Anche per me, da quando ho memoria, la domanda fondamentale è stata sempre la stessa "Come devo comportarmi? Cosa è giusto che io faccia?" Cerco ancora la risposta e non mi son stancato, apparenze notwithstanding.
Nulla di eccezionale, lo ammetto. Ma non necessariamente: più vivo e più sospetto che a farsi quella domanda siano (siamo? Spesso dubito della sincerità della mia stessa ricerca) in pochetti. Ed anche quei pochetti neanche sempre. Perché basta guardarsi attorno (o dentro) o farsi due chiacchiere disincantate con il/la conoscente di turno, possibilmente quando dopo alcune birrette parla in libertà, per scoprire che raramente la "ggente" si fa la domandina di cui sopra. Più frequentemente o ben non se la fa o se ne fa un'altra: che cazzo mi conviene al momento, come me la giro, come la sistemo? Come soddisfo ciò che mi "viene" da soddisfare? Si', lo so, detta così sembra la solita tirata di quello che si sente più figo degli altri. Ma forse no, forse è la solita tirata di quello che si sente più tonto degli altri. Ma andiamo per ordine.
Dicono i manuali, e non hanno del tutto torto, che vi siano, alla fin fine, due grandi scuole di pensiero sul tema.
La prima argomenta che esiste un'unica morale "giusta", la quale tale è perché "naturale" - parentesi gigantesca che cercherò di tenere nei limiti di alcune righe: (i) mai capito cosa intendano con questo attributo, quindi non chiedetemi di spiegarvene il senso. (ii) Facciamo finta che "naturale" voglia dire "permesso dalla natura, consistente con le leggi naturali": allora il diritto o l'etica naturale sono tutto il possibile, perché nulla è possibile che non sia consistente con le leggi della natura. Insomma, aria fritta, retorica, cacciarianismi. (iii) Ed infine: ammesso e non concesso che "naturale" possa restringerci in qualche maniera ad un sottoinsieme stretto delle "morali possibili" (vedi (ii)) perché diavolo l'essere naturale dovrebbe rendere giusto il principio in questione? Chi invoca il "diritto naturale" si è mai chiesto quante "morali spontanee" esistono e sono esistite in natura? Lascio al lettore pensare ad ovvi ed orrendi esempi, la conseguenza logica è: nonsense per deboli di mente. Morale "naturale", dicevo, ossia assoluta, implicita nell'universo in cui viviamo, oggettiva insomma nella stessa maniera in cui 2+2 fa 4 e non ci sono discussioni. Il nostro compito è scoprirla, svelarne i principi i quali dovrebbero, da un lato, apparire auto-evidenti e, dall'altro, esser capaci di rispondere ad ogni istanza della domanda fondamentale: la morale universale è uguale per tutti, è quella giusta e sa dirci cosa fare sempre e comunque. Questa è, al mio contare, la posizione di maggioranza fra gli addetti ai lavori e, paradossalmente, anche quella implicita in molte discussioni "da bar" (il bar in questione sembra frequentato da quasi tutti gli esponenti degli "ismi", controllare per credere) durante le quali ci sforziamo di convincere gli altri che "abbiamo ragione noi" e che non ci sono santi: la cosa "giusta" da fare quella è, per tutti indipendentemente da chi siano o siano stati.
La seconda - particolarmente di moda nei decenni recenti ma in realtà tanto antica quanto la precedente anche se per tanto tempo celata in bizantinismi - afferma l'opposto. Siccome non v'è verità alcuna da scoprire ed il mondo è un'invenzione della nostra mente (se non il mondo, almeno il suo senso, le sue regole, le sue ragioni d'essere) allora anche la morale tale è, un'invenzione che cambia a seconda degli interessi o stimoli di chi la propone. Niente è giusto e tutto è giusto, dipende dalle circostanze. Insomma, fai un po' quel che ti pare o conviene (tanto domani è un altro giorno, si vedra') e poi giustificalo in un modo o nell'altro, ci sarà sempre un post-modernista di servizio, un teorete, un fuffaro, un prete ... (sto citando a modo mio da Guccini, non vi surriscaldate oh credenti) che ci troverà una giustificazione lloggica ... Se chiedete all'empirista frustrato che vive in me vi rispondo che, alla faccia di tante seghe mentali, questi sono i fondamenti della morale di quasi tutti noi. E son fondamenti "marxisti" e "neoclassici" al contempo, non scherzo.
V'è un'altra interessante biforcazione del dibattito (che non ho ancora inteso bene cosa produca una volta la si incroci, in una piccola matrice 2x2, con la classificazione precedente) ed è quella più tecnica che distingue il consequenzialismo dalla deontologia.
A chi piace il consequenzialismo sembra che la risposta alla domanda "come devo comportarmi?" dipenda dalle sue conseguenze: fai ciò che ha "buone" conseguenze. Ovviamente questo sposta semplicemente il dibattito di una casella visto che ora dobbiamo decidere quali conseguenze siano "buone" e quali non lo siano, e per chi soprattutto! Noi economisti, in teoria, siamo consequenzialisti in quanto utilitaristi: le cose giuste da fare sono quelle che massimizzano l'utilità aggregata o totale, ossia di tutti quelli che son vivi (ma qui il mio vecchio pard Larry Jones si metterebbe in mezzo a chiedere perché non contiamo, oltre a quelli che verranno, anche tutti quelli che potrebbero venire o avrebbero potuto venire ... ed è un casino che non finisce più). In ogni caso, i consequenzialisti pensano che in questa maniera la soluzione si trovi; siccome i risultati buoni son più facili da trovare che le regole buone, guardiamo ai risultati e le regole creiamole di volta in volta. Discretion, direbbero alcuni, è meglio che rules. Solo che discretion dipende da chi è autorizzato ad essere discreto (scusatemi il pun bilinguistico, stasera va così) e siccome la mia discrezione non è sempre quella del Palma siamo punto ed a capo.
L'approccio deontologico ritiene invece vi siano regole assolute che possiamo scoprire e che dal comportamento secondo regole giuste seguano conseguenze giuste. Ma son le regole che contano, le conseguenze tali sono, conseguenze. Il grande leader qui, ovviamente, è Immanuel con quella sua stupenda frase che qualche volta ancora mi com-muove, quella sul cielo stellato sopra di me e la regola morale dentro di me. Quando poi fa nuvoeo "cassi tui, mi che casso me ne incuea?" dice el Giffo che ha risolto il problema delle mosche in bagno. Fuor di metafora: il buon Immanuel, evidentemente, riteneva che la regola morale dentro di noi fosse identificabile, oggettiva, naturale insomma. Lui s'è accontentato di spiegarci (si fa per dire) come trovarla ma era piuttosto certo che ci fosse. Basta seguire il nostro senso del dovere e la regola del Cristo, non fare agli altri quello che ... Non sembra funzionare, visti i risultati ottenuti sino ad ora.
Mi dicono poi esista un approccio aristotelico che, se lo avessi capito davvero bene, forse potrebbe essere il mio. Per questo lo discuto qui. Dice, in parole povere, che dobbiamo cercare e perseguire il nostro telos personale coltivando ciò che abbiamo di "buono" in noi, le nostre virtù. La difficoltà, ovviamente, viene al momento in cui il soggetto in questione cerca di decidere quali, fra le sue più o meno palesi caratteristiche, siano virtù da coltivare e quali no. Perché se tutto quanto abbiamo in noi stessi è virtù il puro fatto che siamo uno diverso dall'altra ed entriamo spesso in conflitto ci lascia nudi di fronte alle intemperie: il mio telos o il tuo per coprire le nostre impudicizie? A quel punto si fa punto e si torna a capo, a meno di non cadere nel soggettivismo più totale: siccome la caratteristica XYZ io ce l'ho e mi sembra cosa buona allora la coltivo e la mia moralità quella è. Per quanto mi sforzi non mi tornano i conti: se, almeno in parte, il punto di vista morale deve valere anche per altri, seguendo il sentiero del mio telos personale come diavolo arrivo alla condivisione? Forse ci arrivo assumendo che lungo quella strada incontrerò altri con valori simili e che con essi li coltiverò arrivando a costituire una "comunita'" definita attorno a questi valori. Soluzione forse soggettivamente attraente ma che temo non risolva il problema da cui ero partito ... o no? Ne riparleremo nella seconda puntata, parlando di politica.
Ciò che da tempo mi ha portato a leggere Williams è il fatto che riconosceva, come sembra anche a me, insostenibili aporie in ognuno di questi approcci. Siccome, senza riuscire a spiegare bene perché ma basandomi solo sull'intuizione, son convinto che alla fine l'unica morale possibile sia quella della ricerca continua di una morale condivisibile (ecco, ho già rivelato il coniglio che tenevo infilato nel mio cappello ...) la lettura del signore in questione (e di altri, ma stasera ho in mano un alquanto accessibile libro suo, quindi cito lui e mi scuso con le dozzine di altri, il mio amato Isahia in primis, che non cito) mi ha spinto ad iniziare questo post.
Williams insiste sul fatto che, alla fine dei conti, vi sono solo prospettive personali e gli individui che le incorporano. Insomma e subito: siamo assolutamente soli di fronte alla scelta morale del cosa fare, del come comportarci: "The only serious enterprise is living", meaningfully aggiungo sommessamente io ogni volta che ci penso, insistendo per reintrodurre un qualche criterio condivisibile da altri (non oggettivo, quella è altra cosa, mi accontento di "condivisibile da qualcun altro") in quella sua affermazione così convincente. Forse sono solo più vigliacco di BW il quale riusciva a vivere da solo sapendolo, io cerco compagnia ...
Ma torniamo al punto. Che, se capisco bene, è alla fine quello aristotelico: devi vivere, anzi devO vivere (meaningfully, insiste Boldrin) e per farlo non posso impormi di seguire principi e direttive "impersonali" che seguono o ben dall'insegnamento di supposti grandi maestri o ben da una qualche etica "naturale" o anche solo dal mio logico dedurre ... ok, va bene. La pars destruens è perfetta, persino facile tanto che, scusami BW per l'arroganza, c'ero arrivato anche io tanti tanti anni fa, umile campagnolo temporaneamente in giro per il centro storico ... ma la pars construens, quella che mi deve dire come cazzo devo vivere io, come la vogliamo costruire? Io son anche d'accordo (vero Adriano?) che non possiedo alcun free will, che ho i desideri, le voglie, le sensazioni, i sogni che ho e non so bene da dove vengano (oddio, con un po' di introspezione e serio colloquio con lo specchio del bagno, il 99% anche capisco da dove vengano, non è poi così impossibile fra me e me dircelo) ma in questa foresta di stimoli che sono io, IO che cazzo scelgo? Cosa faccio ora, fra due giorni, fra una settimana? Neanche tu, BW, spero vorrai suggerirmi di seguire l'onda ed andare la dove mi porta il cosidetto "cuore", anche perché tutto suggerisce che non mi porta da nessuna parte il cuore e, ogni sera, mi fa ritrovare più vuoto di senso della mattina. O no?
Perché, anche se solo seguissi il mio telos e mi scordassi, caro BW che non mi puoi rispondere e comunque non mi avresti mai cagato, di tutto il sistema di imperativi che viene dal "moral system" rimane sempre il buon vecchio Isahia a ricordarmi che io (come credo tutti gli altri) mille volte mi son trovato a dover ammette che due "indicazioni morali" mi sembravano, contemporaneamente, perfettamente giuste ed assolute ed altrettanto perfettamente opposte. Ossia, o ben facevo A e negavo B o ben facevo B e negavo A. Questo non perché A fosse -B (ossia, negazione logica di B) o viceversa ma perché le mie risorse umane, finite, non potevano essere destinate simultaneamente a usi alternativi. Dovevano andare o da un lato o dall'altro, non entrambi. Mi spiego? Era ed è quasi sempre una questione pratica, BW. Dovevo vivere.
Ma non sempre. A volte è una questione "istintiva". A volte, spesso, ti capita di volere A un giorno e B il giorno dopo, o sei ore dopo. Di percepire la prima alternativa come prioritaria per te durante n ore e la seconda altrettanta prioritaria per te durante le seguenti m ore. Peccato che A e B siano in conflitto, pratico se non logico. Si elidono nei fatti, non nei principi. Allora, quale sarebbe il mio "telos" vero? Quello di A o quello di B? Gli "economisti" hanno la loro versione del problema, la chiamano "time inconsistency" che è un parolone ma ha esempi semplici. Stamane mi son svegliato ed ho notato di aver messo su altri due chili. Non ho voglia, in questo momento, né di scotch né di ostriche e mi sembra assolutamente necessario rientrare nei pantaloni, quindi mi decido di farlo. Ma, verso le 21, ho fame ed in quel momento la bottiglia di champagne è assolutamente invitante, tanto domani bevo solo acqua. Lo so, l'esempio è sia banale che di scuola ma mi basta, ulteriori dettagli potrebbero divertire ma non aggiungerebbero sostanza.
Il punto vero, che non ho mai notato BW abbia colto, è che "living" è spesso altamente incoerente, ci porta a fare scelte in conflitto fra loro e spessissimo ci porta a scelte talmente in conflitto fra loro da autoelidersi ed allora la vita diventa VUOTA perché giri in circolo. Vivi, la vita è piena, non ti annoi mai, hai sempre qualcosa da fare, ma il senso è andato via e non hai accomplished nulla, hai lasciato tutto a metà, hai sospeso, abbandonato, dimenticato, rimosso, sminuito mille progetti, mille desideri, mille sogni. Hai vissuto senza andare da alcuna parte. Ed anche questo non sarebbe un peccato se non fosse, osservazione empirica, che quando così ti succede SENTI dentro di te il vuoto, l'assenza di senso. Ti senti un nulla, anche se non lo dici a nessuno per darti un tono. Insomma, vivere e basta (che, son d'accordo, è una serious enterprise) rischia di essere veramente insoddisfacente se non è meaningful. E, altra mia piccola osservazione empirica, il cervello degli umani è tale che A diventa meaningful (come progetto o scelta di vita) se e solo se, perseguendolo, rinunci a B che pure ti sembrava interessante, ed anche a C, magari. Insomma se e solo se scegli e paghi un prezzo. E più salato il prezzo è più A ha senso, più è meaningful ed ha valore per te, ti riempie. Ok, mi fermo, sembro Camus e non vorrei sembrarlo perché fuori tempo massimo.
Ma spero il punto sia chiaro: anche in una prospettiva del tutto "soggettiva", del vivere il proprio telos, le scelte morali sono inevitabili, i prezzi vanno pagati, la morale oggettiva, che avevamo cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Non sarà oggettiva per gli altri ma lo deve essere per me: ho scelto A ed ho rinunciato a B, C e D e QUESTO sono io, questo è il mio telos che ho scelto, prima non c'era. Io sono le mie scelte e niente altro. Gli economisti chiamano questa cosa "revealed preferences" ma dubito abbiano coscienza delle sue implicazioni, poi ci sarebbe anche l'Antonio Gramsci e persino Roberto Bolaño, ma non vorrei esagerare con le citazioni ...
Scusatemi, mi ha preso la fretta di concludere, si è fatto tardi anche per me. Il punto è che mentre io accetto totalmente l'osservazione del buon BW, e di tanti altri con lui, secondo cui "each person has a life to lead" non posso non ricordare che la life in question da un lato non avviene nel vuoto siderale (vi sono ALTRI attorno a te e, ti piaccia o meno, hai BISOGNO di loro, la tua vita senza loro non ha senso alcuno, non sei un'ostrica) e, dall'altro, persino dentro a te stesso vi sono vari "te", vari progetti, desideri, sogni, ambizioni, pulsioni, principi. Quindi, ti piaccia o meno, devi SCEGLIERE, devi pagare dei prezzi, devi buttare qualcosa, soffrire buttandolo, rinunciarci per davvero e scegliere qualcos'altro. O viceversa, ma scegliere devi. E questo COME lo fai? In base a cosa? Non hai free will, scegli a "caso" che "domani è un altro giorno"? Ok, ma anche questo, figliola mia, è una scelta: la scelta di tirare ogni mattina un dado con N facce ed il numero N lo scegli tu. Quindi siamo punto ed a capo, non c'è via d'uscita da questo inevitabile dovere morale.
Infatti, per questa sera amici miei, mi fermo qui. Nel titolo avevo messo anche "politica" fra "etica" e "vita" ma le contingenze del pensiero mi hanno spinto a saltare da etica a vita omettendo la politica. Sulla quale ritornerò se una qualche pulsione mi motiverà ed un paio di buone birre sosterranno l'intenzione. Mi fermo qui, e riassumo.
Che non possiamo vivere meaningfully senza cercare ogni giorno un senso "assoluto" da dare ai nostri atti. Che siccome viviamo fra e con gli altri, e senza gli altri non possiamo vivere, quel senso dobbiamo cercare di condividerlo con qualcuno altro da noi. Che questo qualcuno o alcuni dobbiamo scegliercelo/i e con quell'altro o altri dobbiamo dialogare moralmente. Che, soprattutto, dobbiamo scegliere e pagare i prezzi delle nostre scelte diventando di esse responsabili personalmente. Sarà anche personale quel senso, sarà anche temporaneo, certamente non sarà assoluto nel senso in cui le due scuole, con la descrizione delle quali ho iniziato questo sproloquio, intendono, ma deve essere assoluto per noi. O, almeno, dobbiamo far finta che lo sia nel sceglierlo. Si', dobbiamo fare finta sapendo che finta facciamo ma scegliendolo come assoluto nevertheless.
Come colui che, navigando en la mar del poeta, pur sapendo che un giorno il fato lo fermerà in una qualche Itaca che non sa prevedere, punta la prua all'infinito (ah, David Gale, would you ever have expected such a lowly use of your splendid reason of why we solve infinite horizon problems?) e ad ogni alba la riaggiusta verso il nuovo infinito che le onde della notte lo portano a scegliersi. Temporaneo, ma moralmente infinito nevertheless, in quel dialogo che la nostra vita è con noi stessi e quelli attorno a noi che scegliamo per condividere l'andar morale che non possiamo evitare.
Questa, al momento, la mia morale e, se ne avete un'altra, raccontatemela che non mi dispiacerebbe apprenderla. Io per oggi vi saluto qui.
Post molto interessante ma penso che prima di cercare una "Morale" si debba provare a dare un senso alla propria vita nel senso di rispondere alle classiche domande della filosofia.
Ovvero Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, ecc..
Le risposte possono essere diverse a seconda se si ha un senso religioso o no ed ognuno deve fare la sua scelta come diceva Pascal.
Questa scelta non e' per niente facile ma occorre in qualche modo farla.
Fatta la propria scelta ne deriva la "morale" da seguire che per le persone religiose sara' quella della propria religione per gli altri potra essere quella di una delle tante filosofie a cui ci si sente affini (stoica, epicurea, marxista, ecc..).
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