN, nel senso di famiglia, non intesa come i consanguinei, ma come gruppo di ui la persona fa parte. a volte basate sul servaggio (crofting per chi sa l'economia) a volte sul territorio occupato (per cui i servi dei lacedemoni se combattono combattono per i due re di sparta perche' vivono della stessa terra, anche se non si sposano mai) a volte persino su bizzarrie come quelli che parlano la lingua mia e di mia madre (mia madre mi parlava in un patois comico di venexian e di francese, per cui non sto a ripeter quanto sia confuso io da quelli che mi mandano oscure minacce se non voto per la "liga" di alberto di giussano...-)

il riferimento alla morale e' il seguente. quando scelte si operano, la morale (a mio avviso, ma invito dissenso) e' imparziale, nel senso della "legge uguale per tutti", nel senso dei moderni la legge e' formale: nulla importa e nulla segue dal fatto che sia vescovo, baronetto, villico, borghese di citta' o alta borghesia bancaria; se x ha rubato si applica la legge sul furto, non si da guarantegia di nascita, di censo, di sesso, di religione, etc. 

Quel che suggerisco e' che quando facciamo scelte serie sempre e quasi d'istinto il clan conta.

se ci fosse un cataclisma in Missouri, per dirla semplice, mi preoccupo della sorte di DKL & MB prima degli altri. si noti che i due in questione non hanno nessun difetto o pregio in piu' o in meno di tutto il resto della popolazione, sono quelli che stanno a cuore a ME, non al principio.

 

Questo per me ' un problemino non semplice, e per questo abbiamo con fatica inventato idee come il principio della chirurgia (mio padre faceva il microchirurgo e non avrebbe mai toccato me appunto perche; essendo il clan suo in ballo, ritenne sempre che non era freddo abbastanza al tavolo col bisturi) e il "conflitto di interessi" per cui un magistrato che giudica, che so del divorzio di Berlusconi e' bene non si fidanzi con donna Barbara e che non abbia un legame con donna Veronica. Perche'? perche' il clan conta e molto, e si cerca di arginarne gli effetti. Qunato in l;a si spinga questa opera di argine e' discutibile ma questo ho in testa.

 

 

Ritorno con piu' calma sul resto, rimasi fedele da tanti anni all'idea che ci cio' di cui non si parla chiaramente, si tace, non si fischia, si bofonchia si sbraito (se sbraito e' esclusivamente perche; mi incazzo, un fenomeno che a me e' preclaro, mai trovai il balsamo che mi fa non incazzare.)

ritorno domani sera con meditate riflessioni se ci riesco. trovo il problema morale un enigma, la ragione e' davvero filosofica. di tutto cio' di cui si puo' dire che sia falso o vero o "in mezzo" (probabile, verificabile etc.) i comandamenti morali non stanno li. Il fatto che anche se tutti, che ne so, rubano e mentono, NON esibisce nessuna falsita' per comandi come "non mentire" e "non rubare". cerchero' di spiegarmi chiedendo venia se utilizzo le scadenti qualita' morali mie in merito.

 

il senso del suo "clanico", ed è un ottimo punto di partenza.
Il luogo d'origine (dunque la spiegazione) del sentimento morale è quello che lei chiama Clan, che io chiamai "gruppo umano" e che la sociologia chiama gruppo sociale primario.

Secondo la definizione che copio da Wikipedia, questo è

 

composto da almeno tre persone che interagiscono per un periodo di tempo relativamente lungo, sulla base di rapporti intimi faccia a faccia

 

Non solo famiglia quindi, ma piccole comunità come tribù, o anche consessi di colleghi, o altro, che come scrive lei possono essere

 

basate sul servaggio, a volte sul territorio occupato, a volte persino su bizzarrie come quelli che parlano la lingua mia

 

O altro ancora.
Decisivo è che le persone in gioco siano almeno TRE (il duale è escluso) che l'interazione tra di loro sia sufficientemente lunga (vedo bene che è relativo, ma accontentiamoci) e che sia basata su rapporti intimi faccia a faccia.
Questo è il luogo di indagine. Se conveniamo su questo, è già qualcosa. A domani.

N

ordunque, per ragioni autoevidenti (vale a dire problemi difficili e confusi generano enorme quantita' di fumo e nessun arrosto.)

dato e non concesso che vi sia un problema morale, inizio solo a romper tube fallopiane e testicoli all'uditorio. venia chiedo se davvero parlo ex-cathedra. so che non e' popolare ma quanto esiste L. Napoleoni che dice di essere "come" K. Arrow & R. Lucas 'economista', molti come tal Fusaro si vezzano di far il filosofo. Ogni tanto mi scoccio, di solito non mi fotte nulla e se mi chiedono che faccio rispondo con elucubrazioni che sono vere ma incomprensibili (do un esempio in coda per superar alla svelta gli alti lai della cripticita' e cosi' via.)

allora.

1. bisogna decidersi su c osa sia l'oggetto in discussione. mio suggerimento: i valori, siano essi la famiglia, la patria, la buona creanza, le equazioni differenziali, l'aver un capo dello stato femmina, non sono oggetti morali per nulla. Sono ordinabili, come cercai di indicare, e non sono ontologia di nulla; vale a dire in un mondo senza mercato, vi e' nessun valore. 'mercato' qui vuol dire" insiemi di fenomeni che hanno a che fare con scelte che hanno tre e solo tre risultati, i.e. menodi indifferentetra piudi. punto

2. oggetto morale e' invece domanda (posta da Michele Boldrin) perennne del leninismo: che fare? qui vi sono due opzioni. a. non porselo b. provare a vedere se si possono  regolarizzare alcune scelte

3. se si prende b vi sono due problemi. uno e' scegliere le regole (bisogna dire buongiorno a tutti o solo a quelli senza faccia da deficiente?) e due, dicono in molti bisogna  giustificarle.

4. all'opzione 'due' scattano i filosofi, con le tre opzioni messe in topografia, di solito dette deontologia (vi sono dei doveri e basta, le conseguenze sono irrilevanti, il mestiere dell'individuo morale e' far il suo dovere, ne di meno ne di piu'), conseguenzialismo (le regole vanno calibrate inferendo cosa siano le conseguenze e le conseguenze vanno ordinate in termini di desiderabilita'), teoria della virtu' (la piu' complicata e metter in forma: esiste una natura che in qualche modo e' ricevuta [da darwin, dio, o nash], compito dell'individuo morale e' farla prosperare, se virtu' e' esser sinceri e coraggiosi, bisogna dir la verita' e cacare sul petto del nemico sul Piave, etc.)

4. vi sono poi questioni aperte, se esistano fini cosidetti non strumentali (fine del coltello e' tagliar la bistecca, non si capisce bene se la vita di Palma abbia un fine [una fine ringraziando gli dei, un fine non si capisce], meno ancora se l'impero prussiano abbia un fine etc.

5. ancora piu' oscuro (a me) la ricorrente question del senso della vita. il "senso" in questa accezione deviante mi appare spesso una recita in cui non vi e' mai ne autore ne pubblico (il senso di Pirandello e' la perdita dell'identita' dell' io gia' vissuta da Svevo ma messa in dubbio dal prof recalcati e da maria de filippi, etc. etc. etc.) non so bene nemmeso se sia una domanda morale.

6 equivoci: la morale impone la collettivita', no, se uno pensa ad una regolarita' se la puo' benissimo impore da solo (ad esempio, anche se fossi l'ultimo della specie posso benissimo considerare moralmente inaccettabile di suicidarmi fosse pur per noia, Kant ha l'esempio folgorante nella sua chiarezza di due individui unici superstiti di un massacro globale, se io fossi quello che non e' colpevole e l'altro e' colpevole devo applicare la pena di morte a lui/lei e se sono io colpevole e' mio dovere morale farmi fucilare)

7 la ragione per cui l'equivoco e' importante e' tecnica ed e' apprezzata da chi fa il filosofo. Indicare o scoprire l'origine di x NON e' la spiegazione di x. esempio, se uno dovesse spiegare il fenomeno famoso e discusso di Schicklgruber, a nulla e' d'aiuto sapere che viene da Linz, che il papa' va al bar etc. Esattamente nello stesso modo e' insulso dichiarare che l'origine, divina e evoluzionistica, effetto di ripetuti giochi di Aumann o quel che avete in testa voi, dia una spiegazione. Vi son due motivi a cui accennai ma forse non son chiari. La struttura non finita della domanda morale, questo e' il famoso dilemma di Eutyfro, nei dialoghi platonici. Fosse anche vero che dio mi disse di fare p e che me lo disse in una lingua che capisco e non ubriaco etc. la domanda rimane se sia GIUSTO fare p. Per chi non si fida dei greci, Abraham sa benissimo che sgozzare suo figlio e' un infamia, lo fa in uno stato di sospesa incredulita' seguendo l'ordine divino di "controvoglia" (per chi e'  lettore, il dio biblico quando si sente bene sa benissimo cosa e' giusto, qaundo gli girano le scatole, e' piu' creativo, come quando scommette  con satana se rompendo i coglioni a Giobbe vi sarebbe stato un bello scherzetto da riderci su.) Se l'orgia di interventi divini distruba, vi offro un altro ragionamento. L'evoluzione delle forme del comportamento sessuale ha prodotto sia gli stupri che grandi amori (Bergamn & Bogart, Minnie e Topolino, chi vi pare a voi.) Ora se uno pensa che lo stupro sia moralmente sbagliato o pensa sia moralmente giusto appellarsi all'origine di attivita' sessuali nell'evoluzione e' sciocco, allo sperma, persino al gene cosidetto egoista di Dawkins, non fotte assolutamente nulla se invito Rosi Bindi a cena con le ostriche e i fiori o se stupro la Zarina di tutte le russie perche' sono un porco bolscevico. Molti, sottometto qui l'ipotesi al vostro parere, continuano a pensare che lo stupro sia abominevole moralmente anche nella condizione (meno rara di quanto si creda) in cui sia un fenomeno di enorme masse di persone (Sarajaveo, Syria oggi. Boko Haram, le fraternities di Duke university in NC, e gli esempi si posson moltiplicare. Ripeto che sia diffuso, evoluzionasticamente comprensibile, fa NULLA alla sua spiegazione morale. La spiegazione richiede un altissimo tasso di integrazione teorica, per intendersi, capiamo dopo 26 secoli cosa sia la geometria con Grothendieck e Connes non guardando ai triangoli sulla sabbia. Un mix complicatissimo tra intuizione, deduzioni, ipotesi molto generali su cosa sia il "bene" in 'benessere', a volte determinazioni di oggettive bonta' di certi stati mentali (il piu' famoso e' la buona volonta', vale a dire si puo' far del male se in foro interiore sinceramente fu creduto che quello fosse il bene), e spessissimo incrostate tradizioni difficili da capire (ho in mente dibattiti molto africani se sia o no moralmente giustifcabile la poligamia). per quel che vale, non penso che siamo (io non sono di certo) in nessuna vicinanza delle forme di comprensione vere che fu ottenuta in geometria. o il problema e; bastardo e confuso o siamo molto indietro.

per la cronaca, cosi; evitiamo chiacchere.

i. il fenomeno Schcklgruber e' Hitler (quello e; il suo nome)

ii il maggior filosofo morale vivente (d parfit, nel suo monumentale e pesantissimo )1400 grammi) volume su cio' che conta (ON WHAT MATTERS, 2. vols. Oxford 2011) ritiene che tutta la topografia succitata vale meno del vento tra i canneti

ii. quando mi chiedono cosa mi interessa rispondo "lo stato modale della chimica. si supponga che Palma sia carbonio, ossigeno e un po; di altre scemenze. dunque si sa che palma e' (fatto di carbonio), si supponga pure (cosa vera) che palma non puo' (quella e' la modalita' del possibile) esser un diamante. COME si sa che palma non puo' esser un diamante? si noti che l'osservazione di tutti diamanti dell'universo o di palma conferma che NON e' un diamante, ma non PUO" esser un diamante (si chiama essenzialismo in filosofia, ma non ho voglia di dilungarmi, di solito terrorrizza l'interlocutore e non mi rompe i coglioni sul mio parere sulal cura dei cristalli e la re-incarnazione)

sul fondo ritorno perche' ci sto pensando.

 

Le tre opzioni citate da Palma sono schematicamente esposte qui

I dibattiti, anche i piu' vitali ed interessanti, ad un certo punto occorre sospenderli. Magari per riprenderli piu' avanti, ma intanto si sospendono e si porta a casa quello che ci hanno insegnato, se qualcosa ci sembra abbiano insegnato.

 Per questo io al momento mi fermo qui. Ringraziando sia chi ha letto che chi ha commentato. 

Mi rimangono in testa svariate domande, una fra tutte: quella che Palma nega valga la pena porsi in 5 sopra. Probabilmente, per quanto son capace di intendere e dire, ha ragione lui e credo la avra' per sempre. La cosa mi disturba e sempre mi disturbo' perche' da quasi sempre (credo sian circa 40 anni oramai) arrivo anche io alla medesima conclusione ed essa mi sembra impedire di pormi l'altra, quella del cosa fare. Ma forse son io ad errare nel vedere una consequenzalita' fra le due, forse ci si puo' porre la seconda ignorando la prima.

In ogni caso, quel disturbo mi motiva a pormi questa ed altre domande e questo domandarmi io lo chiamo "senso" in mancanza di una parola piu' adatta. Alla prossima volta, quando verra' se verra'.

 "che serve per terrorizzare l'interlocutore", dottor palma, lei vuole indur me o altri a tacere e non romper più le palle, allor me lo dica, e del parlar mi traggo.

Se non è così, invece, volontieri proseguirei il dibattere, e lo farei nel senso filosofico vero, ossia di quello che è interessato a capire, non di quello che vuol mettersi a gara. Pure nel suo terreno, cioè accogliendo le direttive sue, e cercando di usare i termini suoi. Se ne imparo qualcosa glie ne sarò grato. Cito quindi i suoi punti.

 

 

1. bisogna decidersi su cosa sia l'oggetto in discussione. mio suggerimento: i valori, siano essi la famiglia, la patria, la buona creanza, le equazioni differenziali, l'aver un capo dello stato femmina, non sono oggetti morali per nulla. Sono ordinabili, come cercai di indicare, e non sono ontologia di nulla; vale a dire in un mondo senza mercato, vi e' nessun valore. 'mercato' qui vuol dire" insiemi di fenomeni che hanno a che fare con scelte che hanno tre e solo tre risultati, i.e. meno di indifferente tra piu di. punto

 

Sono d'accordo, se ho ben capito il senso di ciò (non ho capito cosa sia un "oggetto morale").
I Valori morali, nella mia concezione, sono schemi di giudizio, giudizi campione, che servono per guidare l'azione. Sono soltanto ordinabili, come dice lei, cioè hanno senso solo in relazione a meno-di / indifferente-tra / più-di.
Cioè sono non-misurabili, ed hanno a che fare solo con le scelte del soggetto che agisce.
In un mondo senza soggetti che operano libere scelte non ci sono Valori. Ok.

 

 

2. oggetto morale e' invece domanda (posta da Michele Boldrin) perennne del leninismo: che fare? qui vi sono due opzioni. a. non porselo b. provare a vedere se si possono regolarizzare alcune scelte

 

Di questo non ho capito una sem-bela, Lenin a parte.
Che fare? Fai ciò che è giusto.
E cos'è giusto? Ciò che produce il bene.
E cos'è il bene?
Eccola, LA domanda. E' sempre questa dall'inizio, no?

 

 

3. se si prende b vi sono due problemi. uno e' scegliere le regole (bisogna dire buongiorno a tutti o solo a quelli senza faccia da deficiente?) e due, dicono in molti bisogna giustificarle.

 

 "Bisogna" se ci si confronta eticamente (come MB sembra ritenere che si debba fare). L'alternativa è NON giustificarle. Cioè imporle. E' così e basta. Devi salutare tutti, anche quelli con la faccia da deficiente. Se mi incontri e non mi saluti perche non ti piace la mia faccia, io ti gonfio di legnate.

 

 

4. all'opzione 'due' scattano i filosofi, con le tre opzioni messe in topografia, di solito dette deontologia (vi sono dei doveri e basta, le conseguenze sono irrilevanti, il mestiere dell'individuo morale e' far il suo dovere, ne di meno ne di piu'), conseguenzialismo (le regole vanno calibrate inferendo cosa siano le conseguenze e le conseguenze vanno ordinate in termini di desiderabilita'), teoria della virtu' (la piu' complicata e metter in forma: esiste una natura che in qualche modo e' ricevuta [da darwin, dio, o nash], compito dell'individuo morale e' farla prosperare

 

Teoria della virtù a parte - che mi pare altra cosa, è una posizione etica - si tratta dell'antica distinzione tra criterio deontologico e criterio teleogico (non capisco cosa abbia inventato di nuovo e originale la Pippa Foot con i suoi esempi). 
Questo è un problema nel problema, perché si tratta di una scelta fra criteri di scelta. Non riguarda bene e male cosa siano, ma giusto e ingiusto come si determino, a partire da verità etiche che si presuppone di possedere.
Nell'esempio del giudice di Filippa. Si assume, per ipotesi, di sapere già che condannare un innocente è male, e che lasciar morire n persone nei tumulti è un altro male.
Ma nonostante queste verità etiche in tasca, nella scelta pratica il dilemma si pone. Ho una mia posizione in merito, se interessa porto pure i miei di esempi. Ma è importante notare che qui siamo a margine del problema etico, che è centrato nella domanda fondamentale che domanda il bene e il male cosa siano. Questo dilemma invece verte sul criterio di scelta nell'azione: ci si domanda qui come sia giusto comportarsi, data una nozione di bene e di male, che si presume di avere a priori.

 

 

5. ancora piu' oscuro (a me) la ricorrente question del senso della vita. [...] non so bene nemmeno se sia una domanda morale.

 

 A me pare di no. Perlomeno in senso stretto, certamente non lo è.

 

6 equivoci: la morale impone la collettivita', no, se uno pensa ad una regolarita' se la puo' benissimo impore da solo (ad esempio, anche se fossi l'ultimo della specie posso benissimo considerare moralmente inaccettabile di suicidarmi fosse pur per noia, Kant ha l'esempio folgorante nella sua chiarezza di due individui unici superstiti di un massacro globale, se io fossi quello che non e' colpevole e l'altro e' colpevole devo applicare la pena di morte a lui/lei e se sono io colpevole e' mio dovere morale farmi fucilare)

 

Se c'è un equivoco lo fughiamo (ma già ho chiarito nella risposta a MB con l'esempio dell'individuo disperso in un isola deserta): la morale non "impone la collettività", cioè la Coscienza continua a operare anche nella solitudine più assoluta, senz'altro.
Ma la morale ha senso solo nella prospettiva collettiva, ossia si forma e si giustifica nei gruppi sociali (è clanica, con le parole sue).
Significa che il Robinson Crosue sperduto nell'isola ha ancora i suoi Valori e la sua Coscienza a guidarlo, ma quell'individuo-solo è ancora membro di una specie, ed è stato necessariamente nel suo passato membro di gruppi sociali. Ha avuto una madre, che gli ha dato il suo latte, delle persone che gli hanno dato delle cure ed altre che gli hanno impartito degli insegnamenti. La sua Coscienza si è formata in un contesto collettivo.
Per fare un esempio di "solitudine" che fosse pertinente si dovrebbe immaginare un essere che si fosse generato da solo, e che occupasse da solo tuto lo spazio vitale dell'intero universo. Ecco: questo essere, se i Valori sono quello che io credo che siano, non ne avrebbe bisogno.

 

7 la ragione per cui l'equivoco e' importante e' tecnica ed e' apprezzata da chi fa il filosofo. Indicare o scoprire l'origine di x NON e' la spiegazione di x. esempio, se uno dovesse spiegare il fenomeno famoso e discusso di Schicklgruber, a nulla e' d'aiuto sapere che viene da Linz, che il papa' va al bar etc.

 

Su questo sono poco d'accordo, dottore. E mi pare che l'esempio di Schicklgruber sia poco attinente. Tra l'altro, molti di quelli che cercarono di capire il fenomeno (magari senza riuscirci) proprio le sue origini indagarono. Ma è altro discorso.
Quando l'oggetto dell'indagine è un qualcosa prodotto dall'uomo, e in modo particolare se è uno strumento - e io credo i Valori siano strumenti, e siano prodotti dall'uomo - la ricerca dell'origine è sempre la strada maestra.
L'archeologo che nei suoi scavi trova un oggetto misterioso e si dispone a cercare di capire cosa sia, per prima cosa cerca di identificarne l'origine. Da chi è stato prodotto, quando, e come.
Subito dopo si domanda a cosa dovesse servire quell'oggetto: il Perché.
Quando ha trovato risposta a queste due domande, può darsi che non abbia ancora esaurito l'essenza dell'oggetto, qulunque cosa ciò significhi per la filosofia, ma certamente può dirsi soddisfatto.
Averne svelato origine e funzioni è sufficiente, per lui, per dire che l'oggetto misterioso ora non è più misterioso.
Ecco: nella ricerca sull'oggetto misterioso "Valori morali" io potrei accontentarmi di ciò.

P.S.
Schicklgruber.
"Pensate voi quanto il caso influenza il corso della storia: se quel tipo là continuava a chiamarsi Schicklgruber, col cavolo che il figlio diventava Führer. Provate voi a gridare:
Heil, SCHICKLGRUBER!"

Non è mia, l'ho raccattata su qualche lettura. Forse era Joachim Fest.



"2. ..... a) non porselo"

Cos'è uno scherzo?

 

Si vuole forse agognare qualcosa del tipo :

"Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale

siccome i ciottoli che tu volvi,

mangiati dalla salsedine;

scheggia fuori del tempo, testimone

di una volontà fredda che non passa.

Altro fui"

 

Perché se davvero Altro non fui, allora cosa resta di diverso dai ciottoli riarsi? Chiedo solo con umile curiosità, si sta qui per imparare.

Mi rendo conto che la logica è gran cosa, ed anche l'utile, ma essere esclusivamente precisi o obiettivi si può solo al prezzo di una necessaria successiva ingente spesa in polvere bianca, per mio oscuro parere. Mi sbaglio?

 

Per inciso la poesia poco più sotto dice:

"Sensi non ho; né senso. Non ho limite.

E questo forse incontra la sensibilità del punto 5 (che poi è 6. per via che 4. c'è due volte),

e può soddisfarne il dubbio chiarendone e dilatandone la portata. Ma, dunque, anche non è vero che il punto 5. sia propedeutico al punto 2.

Ultimo rilievo, e cruciale, mi pare, poi taccio per sempre.

Al punto 6 (o 7 che sia) “equivoci: la morale impone la collettivita', no,”

la cosa appare troppo sbrigativa per una questione così fondamentale. Fa il paio diametralmente opposto con una possibile obiezione di Feuerbach, o meglio e più incisivo di Marx: tutto questo è solo espressione di sovrastruttura borghese.

A nulla vale l'esempio “folgorante” di Kant, perché se in Scozia s'è deciso che il clan si comincia da tre, la molteplicità comincia già da due. E cosa sia un Robinson Crusoe che non tornasse più definitivamente, e neanche conoscesse Venerdì, e neanche servisse almeno da cibo per cannibali, e solo “volesse” da se impiccarsi o cibarsi di mosche o predicare ad alta voce, nessuno sa, e potrebbe mai sapere e neanche lui, o neanche esso, o neanche. L'ultimo della specie umana sull'isola da solo non esiste, potrebbe edulcorarsi una compagnia divina come da copione, ma così siamo di nuovo a due, o almeno mettere un messaggio in una bottiglia, e allora tornerebbe ad essere qualcosa solo quando, rintracciandola dopo un millennio a Fregene, mi sgorgasse una lacrima per lui. Ma anche se il controesempio avesse campo, non è una questione di logica matematica la morale, potrebbe essere il caso di una sua determinazione singolare che non preclude a una manifestazione più piena, e meno angusta. Che è poi, appunto la cosa che sembra interessare.

Se può servire, nel libro-intervista “I corrotti e gli inetti”, Gennaro Sasso dice due cose che potrebbero essere in questo caso di aiuto: “Il mondo dell'accadere non può essere avvicinato a partire dalla sua assolutezza e incontrovertibilità. Dopotutto, è la duttile intelligenza, non la filosofia, che consente di avvicinarsi alla realtà.”

 

...a mio modesto parere il tema andrebbe inquadrato in modo leggermente diverso (e che forse può aiutare). Come dimostrato da diverse ricerche (la più nota è quella sul cd. "dilemma dell'uomo grasso" ora tradotta in italiano e abbastanza nota*) l'etica verosimilmente è innata, perché persone di età, culture, ceto e nazionalità diverse tendono a dare risposte simili a uguali problemi morali (a differenza di quello che normalmente si crede, ad esempio fra i partecipanti a questo dibattito). Innata come ad esempio il linguaggio. Questo vuol dire che parliamo tutti la stessa lingua? O che il linguaggio non si evolve? No, certo. Ma allora, al contrario, possiamo dire tutto quello che vogliamo? Inventarci parole e costrutti linguistici? No, neanche. Questa analogia mostra bene come anche per l'etica (ma anche per l'estetica, in realtà, perché ci sono delle chiare affinità) non esistano valori assoluti, stabili nel tempo; ma neanche valori qualsivoglia; e che i valori sono sociali e collettivi (come il linguaggio, che serve per comunicare), ma allo stesso tempo profondamente individuali (ognuno ha il suo tono e le sue declinazioni) (su questo suggerisco anche le terribili testimonianze di "Uomini comuni" di Christopher Browning sui partecipanti non nazisti all'Olocausto). Credo insomma che questa analogia serva a sfrondare il dibattito da tanti falsi problemi; ma anche a fare salve due affermazioni giuste e fondamentali: che senza etica non si vive (come senza bellezza); e che quello che è giusto cambia sempre - di poco, ma cambia, come la bellezza (o la moda) e che quindi lo si bisogna sempre cercare. Se ci fosse la ricetta per scrivere libri belli, insomma, non verremmo mai sorpresi dai nuovi grandi romanzieri. E allo stesso modo non c'è una ricetta per la morale (fermo restando che possiamo continuare a distinguere un grande romanzo da una ciofeca). Cordialità.

(* ps: chi fosse curioso sull'uomo grasso e non avesse voglia di andarselo a cercare, il dilemma più o meno è così: c'è un treno fuori controllo sui binari, pieno di gente, che sta andando a morte certa a meno che venga indirizzato su un altro binario. Non c'è modo di intervenire da lontano. Un ciccione per sbaglio si mette proprio sullo scambio e con la sua massa potrebbe deviare il treno (salvando i passeggeri), ma lui morirebbe. Voi siete l'unico che potrebbe avvisarlo di spostarsi, lo fareste? Ebbene, quasi tutti rispondono: no (logica utilitaristica: meglio un ciccione morto e tanti passeggeri vivi). Nuova formulazione del quesito: il ciccione è solo vicino allo scambio, il treno continuerebbe la sua corsa. Voi però potreste convincerlo a spostarsi nel posto giusto, con il medesimo risultato di prima (ciccione morto, passeggeri salvi), lo fareste? Risposta di quasi (quasi) tutti: no. Perché non conta la risposta utilitaristica, il fatto viene percepito come sbagliato in sé. Questa è l'etica innata. Largamente condivisa, ma non da tutti)